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Enrico Terrinoni e la lettura come atto di ribellione

“Perché leggere ancora?”. Con questo interrogativo si apre l’ultimo libro di Enrico Terrinoni, Leggere libri non serve. Sette brevi lezioni di letteratura, edito da Bompiani, che si presenta come una sorta di breviario laico focalizzato su sette grandi nomi di scrittori e scrittrici della letteratura mondiale, che per esplicita ammissione dell’autore richiama le Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, pubblicate da Adelphi.
L’agile libretto di Terrinoni mette al centro di tutto la lettura e la sua importanza, la letteratura e la sua utilità, e il suo servire. «Possiamo girarci attorno e scherzare a lungo, ma il punto resta sempre quello, e riguarda il binomio utilità-inutilità legato alla parola letteraria».

E non può non tornare in mente il nome di un grande studioso e intellettuale, scomparso qualche anno fa, che sulla questione scrisse un intero volume, anch’esso non a caso pubblicato da Bompiani: Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile. Terrinoni come Ordine afferma che la letteratura non può e non deve essere asservita al potere; serve, ma non è mai serva, perché una letteratura serva non è letteratura, e come la lettura è sempre libera e liberatrice.

«Noi leggiamo libri per non servire, e non servire significa capire altro per capire gli altri». Dunque, emerge con forza quel concetto di alterità, che nel caso della lettura per Enrico Terrinoni andrebbe chiamata “altritudine”, declinata alla Bergonzoni maniera: leggere come un “salto in altro”.

Le suggestioni e gli spunti di riflessione nel volumetto di Terrinoni sono molteplici; del resto, la molteplicità è una delle sue marche d’autore, così come la creatività artistica, che è immaginazione, genera moltitudini e insogna all’infinito. Le sette lezioni contenute nel libro sono infatti dedicate a sette concetti chiave, impersonate da altrettanti autori e autrici: la profezia (Oscar Wilde), il sogno (William Blake), l’infinito (James Joyce), l’eresia (Giordano Bruno), la coscienza (Italo Svevo), l’onda (Virginia Woolf) e infine in silenzio (William Shakespeare). La lezione numero 6 riservata a Virginia Woolf e all’onda si apre con una bella citazione del grande poeta irlandese e premio Nobel William Butler Yeats:«Quando suono il mio violino a Dooney/la gente danza come un’onda del mare».

Una citazione che rimanda letteralmente a The Waves della Woolf. Le sue sono

India. Un turbine di quiete

All’inizio dell’estate del 1819 una compagnia di cacciatori britannici marciava nel folto della giungla nei dintorni di Aurangabad, nel Deccan, quando la tigre che stava braccando scomparve in un profondo burrone. Alla guida del gruppo c’era il capitano John Smith, un giovane ufficiale di cavalleria di Madras. Incitando i suoi compagni a seguirlo, Smith si mise sulle tracce della tigre, calandosi lungo la ripida scarpata semicircolare di basalto e attraversando a balzi l’alveo roccioso del fiume Waghur. Da lì si fece lentamente strada attraverso la fitta boscaglia sull’altro lato dell’impervio anfiteatro roccioso. A metà della salita, si arrestò bruscamente. Le impronte conducevano direttamente a un’apertura nella parete rocciosa. Ma era chiaro che quella cavità non era un antro naturale né una grotta scavata dal fiume. Nonostante l’erba alta, i rampicanti invasivi, le piante di pepe e il denso sottobosco spinoso, Smith si rese conto di trovarsi dinanzi a una facciata artificiale, intagliata direttamente nella roccia. Il versante irregolare della scarpata era stato meticolosamente scolpito in un portico perfettamente delineato. Era chiaramente un’opera di grande raffinatezza, ed era altrettanto chiaro che fosse stata abbandonata per secoli. Pochi minuti dopo, il gruppo si inoltrò cautamente all’interno. Smith reggeva una torcia improvvisata di legno ed erba secca, mentre i suoi compagni impugnavano saldamente i loro moschetti. Si ritrovarono in una vasta sala, lunga circa trenta metri e larga dodici, interamente scavata nella viva roccia. Su entrambi i lati, trentanove colonne ottagonali si susseguivano in perfetto ordine. Nell’abside in fondo alla sala si ergeva la cupola circolare di uno stupa buddhista, ricavato, come tutto il resto, nella solida pietra della montagna. Nella semioscurità, gli ufficiali scorsero i contorni sbiaditi di antichi affreschi. Sulle colonne erano raffigurati monaci in piedi su loti blu, con aureole bianche e tuniche arancioni, mentre sui muri di roccia erano dipinti elaborati pannelli ricchi di scene affollate, come se una pergamena miniata fosse stata srotolata lungo la parete dell’abside.

