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Il ministro del disboscamento culturale

C’è un ministro della Cultura che dice di amare il cinema, ma nelle carte ufficiali ne programma l’eutanasia. Alessandro Giuli, appena insediato, aveva promesso di difendere «la filiera dell’audiovisivo». Poi, il 17 ottobre, il suo gabinetto ha scritto al Tesoro indicando i capitoli da sacrificare: il Fondo per il cinema e l’audiovisivo doveva scendere da 696 a 400 milioni di euro, cioè 540 milioni di tagli in due anni.

Non un errore, ma una scelta politica. Colpire un settore considerato “ostile” dopo i discorsi di Elio Germano al Quirinale e di altri artisti scomodi. Punire un’industria culturale che dà lavoro a migliaia di persone, vale circa l’1% del PIL e contribuisce più di tanti distretti industriali. Persino i tecnici del Mef hanno frenato, spiegando che un taglio simile avrebbe messo in ginocchio l’intero sistema produttivo.

Giuli, scoperto, ha tentato la contorsione: ha parlato di «fraintendimento» e minacciato querele contro chi ha pubblicato la mail, cioè Repubblica. Ma la mail esiste, è firmata, e racconta la verità di un ministro che considera la cultura una spesa superflua, non un investimento.

In Aula non è un caso che siano arrivate parole nette: Gaetano Amato (M5S) ha chiesto al ministro di riferire «con urgenza», parlando di «gravità inaudita»; Matteo Orfini (Pd) vede una «linea: demolire una filiera industriale perché non gradita»; Elisabetta Piccolotti (Avs) definisce Giuli «ministro contro la Cultura». Intanto Anica e Apa giudicano «devastanti» i tagli e smontano la finta toppa dei 100 milioni spostati dai contributi automatici: una partita di giro, non risorse nuove.

Oggi sarà ricevuto da Giorgetti per chiarire, ma la domanda resta: come può un ministro della Cultura rimanere al suo posto dopo aver chiesto di decimare la cultura stessa?

Buon mercoledì.

Quando i poveri vanno in trincea per i ricchi

Da anni in Italia va in scena un numero di prestigio: far difendere i ricchi dai poveri. Lo schema è semplice. Si parla di una patrimoniale solo sui patrimoni sopra i 2 milioni di euro – circa l’1% del Paese – destinata a finanziare sanità e welfare, cioè ciò che serve a chi non ha santi in paradiso. Eppure la rivolta arriva dal basso. Il ceto medio, gli stipendi da 1.400 euro al mese, i proprietari di un trilocale in periferia. Tutti mobilitati contro una tassa che non li riguarderebbe. Un capolavoro politico.

Il trucco funziona così: si confonde patrimonio con reddito. Si fa credere che “ricco” possa essere chiunque, perfino chi fa fatica a pagare il mutuo. La parola “patrimoniale” viene lasciata marcire come minaccia sulla prima casa, che infatti non è solo un bene: è l’ultimo orgoglio rimasto, il testimone del sacrificio familiare. Toccarla, anche solo evocarlo, è come evocare una rapina a mano armata. Il risultato è che chi non è ricco si sente sotto attacco, e per difendersi difende chi ricco lo è davvero.

E mentre i lavoratori vengono arruolati a protezione dei patrimoni milionari, lo stesso governo che tuona contro l’“esproprio” sta portando a 300.000 euro la flat tax dei paperoni per i super-ricchi stranieri: venite, niente domande, pagate una cifra fissa e tenetevi tutto il resto. Cioè: ai miliardari che arrivano regali fiscali. A quelli che qui ci vivono, “mai una patrimoniale”. È la politica come marketing del lusso.

Il paradosso non è ingenuo. È costruito. Funziona perché lo Stato ha rotto il patto: si chiede di contribuire, ma non si vede il ritorno. E allora la paura diventa identità. Meglio difendere l’illusione della scalata sociale, anche quando l’ascensore è guasto.

In questo Paese la lotta di classe esiste. Solo che marcia al contrario. I ricchi guardano. I poveri combattono per loro.

Buon martedì. 
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Mediterranea di nuovo sottoposta a fermo

Per la nave ong “Mediterranea” ci sarà nuovamente l’applicazione del decreto Piantedosi.

La nave era stata obbligata all’àncora al porto di Trapani da un fermo amministrativo, per essersi rifiutata di arrivare fino al porto assegnato di Genova per far sbarcare gli 11 migranti tratti in salvo in zona SARS libica.
Il fermo amministrativo era stato poi revocato dal Tribunale di Trapani il 9 ottobre scorso e la ong era potuta, finalmente, tornare a svolgere il suo compito in mare.

La missione di “ripresa” è stata impegnativa fin dal principio.
Venerdì scorso, al largo di Lampedusa, “Mediterranea” si era imbattuta in un respingimento fantasma: un barchino vuoto, predato dalle milizie libiche dopo aver catturato i naufraghi per riportarli in Libia.

Sabato 1 novembre, rispondendo ad un May Day Relay di Frontex, la nave ong ha tentato un salvataggio di 40 persone a 30 miglia dalla costa della Libia, che però sono state intercettate dalla guardia costiera libica, tratte in “salvo” e, anche in questo caso, li ha riportati nei centri di detenzione libici.