Alla luce tremolante della torcia, gli ufficiali intravidero quelle che descrissero in seguito come « figure con parrucche ricciute». Calpestando un vecchio scheletro umano e altri detriti trascinati nella caverna da generazioni di predatori e animali spazzini, avanzarono un passo alla volta fino a raggiungere una colonna all’estremità della sala, accanto allo stupa. Lì, Smith estrasse il suo coltello da caccia e incise sul corpo di un essere celeste le parole: «john smith, 28° cavalleria, 28 aprile 1819 ». Nei decenni successivi, prima altre compagnie di cacciatori, poi gruppi di archeologi e di indologi seguirono le orme di Smith attraverso la giungla dei Ghati occidentali fino ad Ajanta, a mano a mano che si diffondeva la notizia dell’esistenza, in quel remoto angolo dell’India, di trenta grotte che nel loro complesso costituivano una delle meraviglie del mondo antico. Due di esse – la Grotta 9 e la Grotta 10 – furono presto riconosciute come alcune tra le stanze artificiali più antiche e meglio conservate dell’Asia. Basandosi su evidenze paleografiche, gli studiosi ritengono che furono scavate tra il 90 e il 70 a.C., dunque diverse generazioni prima che Augusto iniziasse a ricostruire Roma. Sui muri delle grotte

A Gaza la guerra è anche contro la memoria

«Possa questa mostra storica (…) contribuire a restituire una speranza nell’avvenire di Gaza ben lungi dai progetti dementi della Riviera e dalle deportazioni forzate dei Palestinesi». Jack Lang, ex ministro francese della cultura e attuale presidente dell’Institut du Monde Arabe, chiude con queste parole l’introduzione alla mostra che a Parigi l’Istituto ha dedicato al patrimonio archeologico di Gaza d’intesa con l’Autorità nazionale palestinese e il Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, che ne aveva ospitato una precedente edizione: Trésors sauvés de Gaza. 5000 ans d’histoire, a cura di Elodie Bouffard e René Elter.

Iniziativa necessaria, non solo perché la sua sezione più forte e toccante è dedicata all’Archéologie à Gaza et le patrimoine en Temps de guerre. Nella chiosa di Lang sono condensati i termini principali della questione: la demenza progettuale sembra aver ispirato la prefigurazione di una volgarissima Gaza trumpiana modello Dubai al cubo, visualizzata dalle ben note clip che svelano il sogno di un mondo totalmente artificiale, in cui non ci sia traccia di un qualsivoglia passato, ma forse neppure dei palestinesi. Che, appunto, potrebbero venir deportati altrove, volenti o nolenti, e magari per sempre. Ma una speranza può venire proprio dall’aggrapparsi quasi disperato alle sorti di un patrimonio culturale che rappresenta un grande serbatoio di energie culturali e morali, per provare a ricostruire un minimo di società civile, salvaguardando quel che rimane di quella schiantata dalle bombe israeliane. Non per caso Lang parla di mostra “storica”, nel senso che è incentrata sulla prospettiva di una parabola che parte dal Neolitico per arrivare alla fine dell’Impero Ottomano. La coscienza storica deve rappresentare l’antidoto al culto dell’anno zero, efficacemente descritto da Frank Furedi (La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica, Fazi, 2025), che nel rigettare ogni eredità del passato finisce per rappresentare il brodo di coltura di ogni speculazione appiattita sul presente. E di fatto impedisce di nutrire una visione del futuro.