Domenica 2 novembre, in zona SAR italiana, “Mediterranea” trae in salvo 65 persone in due diverse operazioni.
I migranti, partiti da Zuara, erano in viaggio da quattro giorni, a disposizione poca acqua, niente cibo. Erano disidratati, avevano viaggiato in condizioni estreme e venivano da situazioni di violenze e abusi importanti.

Lunedì 3 novembre, un altro soccorso di 27 persone: a bordo di Mediterranea ci sono 92 persone, di cui 31 minori non accompagnati.
C’è anche una donna incinta di 4 mesi, che scopre da un’ecografia fatta dal medico di bordo, Gabriele “Mimmo” Risica, di aspettare un maschietto.
I naufragi sono di 19 nazionalità diverse ma con una storia comune di violenze, schiavitù e la comune speranza di una vita migliore, al sicuro.

La capo missione, Sheila Melosu, ed il capitano di “Mediterranea” chiedono che venga assegnato il porto di sbarco più vicino.
Dal Viminale assegnano Livorno, che equivale a quattro giorni di navigazione con mare grosso: le persone soccorse vomitano, non mangiano, non bevono, sono fortemente disidrate e con le condizioni di vulnerabilità in accrescimento.

Già nella giornata di Lunedì gli avvocati di “Mediterranea” si erano rivolti al Tribunale dei minori di Palermo che ha accordato lo sbarco dei minori a Porto Empedocle, a causa della precarietà delle condizioni di bordo e della promiscuità con gli adulti.

Ma l’MRCC ha concesso il trasbordo dei minori in mare e non ha assegnato una banchina alla nave. Una soluzione inaccettabile per l’equipaggio di “Mediterranea”, perché negare lo sbarco ed i soccorsi sanitari agli altri 61 naufragi in tempi brevi significa che il governo italiano si appresta a violare, ancora una volta, il diritto internazionale ed i diritti umani.

Così, alle 16.30 di martedì 5 novembre, “Mediterranea” è entrata ed ha ormeggiato alla banchina “Sciangula” di Porto Empedocle. La successiva visita dell’USMAF col medico della sanità marittima ha innalzato la tensione tra i naufraghi.

L’USMAF infatti effettua una vera e propria “selezione” – termine orribile che rievoca un momento storico in cui la disumanizzazione dell’uomo non ha avuto eguali – scegliendo in base a criteri di urgenza, chi può sbarcare e chi deve proseguire i viaggio verso Livorno. I naufraghi, temendo di essere rimpatriati in Libia, hanno iniziato a minacciare atti di autolesionismo.

Per l’equipaggio di “Mediterranea”, lo sbarco dei minori ed il proseguimento verso il porto assegnato non è un’opzione: non è un capriccio, non è nemmeno un atto di disobbedienza al decreto Piantedosi, è l’affermazione del diritto di sbarco per tutti, è l’obbedienza alle leggi internazionali e alla Convenzione di Amburgo. É un “no” di resistenza che, ad oggi, solo “Mediterranea” ha opposto ad un decreto inumano ed insensato.

Anche perché, i naufraghi sbarcati dalle navi ong al centro e al nord Italia, non infrequentemente vengono poi condotti via terra in centri al Sud Italia, a Reggio Calabria o in Puglia per esempio, via terra. Il vero scopo di assegnare un porto così distante è quello, scientifico, di riuscire a tenere le navi-soccorso più lontane possibile dal Mediterraneo, cosicchè le motovedette libiche possano agire indisturbate nel rintracciare i barconi e reimmettere i naufragi tratti “in salvo” nel circuito schiavista libico.

Intorno alle ore 18 di martedì è stata notificata una “diffida” da parte della Capitaneria di Porto Empedocle che intimava a nave MEDITERRANEA “successivamente allo sbarco dei soli minori, di riprendere la navigazione senza ritardo con i restanti migranti a bordo verso il POS originariamente assegnato e individuato nel porto di Livorno.”

“Siamo di fronte a un atteggiamento assurdo: da una parte sono state evidentemente riconosciute le condizioni di vulnerabilità fisiche e mentali che non avrebbero consentito ai naufraghi di affrontare altri tre giorni di navigazione e ulteriori sofferenze verso il lontano porto di Livorno.
Dall’altra, con questa diffida, le Autorità minacciano ingiustificate ritorsioni contro la nave MEDITERRANEA, colpevole solo di aver adempiuto al proprio dovere a tutela dei diritti fondamentali alla vita e alla cura delle persone soccorse e nel rispetto del diritto marittimo e umanitario, internazionale e nazionale”, dicono da Mediterranea.

Ma la ong non molla, sa che un altro fermo amministrativo non glielo toglie nessuno e sarà ancora più aspro dei 60 giorni inflitti a fine agosto, quando fece approdo nel porto di Trapani, perché “Mediterranea” è considerata recidiva.
Una recidiva che è resistenza, che a colpi di ricorsi sta facendo giurisprudenza in opposizione ad un decreto che punisce chi salva vite vite umane, una giurisprudenza che, come accade troppo spesso in Italia, arriva prima della politica.

“Mediterranea” non molla, e alle 19.35 di martedì tutte e 92 le persone salvate vengono sbarcate.