La sola logica del profitto non può costruire una civiltà, né permettere la condivisione di valori culturali comuni. Ma chi ha in mano le sorti della Palestina non sembra intenzionato a costruire una civiltà, fosse anche tutt’altra cosa da quella palestinese. L’impressione è che l’annientamento fisico di Gaza (intesa sia come comunità che come paesaggio storicamente stratificato) sia stato ispirato anche da una strategia di smantellamento di quei riferimenti sociali, educativi e culturali che rendono viva e attiva una società. Nel dicembre del 2023 molti

Ilan Pappé: «Solo con la fine del colonialismo di Israele, una pace è possibile»

L’israeliano Ilan Pappé – tra i più autorevoli new historians (un movimento di storici israeliani che sfidano le letture tradizionaliste della storia israeliana) – ha ricevuto il Premio Chiarini a Modena tenendo una lectio magistralis e poi dialogando con il pubblico. Da poco è uscito in Italia il suo libro La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina (Fazi editore). Siamo tornati ad intervistarlo.

Professore, in principio, cos’era il progetto sionista? La sensazione, tra ebrei e non ebrei, specialmente nell’Europa centrale e orientale, era che l’Europa non sapesse come affrontare la propria “questione ebraica”, che gli ebrei non sarebbero mai stati accettati come europei. Così, diversi gruppi di attivisti, intellettuali, politici iniziarono a dire: “Bene, forse la soluzione è che gli ebrei vadano fuori dall’Europa”. E alcuni ebrei dissero: “Noi abbiamo una forte connessione con la Palestina, grazie alla Bibbia, e forse dovremmo ridefinire l’ebraismo non come religione, ma come movimento nazionale, abbiamo bisogno di una patria, quindi torniamo al luogo da cui siamo venuti 2000 anni fa”. Il che storicamente non è vero, perché la maggior parte degli ebrei non proviene dalla Palestina, ma questa è un’altra storia.

I cristiani pensarono che questa fosse una strada da percorrere?
Sì, soprattutto gli evangelisti credevano che andando in Palestina gli ebrei avrebbero aperto alla seconda venuta del Messia, la fine dei tempi. Credevano che tutto ciò fosse parte del piano di Dio. Gli imperialisti britannici intanto pensavano: “Se gli ebrei vanno in Palestina, possiamo togliere la Palestina ai Turchi, all’Impero Ottomano”. La Gran Bretagna decise di sostenere l’impresa, anche se c’erano solo 20mila sionisti in Palestina, sposò il progetto politico per costruire uno Stato ebraico in Palestina. Cominciò così il colonialismo d’insediamento (settler colonialism) in Palestina. Era già successo, quando in Europa una popolazione non era più la benvenuta cercava di costruire una “nuova Europa” altrove – così nacquero gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda. Inizialmente a queste comunità facevano riferimento a un impero, salvo poi cercare di liberarsene lottando contro di esso.

Cosa accomuna i movimenti coloniali di insediamento nelle varie parti del mondo?
In America, in Australia o in Palestina hanno dovuto affrontare tutti lo stesso problema: qualcun altro vive già nei luoghi dove ci si vuole stabilire, quindi si ritiene che la soluzione migliore sia rimuovere o eliminare la popolazione nativa. Il sionismo

Macedonia del Nord, un’isola felice?