Ed ora a Sheila, a Mimmo, a Cecilia, Denny, Fatima ed ai membri della ong non resta che aspettare l’ennesima sanzione, l’ennesimo fermo che impedirà loro di salvare uomini e donne, di salvare vite umane che andranno perdute, inghiottite dal mare o dalla ferocia libica.

l’autrice: Valentina Colli è archeologa, attivista e collaboratrice TrapaniSI

I leccapiedi dei ricchi

In fondo la manovra è tutta qui: un governo che si toglie il cappello davanti ai più ricchi e volta le spalle a chi lavora. I numeri lo hanno detto prima della piazza: Istat, Bankitalia e Corte dei Conti hanno definito la legge di bilancio socialmente ingiusta. Il taglio dell’Irpef premia soprattutto l’8% dei contribuenti con redditi più alti: secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio, il 50% dei benefici finisce nelle tasche di uno su dieci. Agli operai arrivano in media 23 euro l’anno, agli impiegati 123, ai pensionati 55. Ai dirigenti 408. È la fotografia di un Paese che viene raccontato come “medio”, ma in cui la maggioranza scivola verso il basso mentre una minoranza viene protetta dal potere.

La Cgil ha proclamato lo sciopero generale del 12 dicembre. Chiede di finanziare sanità, scuola e salari, la carne viva della vita quotidiana. Propone una patrimoniale leggera: un contributo dell’1% sui patrimoni sopra i due milioni di euro. Parliamo di circa 500 mila persone per 26 miliardi di euro. Risorse reali, senza magie contabili, per pagare asili, medici, rinnovi contrattuali, liste d’attesa che non finiscono.

La risposta del governo è stata una risatina: «Scioperano di venerdì». La battuta al posto della politica. La stessa ironia disinvolta di chi non ha mai dovuto guardare il prezzo del dentifricio o del pane.

C’è una metro di distanza tra chi deve scegliere se pagare l’affitto o il dentista e chi governa come se il Paese fosse un club ad accesso riservato. In questa manovra lo Stato non redistribuisce: accompagna chi sta già in alto e lascia che il resto scivoli. È una scelta. Consapevole. E quella scelta è contro la maggioranza degli italiani. Lo dicono i numeri, mica i giornalisti. 

Buon lunedì. 

Consiglio dei ministri foto gov

Fuori gli inquilini, dentro i turisti. È la legge del profitto

Carla ha quasi 50 anni. Un tirocinio formativo da 500 euro al mese, cui aggiunge poche ore a settimana come lavoratrice delle pulizie. Una madre che vive con lei e che contribuisce alle spese, per quanto una pensione minima permetta. A febbraio, per fine locazione, Carla è stata sfrattata dall’appartamento in cui viveva in affitto, 600 euro al mese. Non le hanno proposto alcuna proroga. Eppure Carla è quella che in banca chiamerebbero “buona pagatrice”: mensilità pagate sempre, sempre per tempo.
In una città come Napoli non basta più. Il proprietario dell’immobile ha deciso che Carla e la madre dovevano andar via perché lì non c’era più posto per una famiglia nata, cresciuta, vissuta da generazioni al centro della città. Quel posto, oggi, è per i turisti che affollano la città.
Carla è stata sfrattata non perché morosa, ma perché il proprietario ha deciso che doveva fare più soldi. Gli affitti brevi si sostituiscono ai “lunghi” non perché i proprietari hanno paura di trovare inquilini morosi e difficili da buttar fuori, ma perché vogliono fare più soldi.
Oggi Carla è riuscita a trovare un altro appartamento, ma solo con contratto a uso transitorio. Da 600 euro al mese l’affitto è schizzato a mille euro. Sta cercando un’altra casa, ma non la trova. Non a un costo accessibile con i bassi salari che continuano a piagare la nostra città. Non certamente in quei luoghi della città che lei e la mamma hanno sempre vissuto, nei quali hanno costruito abitudini, conoscenze, relazioni. In una parola: vita.
In che modo la politica sta affrontando le questioni che solleva la storia di Carla? Una storia che non è individuale, ma sempre più di tante e tanti nelle città metropolitane.
Tra il 2022 e il 2023 gli affitti sono schizzati in alto del 14,2% nelle principali città italiane. Col picco di +19% a Milano e un enorme +15,8% a Napoli. La vicina di Carla è una donna di 80 anni. Da poco vedova. Morto il marito non sa più come sostenere il peso di un affitto da 750 euro per una stanza da letto e una cucina. Sta per trasformarsi in “morosa”. Rischia di essere sfrattata tra non molto. “Morosità incolpevole” la chiamano: quando non paghi non perché vuoi fare il furbo, ma perché non riesci più a sostenere il peso dell’affitto. Perché magari sei stato licenziato, perché è scaduto il contratto di lavoro, perché ti sei ammalato o perché è morta la persona che contribuiva in maniera decisiva alle spese.