Posso parlare della Macedonia del Nord con cognizione di causa, perché d’estate frequento Ohrid, un’antica città (dichiarata patrimonio Unesco) sull’omonimo lago per fortuna ancora (forse per poco) fuori dalle rotte del turismo di massa. Skopje, dove ero già stato qualche anno fa, mi aveva già colpito per la sua singolarità dovuta a una particolare circostanza: il terremoto del 1963 che distrusse l’80% della città. Erano gli anni d’oro dell’esperimento jugoslavo e così architetti rinomati a livello mondiale (tra gli altri il giapponese Kenzo Tange) diedero alla nuova città un volto nuovo, moderno, che nulla aveva a che vedere con le tradizioni locali. L’unica parte della capitale che ha conservato il volto tradizionale anche oggi è quella del mercato, la Čaršija o Stari Bazar (Vecchio Bazar), abitata in prevalenza da albanesi, turchi e rom. Questo quartiere caratteristico, con i vicoli lastricati, le botteghe e le moschee, è circondato dagli edifici ricostruiti secondo i principi del brutalismo (grandi superfici con cemento a vista) portato ai suoi estremi. A ciò si devono aggiungere i numerosi monumenti (il più bizzarro: quello alla maternità che sorge alle porte della città vecchia, con statue dorate monumentali di donne che allevano la prole), sorti a partire dal 1991 (l’8 settembre 1991, in seguito a un referendum popolare, la Repubblica di Macedonia dichiarò l’indipendenza), le statue colossali di eroi (tra cui ovviamente quella di Alessandro Magno), ma anche di intellettuali, scrittori e artisti che diedero lustro alla lingua macedone (che però i bulgari continuano a considerare un dialetto del proprio idioma). Questo caleidoscopio di immagini così contrastanti è forse la migliore rappresentazione delle contraddizioni, da cui sorgono diversi problemi ancora aperti, di un Paese giovane, che approda da pochi anni a una propria statualità e che non può rivendicare una propria “storia” intesa come una narrazione di una propria etnogenesi. A differenza di Serbia, Croazia e Bosnia, prima del 1991 non è mai esistito un regno o un’autorità locale di cui gli attuali macedoni possano dirsi successori o continuatori.

La disputa attorno al nome, che i greci continuano a rivendicare in esclusiva, è dovuta al fatto che gli “slavo-macedoni” (abitanti della Macedonia del Nord) sono arrivati tra il IX e il X secolo, circa nove secoli dopo la morte di Alessandro Magno. Quella che oggi si chiama lingua macedone non era certo quella del condottiero macedone (che fu educato da Aristotele). E il territorio dell’attuale Macedonia del Nord, dopo la battaglia di Pidna del 168 a.C., data in cui entrò a far parte dell’Impero romano, è stato un territorio periferico conteso tra

La sfida del Montenegro

Podgorica -C’è un po’ di traffico, sulla strada che porta all’antica Torre dell’Orologio e poi verso il centro storico di Podgorica. “Buducnost”, si legge nei graffiti in cirillico sull’edificio, sotto la scritta “1925”. È il club calcistico della capitale. Buducnost significa “futuro”. Un futuro che in un paio d’anni potrebbe guardare a Bruxelles. Con lo slogan “twenty-eight by twenty-eight” il Montenegro punta a diventare il 28esimo Stato europeo entro il 2028. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen che si è pronunciata durante una visita a metà ottobre: «Ogni volta che vengo qui sento battere il cuore dell’Europa, è un Paese all’avanguardia nel processo di adesione» ha scritto per poi dichiarare che nel Montenegro vede «un potenziale incredibile e l’obiettivo dell’adesione all’Unione europea è vicino al raggiungimento». Ma è proprio così? Ad oggi, Podgorica ha aperto tutti i 33 capitoli negoziali legati agli ambiti di obiettivi da raggiungere per diventare Stati membri dell’Unione e ne ha chiusi, in via provvisoria, sette. L’ultimo in giugno. Il primo ministro Milojko Spajić punta a completarli tutti «entro la fine del 2026». Poi toccherà a Bruxelles valutare. La vera difficoltà, va detto, non sta tanto nell’aprire i capitoli negoziali quanto, piuttosto, nel portarli a compimento.

Tanti i dottori che negli anni sono emigrati, tanti i professionisti del settore della cura che hanno lasciato il Montenegro. Quali prospettive offrite ai vostri giovani? chiedo al primo ministro durante una conferenza stampa con i giornalisti europei. «Sta cambiando tutto»promette Spajić. E racconta: «Mio fratello fa il dentista in California, mio cugino è neurologo a Monaco. Questo è quel che accadeva prima del 2020. Mia madre era pediatra, è in pensione, riceve 650 euro al mese: l’ammontare del suo ultimo stipendio. A quelle cifre non restava nessuno. Ora un pediatra prende 2.000 euro. Se entriamo in Europa andrà ancora meglio e non ci sarà motivo di andarsene». 38 anni, Spajić ha vinto le elezioni nel 2023 con il partito Europa Ora. Con piglio giovanile, racconta con convinzione ed entusiasmo: «Il nostro ingresso nell’Unione sarebbe un messaggio potente, una bella pagina di storia per il progetto europeo. Altri potrebbero seguire e anche per loro sarebbe un segnale di speranza». È un vento nuovo, quello che soffia a favore dell’allargamento qui, nei Balcani. Lo stallo durava da più di un decennio. L’ultima