Quali strumenti la politica mette a disposizione di persone come Carla e la sua vicina? Il governo Meloni ha portato in Parlamento una norma che prevede lo sfratto rapido di chi non paga anche solo due mensilità consecutive. Esultano quelli che “la proprietà privata è sacra”. Ma la domanda che dovremmo farci è: dove andranno a finire le Carla di questo Paese? A dormire in macchina o sotto a un ponte? La stessa Onu prevede il principio “da casa a casa” e cioè la necessità di individuare una soluzione abitativa alternativa prima di procedere a uno sfratto, a maggior ragione dove ci sono condizioni di sofferenza e fragilità.
La verità del nostro Paese, però, ci dice che queste alternative spesso non ci sono. Non ci sono nel mercato privato, perché i prezzi degli affitti sono schizzati e sono sempre più insostenibili per salari da fame e fermi.
Non ci sono nemmeno nel pubblico. La disponibilità di case popolari è inesistente: se qualche anno fa in Italia 4 immobili su 100 erano case popolari, oggi la percentuale è scesa ulteriormente e siamo crollati a un misero 2-3%. In Francia sono 16 su 100; nel Regno Unito 18 su 100; in Olanda addirittura 30 su 100.
Nella Regione in cui vive Carla, la Campania, nel 2022 sono state aperte le procedure per l’iscrizione all’anagrafe del fabbisogno abitativo per i nuclei con ISEE massimo di 15.000 euro: nel febbraio 2023 è stata pubblicata la graduatoria. Il risultato? 31mila nuclei familiari idonei, di cui circa 9mila nel solo comune di Napoli.Provate a indovinare a quante case popolari potranno accedere le famiglie in graduatoria nel capoluogo partenopeo? A febbraio 2023 Napoli Servizi lo comunicava ufficialmente: solo 23 alloggi disponibili.

Giorgia Meloni al meeting di Comunione e Liberazione aveva affermato:“Senza una casa è più difficile costruirsi una famiglia”. A queste parole ci si sarebbe potuti aspettare facesse seguito un Piano Casa, con lo stanziamento delle risorse necessarie, ad esempio, per rimettere a posto le 100mila case popolari vuote, inagibili, abbandonate; per acquisire nuovo patrimonio abitativo – a consumo suolo zero – fino a un milione di immobili, per rispondere al bisogno di un tetto delle 650mila famiglie che attendono nelle graduatorie. O, ancora, un tetto al prezzo degli affitti, magari parametrato all’inflazione, così da impedire ci siano altri Antonio, ricercatore universitario, che, sempre a Napoli, alla scadenza del contratto 4+4, si è visto fare un’offerta oscena: vuoi rimanere nella casa in cui vivi da anni e anni? Paga il doppio di quanto hai pagato fino a oggi, non più 750 ma 1.500 euro al mese. Antonio e la compagna sono stati sfrattati. Per far posto a una nuova famiglia, magari con maggiore capacità di spesa? Ovviamente no, via le famiglie e dentro i turisti! Sembra, invece, che l’urgenza del Governo Meloni non sia mettere un tetto sulla testa alle famiglie, ma toglierlo a chi oggi ce l’ha.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo

Si chiama gerarchia sociale. E continua

Chiamano “riforma fiscale” ciò che è, semplicemente, una scelta politica: premiare chi sta meglio e fingere che sia un premio per tutti. I dati dell’Ufficio parlamentare di bilancio sono lineari, quasi imbarazzanti per quanto sono nitidi. Ai dirigenti vanno in media 408 euro l’anno. Agli operai 23. Una moneta da un euro e novanta al mese. Come un caffè all’autogrill, senza brioche. Il taglio dell’Irpef sbandierato come “sollievo al ceto medio” si rivela la solita partita truccata: la gran parte delle risorse finisce nel quinto più ricco del Paese. E tutti gli altri restano nella fila, in attesa di una promessa che non arriva mai.

La metafora sportiva del ministro Giorgetti, quella del piccolo che “non può sfasciare il mondo” e quindi deve giocare in difesa, racconta meglio della relazione tecnica il punto politico. Non si governa: si subisce. Non si sceglie: si obbedisce. Il nuovo Patto di Stabilità imposto da Bruxelles stringe il margine di spesa all’1,6% annuo per cinque anni. E allora la manovra diventa un esercizio di miseria contabile: coperture che non coprono, interventi “temporanei” che durano abbastanza per diventare ingiusti, un sistema fiscale che continua a piegarsi su sé stesso fino a spezzarsi.

La Corte dei conti lo dice, Bankitalia lo ripete, l’Istat lo conferma. Ma al governo interessa l’immagine, non la sostanza. La foto del “ceto medio salvato” deve rimanere nitida, anche se nella realtà è un’immagine sfocata dove qualcuno sorride e molti non compaiono nemmeno.
C’è un filo rosso che attraversa ogni scelta di bilancio degli ultimi anni: rendere accettabile la diseguaglianza, trasformarla in normalità, farne persino un merito. Come se fosse inevitabile. Come se fosse la natura delle cose.

La chiamano riforma. Si chiama gerarchia sociale. E continua.
Buon venerdì.