Marina Lalović: Vi racconto la rivolta nonviolenta dei giovani serbi

Giornalista, inviata di Rai News24 e voce di Radio3 Mondo, Marina Lalović ha da poco pubblicato per i tipi di Bottega Errante Edizioni un potente memoir dal titolo La cicala di Belgrado. Un avvincente libro autobiografico che intreccia analisi geopolitica e obbliga a una urgente riflessione sul presente. Dalle bombe della Nato su Belgrado del 1999 alle proteste di oggi dei giovani serbi che lottano per elezioni democratiche. L’abbiamo incontrata in occasione dei Dialghi di Trani 2025.

Marina Lalović con gli accordi di Dayton del 1995 fu congelato il conflitto nei Balcani ma tanti problemi rimasero irrisolti e lo sono anche oggi?
Da un lato gli accordi di Dayton possono essere visti come una grande fallimento, ma dall’altro sono stati un grande traguardo perché innanzitutto hanno posto fine alla guerra nella ex Jugoslavia. Certo, nella memoria resta la foto di Slobodan Milošević, (in qualità di presidente della Repubblica federale di Jugoslavia che rappresentava anche i serbi di Bosnia ndr), Franjo Tuđman, (presidente della Croazia) e Alija Izetbegović (presidente della Bosnia-Erzegovina) che il 21 novembre 1995 firmavano l’accordo a Dayton nell’Ohio in una periferica cittadina degli Stati Uniti. Tuttavia quella firma segnò la fine dell’aspetto più sanguinoso della guerra. Ricordiamoci anche che il genocidio di Srebrenica era avvenuto l’11 luglio di quello stesso anno, perciò quella di Dayton fu una data storica. Ma a 30 anni di distanza dobbiamo dire che quell’accordo doveva avere una evoluzione. Invece ancora oggi quell’area dei Balcani rimane frammentata e divisa in comunità che continuano a non comunicare fra loro. In sintesi dunque non parlerei di un fallimento. Il vero fallimento sarebbe stata la continuazione della guerra, però siamo davvero lontani dallo sviluppo di quell’accordo che aveva aperto molte speranze.

Ne La cicala di Belgrado racconti di aver lasciato la Serbia nel 2000 alle soglie della cacciata di Milošević. Hai vissuto sulla tua pelle le bombe Nato su Belgrado nel 1999. Oggi quanto è stata elaborata tutta quella vicenda nella memoria collettiva?
Quel bombardamento oggi è tornato nel dibattito pubblico. Se tu mi avessi fatto questa domanda un anno fa, forse, ti avrei risposto in maniera diversa ma adesso, mentre in Serbia continuano le proteste iniziate simbolicamente dopo il crollo della pensilina della stazione, il tema è tornato a riemergere. Il bombardamento della Nato viene ricordato dagli studenti che cercano

Dayton 30 anni dopo: l’Europa allo specchio

Sono passati 30 anni dalla firma degli accordi che hanno portato alla conclusione delle guerre jugoslave ed è importante fermarsi a riflettere su ciò che è avvenuto appena al di là del Mar Adriatico, nei Balcani occidentali, tre decenni fa. Come sempre capire e comprendere storicamente il passato ci serve per riuscire a leggere meglio il presente, a riconoscere anche in ciò che appare distante e scollegato, qualcosa di semplicemente e tristemente già avvenuto. Le pulizie etniche e il genocidio dei palestinesi potrebbero apparirci allora non come delle rotture della storia ma come delle “ripetizioni” che dovremmo imparare a scongiurare una volta per tutte e per tutti i popoli del mondo, una lezione da imparare soprattutto qui in Europa. L’antecedente ultimo, tutto europeo, è infatti proprio quello dei Balcani occidentali dei primi anni Novanta. Una storia che abbiamo evitato per troppo tempo di approfondire, conoscere ed elaborare, contrariamente a quanto fatto invece per la Shoah. Oggi, allora, mentre Gaza scompare e la Cisgiordania è a rischio annessione nel brusio di cosiddetti piani di pace coloniali, tutto questo chiede conto alle nostre coscienze con la più estrema serietà e urgenza.

Prima di parlare degli accordi di Dayton che hanno scritto la parola fine alle guerre di secessione jugoslave, bisogna ricordare brevemente cosa sono state. La definizione più tecnica potrebbe essere quella dei conflitti che hanno causato la dissoluzione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, attraverso la secessione graduale di Slovenia (Guerra dei dieci giorni del 1991), Croazia (1991-95) e Bosnia-Erzegovina (1992-95). C’è anche una poco menzionata secessione macedone avvenuta senza conflitti e con la firma degli Accordi di Ohrid (2001) e poi la delicatissima questione dell’indipendenza del Kosovo (2008), Stato a “riconoscimento limitato” da parte dei paesi membri dell’Onu che non rientra però negli Accordi di Dayton.

Questi ultimi vennero firmati dal presidente della Serbia Slobodan Milošević, da quello della Croazia Franjo Tuđman e della Bosnia-Erzegovina Alija Izetbegović, a supervisionarli il diplomatico e negoziatore americano Richard Holbrooke, l’inviato speciale per l’Unione europea in Jugoslavia Nils Daniel Carl Bildt e il diplomatico russo Igor’ Sergeevič Ivanov, oltre ad altri rappresentanti del governo e della diplomazia Usa Clinton. La loro stipulazione porta principalmente a due risultati: la fine delle ostilità nei Balcani occidentali e la divisione della Bosnia-Erzegovina in due entità territoriali autonome, la Republika Srpska, a maggioranza serba e la Federazione di Bosnia-Erzegovina a maggioranza croato-bosgnacca. Bisogna dire subito però che a Dayton come riporta l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) «un accordo “ottimale” per ognuna delle parti era impossibile», l’urgenza era infatti che finisse lo spargimento di sangue e per farlo si doveva «raggiungere un punto di equilibrio perfetto tra le posizioni divergenti».

Ma quando arriva la pace sancita a Dayton? Gli Accordi o Dayton Peace Agreement vengono

IA e psicoterapia. Confessioni a una macchina (pericolosa)

Era tarda sera quando Silvia, seduta nel suo appartamento romano, si ritrovò a digitare una domanda che avrebbe potuto rivolgere a un’amica, o forse a uno psicoterapeuta, se solo avesse potuto permetterselo economicamente: «Ho fatto un sogno, posso raccontartelo?». L’interlocutore era ChatGpt, e la risposta arrivò con quella peculiare combinazione di sollecitudine algoritmica e vuoto emotivo che caratterizza l’intelligenza artificiale: «Certo, è un sogno molto denso e credo valga la pena spiegartelo».
Silvia è un’artista. Vive a Roma e, come un numero crescente di giovani italiani, ha sviluppato un’abitudine che solo pochi anni fa sarebbe sembrata assurda: confidare i propri pensieri più intimi, persino i propri sogni, a un programma per computer. Non per curiosità tecnologica, non per sperimentazione, ma per necessità. Perché, come lei stessa spiega con una franchezza disarmante, «non saprei a chi raccontarlo e non ho i soldi per una psicoterapia. Non ho nessuno che potrebbe darmi una risposta».