La storia dimenticata

Il comune sentire di chiunque è quello per cui il bambino è un innocente, qualcuno che non ha fatto nulla, che è indenne da ogni possibile volontà negativa che invece riguarderebbe chi è più grande.
E altrettanto ovviamente la reazione che certamente la gran parte delle persone comuni ha verso un bambino è sempre di gentilezza, affetti di amore e tenerezza, sorriso e ascolto, stupore. È comune ed ovvio pensare ai bambini come di quella fase della vita in cui gli esseri umani sono spontaneamente buoni e belli. Allo stesso tempo però, siamo immersi in una cultura e conosciamo una storia per cui il bambino viene detto essere una realtà bella ma incompatibile con la durezza del vivere. Come se egli, non avendo possibilità di rapporto con la realtà materiale, riscontrabile nella inettitudine e necessaria dipendenza del neonato dall’adulto che lo accudisce, abbia una mancanza che va colmata per formare l’essere razionale, scientifico nel suo rapporto con la realtà materiale.

Non viene pensato che non ci sia alcuna mancanza ma possibilità che hanno bisogno di tempo per svilupparsi. Si pensa invece ad una staticità, ad una atemporalità del bambino e ad una necessità di riempire un vuoto che esiste solo nella mente di chi lo pensa.
C’è quindi questa doppiezza, per cui da una parte il bambino è “pulito”, non ha colpe perché non ha “fatto niente di male”, ma contemporaneamente questa sua innocenza, come direbbe un religioso, è qualcosa che va eliminato al più presto per costruire un adulto che si irregimenti nelle file della società e delle sue necessità di produzione.
È un pensiero mostruoso quello di credere che la realtà dell’adulto sia nel momento in cui il bambino che era non c’è più. Nel momento in cui gli affetti e il sentire di cui il bambino è straordinariamente dotato siano qualità che vanno del tutto eliminate per formare il cittadino modello.

Quante volte viene proposta dalla cultura, l’idea che gli affetti disturbino il pensiero, siano causa di confusione. Il bambino viene codificato come alieno al mondo degli adulti, come qualcosa di estraneo, che non può restare così com’è, con quel pensiero irrazionale. Deve adeguarsi alla società e alle sue regole. Volutamente dimenticando che ogni adulto è stato bambino. O meglio forse codificando che una società a misura di bambino non potrebbe mai funzionare, per cui è meglio fare in modo che tutto nella cultura e nella società, sia codificato in modo da portare a questo risultato: per creare l’adulto il bambino deve dimenticare sé stesso, deve perdere la sua infanzia felice e la gioia di vivere. Per ottenere questo si sono inventate storie false, la prima delle quali è quella che dice che il bambino nasce cattivo. Sarebbe spontaneamente violento perché polimorfo e perverso e avrebbe pensieri distruttivi verso il mondo. Soltanto l’educazione e il contenimento di tali pensieri operato dai genitori e dalla società permetterebbe al bambino di non realizzare la sua realtà di serial killer… già perché per alcuni il bambino è questo.

Un rovesciamento completo della realtà. Una bugia terribile che ha come scopo il mantenimento del dominio sulla mente degli esseri umani. Se infatti si riesce a convincere le persone che il bambino che sono state era un essere spontaneamente violento e potenzialmente pericoloso per sé e gli altri, ecco che l’eliminazione di tutto ciò che era quel bambino appare come qualcosa di molto positivo. E con ciò l’adeguarsi ad ogni ordine e regola che abbia come scopo contenere quella fantasia e pensiero irrazionale del bambino…
A questo scopo per prima cosa opprimere le donne, pensarle come esseri inferiori. Esse per prime non devono permettere al bambino di realizzare la propria fantasia, non devono permettere al bambino di crescere senza perdere se stesso. Ed ecco che le donne sono state oppresse e violentate.

È una storia di migliaia di anni che ancora oggi si vede nei femminicidi. Ci sono voluti migliaia di anni e chissà quante donne e bambini che hanno avuto la forza di resistere e di ribellarsi alla dittatura della ragione che sacrifica tutto ciò che non è se stessa con la scusa della sopravvivenza. Ci sono voluti tutti quegli esseri umani che non hanno perso la propria fantasia di bambino e sono riusciti a comunicare agli altri che un’altra realtà esiste, che un altro mondo è possibile. Sembrano concetti scontati, sembrano cose poco importanti. Sembra qualcosa di assurdo nella misura in cui si pensa alle straordinarie riuscite economiche e di conoscenza della realtà della “società razionale” che ha eliminato il bambino. Ma in realtà il pensiero su cosa sia il bambino è fondamentale. E la domanda “definisci bambino” nella sua completa follia ci deve far aprire gli occhi su cosa la cultura attuale pensa in effetti dei bambini e dell’inizio della vita umana. Qualcosa che appunto è ovvio e scontato per chiunque ma che non sembra affatto scontato e ovvio per una cultura che ha ancora un’idea di bambino spontaneamente violento e quindi di essere umano adulto che è violento se non viene educato e costretto a non esserlo.
Bene ma ora il lettore potrebbe chiedersi, questi argomenti che potrebbero essere concetti e idee adatte ad un convegno di antropologia o psicologia dell’età evolutiva, cosa c’entrano con la politica e in particolare con una politica di sinistra?