Quella di Silvia non è una storia isolata, ma un fenomeno che sta ridisegnando silenziosamente il paesaggio della salute mentale in Italia e non solo. Secondo un’indagine condotta dall’Istituto Piepoli per conto dell’Unione per la difesa dei consumatori (Udicon), un giovane su quattro sotto i trentacinque anni utilizza regolarmente l’intelligenza artificiale per discutere di problemi personali. Il dato diventa ancora più significativo quando lo si esamina attraverso la lente del genere: tra tutte le fasce d’età, le donne ricorrono a questa forma di supporto tre volte più degli uomini, con percentuali rispettivamente del ventiquattro e dell’otto per cento. C’è qualcosa di profondamente paradossale in questa situazione. Viviamo in un’epoca in cui si parla di salute mentale con una franchezza che sarebbe stata impensabile una generazione fa.

I giovani, in particolare, si dichiarano molto più inclini delle generazioni precedenti a riconoscere e articolare i propri disagi psicologici. Eppure, quando arriva il momento di cercare aiuto, si trovano davanti a un muro: quello economico. Una sessione di psicoterapia può costare tra i sessanta e i cento euro, una cifra proibitiva per i giovani italiani schiacciati da lavori a contratto determinato, poveri o in nero. L’intelligenza

Psichiatria e giustizia: guarire non è assolvere

L’8 giugno 1996 fu una giornata bellissima. Eravamo in tanti al teatro Mercadante di Napoli al convegno per il 25esimo anno di Istinto di morte e conoscenza dello psichiatra Massimo Fagioli, e la locandina, oltre al titolo (Fantasia di sparizione formazione dell’immagine e idea della cura) mostrava un disegno con un profilo di uomo. Avevano parlato in tanti sul palco e, alla fine, c’era stata una relazione dal titolo: Normalità e follia. L’identità dello psichiatra dopo la quale fu data voce al pubblico per gli interventi. La relazione che come al solito era il frutto di una stretta collaborazione con Fagioli, iniziava con la constatazione che il dramma della psichiatria di allora, ma direi che le cose non sono molto cambiate neppure oggi a distanza di 30 anni, era quello di non avere una identità riconosciuta come quello del medico del corpo, perché diversamente da questo lo psichiatra non riesce (o non vuole) distinguere la sanità dalla follia.

Non riesce a sostenere, il medico della mente, il conflitto di dover decidere, anche perché questa decisione non può basarsi su esami diagnostici o di laboratorio, si basa solo sulla competenza, la formazione, l’intuito, l’esperienza etc o meglio come dice la relazione sull’identità dello psichiatra. L’articolo prosegue sostenendo che la diagnosi di malattia in psichiatria si accompagna ad un senso sottinteso di condanna a vita perché non si pensa alla cura della malattia mentale.

Se il medico non ha l’idea della cura e della possibilità di guarigione della malattia il conflitto lo paralizza. Massimo Fagioli, dalla platea, prese il microfono e con poche parole, chiare, dirette e veementi riaffermò quale fosse la vera identità dello psichiatra e la funzione della psichiatria: curare la malattia mentale. «…Perché nel momento che io pretendo che tutti siano simili, cioè sani, non voglio affatto che ci siano degli sciancati e considerare che gli sciancati siano normali e vanno accettati cristianamente come figli di dio. Ma nemmeno per idea! Gli sciancati si addrizzano le gambe!… e chiaramente… Aggiungo quella contraddizione perché poi succede che in questa uguaglianza tutti fondamentalmente sani vengono fuori le dimensioni più diverse l’individualismo più totale nell’ambito di un fondamento di sanità uguale per tutti. Poi vengono fuori le originalità più complete. Non significa affatto che il comportamento, l’atteggiamento gli affetti di queste persone sane siano tutti uguali, sono tutti completamente diversi». Poi nel dibattito venne rivolta all’ultimo relatore una domanda che suonava più o meno così: «Può un individuo sano di mente veramente delinquere?»

A questa domanda lo psichiatra rispose: «Forse quello che ammazza, quello che uccide, qualcosa di folle lo deve avere per forza da qualche parte».

Quella risposta è rimasta per anni in attesa di una conferma che la liberasse da quel “forse”, fino al 2010 quando Massimo Fagioli, in una intervista a Left, quasi a completare e specificare il discorso sugli «sciancati cui raddrizzare le gambe», disse: «Non è che io non picchio un bambino perché è vietato, ma perché proprio non mi si alza la mano». Così