C’entrano moltissimo perché la crisi delle sinistre è proprio nella carenza di una visione esatta della realtà umana. E tale visione esatta ha nel pensiero sul bambino un concetto cardine. Perché si connette all’origine del pensiero umano, a come esso si forma e si struttura a realizzare il pensiero dell’adulto, attraverso quali dinamiche.
La Sinistra dovrebbe comprendere come la dinamica fondamentale della vita umana sia la trasformazione che va intesa come realizzazione mentale che permette un’evoluzione del pensiero senza che ciò che si era prima venga perduto. E va compreso come la trasformazione, nella misura in cui sia realizzazione senza che il passato, il rapporto avuto, si perda, significa possibilità di vedere e sapere e, di conseguenza, fare. Ovvero comprendere come essa sia politica, un fare in rapporto con la realtà e in particolare la realtà umana. La Sinistra potrà realmente esistere solo nel momento in cui avrà una visione chiara e certa dell’essere umano ed in particolare quando comprenderà la storia dimenticata della donna e del bambino che noi tutti siamo stati.

Foto di Farid Ershad su Unsplash

Chi ha paura delle donne e dei bambini

Di fronte all’immane tragedia di 20mila bambini uccisi a Gaza, l’intimazione «Definisci bambino» di un ospite di un talk show italiano, non sarebbe una notizia. Se non fosse che plasticamente ha reso evidente quanto nel discorso pubblico i bambini palestinesi siano stati negati nella loro realtà, prima ancora di essere stati affamati, terrorizzati psicologicamente, mutilati e uccisi dall’esercito di Netanyahu. Quell’ignominioso «Definisci bambino» è ricomparso poi, trasformato nel senso, a lettere cubitali sui cartelli mostrati proprio da ragazze, ragazzi e bambini nelle tante manifestazioni nonviolente che hanno acceso le piazze italiane. È diventato il grido di rivolta contro la disumanità, per fermare il genocidio a Gaza perpetrato in diretta, sotto i nostri occhi, e senza che le istituzioni europee (in cui pur ancora confidiamo) intervengano per fermarlo.

Ma lo sterminio non sta avvenendo “solo” a Gaza, l’eccidio investe decine di migliaia di bambini negli oltre 50 conflitti che sono in corso nel mondo, molti dei quali dimenticati.
Lo testimoniano in modo dirompente le parole di un bambino soldato (il cui vero nome deve restare protetto) che Luca Cascavilla ha raccolto per Left nella Repubblica democratica del Congo: un’intervista che vi proponiamo nella sua interezza e che lascia senza fiato. I bambini vittime di guerra sono una inaccettabile realtà quotidiana, su cui non si possono chiudere gli occhi. Per fortuna – potremmo dire – la gran parte dei bambini nel mondo non vivono in realtà di conflitto. Ma pur con tutte le distinzioni del caso, non possiamo tacere neanche sul fatto che, anche in quelle che consideriamo civiltà progredite, esiste una violenza forse meno tangibile ma che impedisce loro di vivere una infanzia felice e di crescere sviluppando a pieno le proprie possibilità.

Di questa violenza “invisibile” è impregnata profondamente anche la nostra società che ha radici nella paideia greca che – come ha documentato in tanti libri Eva Cantarella – era basata sulla pederastia e usava la violenza sessuale, che è in primis psicologica come rileva la moderna psichiatria, per forgiare il cittadino del futuro. Come scrivono su Left Emilia Colosimo e Giulia Spurio la storia occidentale ha a lungo visto il bambino come babbeus, materia muta da educare, mentre il cristianesimo ha sempre negato la nascita sana dei bambini, gettando loro addosso la croce del peccato originale. Idee poi riprese da Freud, il padre della psicanalisi che nacque morta avendo definito il bambino come «perverso polimorfo», contro ogni evidenza e comune esperienza di vita. Animaletto da addomesticare, piccolo demone tentatore (come dicono i preti pedofili per tentare di difendersi facendo appello alla formazione ricevuta in seminario), incapace di pensiero razionale e perciò essere inferiore, oppure reso astratto, negato nelle sue esigenze umane più profonde e appiattito in una stereotipia da angioletto.

L’ombra lunga di questi pensieri violenti sui bambini è arrivata fino a noi. Basti dire che solo con la Convenzione Onu del 1989, ratificata dall’Italia nel 1991, la tutela dei diritti dei minori viene riconosciuta come un dovere dei Paesi membri.
Con ciò, purtroppo, alcuni bambini, ancora oggi, sono considerati meno esseri umani di altri. E dunque gli si può fare impunemente qualsiasi cosa, come suggerisce il sottotesto dell’ospite di quel talk show. Ce lo dice la feroce deumanizzazione di cui sono stati vittima i bambini a Gaza e in Cisgiordania, diventati target dell’esercito israeliano e dei loro strumenti di guerra automatizzata dai nomi eloquenti come Where is daddy?, e presi di mira dai coloni in Cisgiordania. Ce lo diceva già la morte di Aylan Kurdi, annegato il 2 settembre del 2015 insieme al fratellino e alla madre perché il gommone su cui erano saliti per fare una traversata di 30 minuti da Bodrum a Kos era stato sovraccaricato dai trafficanti di esseri umani per lucrare sulla loro disperazione.

La foto di Aylan senza vita sul bagnasciuga fece gridare di dolore il mondo intero. L’immagine di quel bambino, evocato nel potente disegno di Marilena Nardi che pubblichiamo in copertina, è diventata il simbolo universale di un “mai più” che pareva farsi risposta politica e umanitaria. E invece, come ricordano Marco Aime e Federico Faloppa nel loro nuovo libro I morti degli altri (Einaudi), per tutta risposta, arrivarono politiche brutali. Come quella dell’allora ministro dell’interno Salvini che chiuse i porti alle barche di search and rescue delle Ong contribuendo a far diventare la rotta del Mediterraneo la più pericolosa al mondo. In un decennio migliaia di altri bambini hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere un approdo, un futuro possibile in Europa. Ma non hanno fatto più notizia, troppo diversi dai nostri bambini dalla pelle bianca, per essere presi in considerazione. Il principio best interest of the child per i minori migranti dal Sud del mondo, (molti dei quali non accompagnati) non è mai diventato criterio operativo: mancano valutazioni d’impatto sui minori per ogni legge, manca la protezione effettiva umanitaria, mancano corridoi sicuri.

E allora torniamo a quella frase,«Definisci bambino». Torniamo all’inizio del nostro discorso. «E donna», abbiamo aggiunto in copertina. Perché una storia comune, millenaria, di discriminazione, di negazione e annullamento, accomuna donne e bambini.
Maria Gabriella Gatti ricostruisce questa cancellazione con rigore scientifico: dalla filosofia antica alla teologia, fino alle scienze che hanno patologizzato la differenza, il femminile è stato ridotto a materia da governare, l’infanzia a materia da plasmare. Questa costruzione culturale patriarcale – che si traduce come vediamo oggi in spinta alla militarizzazione e sfruttamento di chi è giudicato inferiore – va vista con chiarezza nella sua pervasività e va radicalmente smontata, perché continua a generare violenza, di cui i femminicidi sono, purtroppo, drammaticamente, solo la punta dell’iceberg. Certo in Italia abbiamo fatto passi enormi nella conquista dei diritti delle donne e dei bambini grazie ai movimenti delle donne come l’Udi (l’Unione donne in Italia), nata dopo l’8 settembre del ‘43 dai movimenti di difesa della donne, nerbo della Resistenza, centrale nella conquista del voto delle donne (che scelsero in massa la Repubblica) e poi avanguardia nelle battaglie per il divorzio, per la riforma del diritto di famiglia, l’aborto e per il disarmo e la pace. A 80 anni dalla nascita del movimento va rilanciata quella battaglia politica e intersezionale, insieme alle giovani di Non una di meno e di altri movimenti, a partire dalla ricerca sul campo. Su Left ci ricorda l’importanza di questo tipo di ricerca Donata Columbro con la sua inchiesta. Contare i femminicidi non è un fatto meramente numerico ma politico. Senza trasparenza, definizioni chiare, analisi sui dati disaggregati, i fenomeni scompaiono alla vista dei più. E quando la realtà sparisce dai registri, prosperano negazionismo e impunità. Contare è il primo atto di cura pubblica. Solo così si possono progettare prevenzione e giustizia. Senza un’indagine nazionale indipendente sugli abusi dei preti pedofili sui bambini, senza obblighi di trasparenza per tutte le istituzioni, continueremo a dire “mai più” mentre accade ancora, come scrive Federico Tulli.

Poi dall’interpretazione dei dati bisogna passare alle scelte politiche, che la destra al governo all’insegna di dio patria e famiglia si guarda bene dal compiere, essendo intrisa di ideologia religiosa, misogina e razzista. Per questo serve una sinistra laica, con le idee chiare sulla realtà umana, che sappia fare scelte politiche lungimiranti per rispondere ai bisogni ma anche alle esigenze di realizzazione di sé delle persone, valorizzando le differenze, che sono un elemento di ricchezza. Come scrive Matteo Fago: «La Sinistra potrà realmente esistere solo quando comprenderà la storia dimenticata della donna, e del bambino che noi tutti siamo stati».

In apertura, disegno di Marilena Nardi

Alla ricerca del suono di Modigliani. A colloquio con Michele Dall’Ongaro

Nato in una famiglia di musicisti Michele Dall’Ongaro si è da sempre interessato alla divulgazione musicale. Ha da poco lasciato l’incarico all’Accademia di Santa Cecilia ed ora, dopo aver portato in Oman il suo Robin Hood su libretto di Vincenzo De Vivo, si appresta a scrivere un’opera su Amedeo Modigliani. Nel frattempo ha registrato una Suite per violino e orchestra dallo Schiaccianoci di Čajkovskij, dalla Philarmonia di Londra con Chiarlie Siem e Oleg Caetanij. E ha realizzato per Rai 5 uno speciale mentre per Rai Radio 3 curerà un ciclo di conferenze multimediali sulla musica del Novecento. E come se non bastasse sta scrivendo un libro su Claudio Abbado con Daniele Abbado.

Maestro Dall’Ongaro durante la sua direzione all’Accademia di Santa Cecilia ha fatto innovazione, realizzando molti progetti. Ha aperto le porte di Santa Cecilia alla città, ha incoraggiato sempre più la divulgazione e la didattica. Ha lavorato a lungo con il direttore Antonio Pappano e poi ne ha scelto il successore, Daniel Harding. Quale bilancio di questi anni?
Beh, non sta a me dirlo, ma posso dire che ho trovato a Santa Cecilia un ambiente per me naturale. La frequento da quando avevo tre anni, per molti anni sono stato abbonato, poi sono diventato accademico e successivamente vicepresidente di Bruno Cagli. Infine, sono stato eletto presidente e poi confermato per un secondo mandato. In Accademia i cambiamenti devono essere graduali ma costanti, sempre alimentati dalla ricerca, lasciando che dall’esterno si respiri continuità ma anche innovazione: come diceva Massimo Bontempelli «la tradizione è una concatenazione di rivoluzioni». Quando sono arrivato a Santa Cecilia ho trovato una situazione molto positiva dal punto di vista gestionale e artistico, era come guidare una Ferrari. Ma abbiamo subito dovuto svolgere un grande lavoro per affrontare due fatti drammatici: l’acuirsi della crisi finanziaria globale e il Covid-19. Abbiamo lavorato d’anticipo per cercare di arginare i problemi e far funzionare al meglio le cose; in questa operazione, condotta insieme a tutti i lavoratori della Fondazione, siamo stati sostenuti dal contributo di soci pubblici e privati, dal ministero della Cultura, da mecenati e abbonati. Il loro apporto è stato fondamentale anche per garantire l’occupazione e creare nuove proposte artistiche, portando avanti il dialogo con la nostra comunità. Il pubblico tradizionale non ci ha mai abbandonato, così come quello nuovo raggiunto sul web. Accanto alla stagione in abbonamento, abbiamo costruito e arricchito un reticolo di attività allo scopo di rafforzare un’idea di pólis: la bibliomediateca, le pubblicazioni, i convegni, i corsi di alto perfezionamento, la JuniOrchestra, i tanti cori giovanili, l’investimento sul patrimonio popolare, l’attività educativa, il coro e l’orchestra amatoriale, la divulgazione nei teatri e sui social, la collaborazione con altre istituzioni e associazioni, una banda. Un certo tessuto dell’Italia musicale si regge su queste due realtà: i cori amatoriali e le bande; è quindi necessario osservare questi fenomeni con interesse, senza snobismi.
E il Parco della Musica?
La nascita del Parco della Musica è stato un evento importantissimo per lo sviluppo della vita dell’Accademia. Si riflette raramente sull’importanza

“Io l’arte contemporanea non la capisco”

L’arte contemporanea vive di una contraddizione fondamentale tutta sua. Tutti ne parlano, ma pochi la capiscono: “Potrei farlo anch’io!”, “Lo può fare anche un bambino!”. Cose che non si direbbero per la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto a Padova, per l’Ultima Cena dipinta da Leonardo da Vinci nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, o per il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina a Roma.

Da dove cominciare a scrivere sul tema in questione? Comincerei da mia madre. Una donna colta, insegnante di lettere, che amava ogni forma di cultura, che dichiarava di non capire l’arte contemporanea. Le piaceva ciò che era “bello” e “fatto bene” – l’arte contemporanea non le sembrava esserlo. Non era figurativa e quindi non poteva essere ricondotta a noti eventi storici, culturali o religiosi. Mia madre si sentiva estranea ad un’arte che non conosceva bene. Passammo tempo insieme alla Tate Gallery a Londra a considerare un’opera che le risultava ostica. Equivalent VIII (1966), comunemente chiamata The Bricks, 120 mattoni refrattari, sistemati a terra a due strati, in un rettangolo 6×10 dell’americano Carl Andre, protagonista della Minimalist Art che negli anni Sessanta limitò al minimo – per l’appunto – l’intervento e la manualità dell’artista ridefinendo il concetto di scultura e riducendo materiali ed elementi compositivi, Piu’ mia madre guardava i mattoni, più ne parlavamo e li analizzavamo, meno vi resisteva. L’apprezzamento non fu immediato, ma dopo poco mia madre finì per capire l’opera o per volerla capire. La sua affermazione iniziale era stata: «Vuoi mettere un dipinto di Piero della Francesca a confronto coi mattoni di Carl Andre?» E la mia risposta: certo che no, non li metterei a confronto perché sono due cose diverse! Non hanno nulla a che fare l’una con l’altra, ma hanno in comune una cosa: sono tutt’e due in un museo.

Come per mia madre, anche per tanti altri la bellezza di un’opera d’arte è condizione sine qua non. Il bello rasserena, rallegra, “piace”. Per piacerci qualcosa più che passare per il cervello, deve andare dritto al cuore. Dopo tutto, le accademie dove studiano gli artisti sono accademie di Belle arti.

All’origine della resistenza al contemporaneo c’è forse anche la confusione fra arte moderna e contemporanea. La storia dell’arte fa risalire l’arte moderna al periodo che va dalla fine del neoclassicismo alla fine della seconda guerra mondiale (1815-1945), e l’arte contemporanea a dopo il 1945. All’interno di questa confusione ce n’è un’altra: per arte contemporanea in realtà forse si intende arte concettuale – non solo arte dei nostri tempi. L’arte contemporanea è, in fondo estremamente varia: ci sono sì artisti concettuali, ma c’è anche chi dipinge su tela immagini riconoscibili con colori ad olio come per esempio l’artista canadese Lisa Milroy, o la pittrice