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Femminicidi. La guerra dei numeri non salva nessuna

Cosa succede quando si provano a verificare i dati sui femminicidi in Italia? Che dati si trovano? Come possiamo confrontarli con quelli di altri Paesi? Forse non tutti sanno che i siti istituzionali non sono il posto giusto dove cominciare a cercare. A meno di non accontentarci delle preziose analisi condotte dall’Istat sui casi dell’anno precedente. Ma manca un luogo dove andare a monitorare l’andamento degli omicidi volontari almeno mensilmente, con tutte le informazioni che servirebbero per capire se aumentano i casi tra le fasce più giovani, se ci sono ancora in Italia figlicidi e infanticidi e quanti sono, in che zone d’Italia si registrano, e molto altro.

L’ultimo rapporto dell’Eige (European institute for gender equality) lo conferma: i dati sui femminicidi in Europa sono incompleti, disomogenei e spesso inaffidabili. Contare però è il primo passo per prevenire. Se non sappiamo quante donne vengono uccise, da chi, dove e con quali precedenti, in che contesto familiare, se è presente una disabilità, come possiamo valutare se le azioni per contrastare la violenza funzionano?

Nel 2022, secondo gli ultimi dati raccolti in 22 Paesi dell’Unione europea, le vittime donne di omicidio sono state 1.231. Di queste, 678 sono morte per mano di un familiare, 484 di un partner intimo, perché l’unico modo in cui si contano i femminicidi in Ue è usare la definizione più restrittiva, quella che li indica come «l’uccisione di una donna da parte di un partner intimo e la sua morte come conseguenza di una pratica dannosa». L’Unodc, l’agenzia delle Nazioni Unite per la droga e il crimine, che produce report sugli omicidi volontari a livello internazionale, denuncia che nel mondo il numero di Paesi che registrano i dati sui femminicidi intesi come omicidi commessi da familiari e partner è aumentato fino al 2020 (75 Paesi), ma nel 2023 si è ridotto della metà, limitando la possibilità di monitorare il fenomeno a livello globale. Ma anche contando solo gli omicidi che avvengono nella sfera privata, in casa, vediamo un impatto enormemente sproporzionato sulle donne rispetto agli uomini. Nel Femicide Brief 2022 di Unodc, a livello internazionale, viene riportato che circa il 55% delle vittime femminili di omicidio è stato ucciso da partner intimi o da altri membri della famiglia. Al contrario, uomini e ragazzi sono principalmente a rischio di essere uccisi da qualcuno esterno alla famiglia: solo

L’inizio della fine dello storico annullamento delle donne

La donna è resa oggetto di definizione e non soggetto di significazione. Dal punto di vista culturale e filosofico, il “concetto donna” non è solo un dato biologico, ma una costruzione simbolica e sociale, modellata storicamente in modi diversi a seconda dei contesti.   

Fin dalle origini, la filosofia ha contribuito a definire e spesso a limitare il significato dell’essere donna. Nei secoli, la figura femminile è stata frequentemente interpretata come alterità rispetto al maschile, identificata con la mancanza, la passività o la sola materia in opposizione alla possibilità propria del genere maschile di avere accesso con il suo intelletto al pensiero e linguaggio razionale e all’astrazione. In questa lunga genealogia (costruzione del pensiero umano), le donne non appaiono come un soggetto autonomo, ma come una proiezione culturale del maschile: simbolo di tutto ciò che la ragione occidentale ha relegato all’alterità: il corpo, la natura, l’irrazionale. Dall’antichità alla modernità, la filosofia ha spesso contribuito a consolidare una visione gerarchica tra i sessi: Platone, nel Timeo, associa il femminile alla materia, alla riproduzione e al mondo sensibile, contrapponendolo al mondo ideale della perfezione e alla ragione rappresentate dall’uomo; Aristotele definisce la donna un “maschio mancato” (De generatione animalium), attribuendole un ruolo passivo anche nella procreazione.                   

Il pensiero cristiano è forse quello più discriminante nei confronti delle donne. Già nell’Antico testamento, la figura di Eva è presentata come origine del peccato e responsabile della caduta dell’uomo. All’origine del cristianesimo con la progressiva istituzionalizzazione della Chiesa, prevalse una visione gerarchica ispirata ai modelli culturali del mondo greco, romano e giudaico, che relegò la donna a una posizione subordinata. Infatti, Agostino e Tommaso d’Aquino affermano: la donna è creata “per l’uomo” ed essa è incapace, da sola, di riflettere l’immagine divina. Agostino e altri autorevoli dottori della Chiesa contribuirono a consolidare un’immagine della donna come essere debole, volubile e moralmente pericoloso. La dottrina cattolica tradizionale ha sostenuto esplicitamente che, pur essendo uomo e donna uguali davanti a Dio, «l’uomo è superiore alla donna sul piano naturale», legittimando così un assetto sociale in cui la subordinazione femminile non solo risultava accettabile, ma teologicamente fondata.            

Questa visione ha influenzato profondamente, per secoli, sia le norme giuridiche sia i costumi delle società europee, attribuendo al padre e al marito un’autorità quasi assoluta sulla vita e sulle scelte della donna. Si può affermare, in questo senso, che la cultura occidentale si sia costruita anche attraverso un atto originario di cancellazione simbolica e ontologica del femminile. Il pensiero patriarcale si è fondato proprio sull’esclusione della donna come soggetto autonomo, identificando il femminile con la natura, il corpo e la materia: elementi su cui l’uomo, concepito come soggetto razionale e universale, ha esercitato potere e controllo.                  

Nella modernità,

Perché fidarsi dei bambini è una questione di umanità

In questi giorni siamo stati tutti invitati a porci la domanda “definisci bambino”. Essa è nata nella trasmissione Carta bianca del 16 settembre scorso sul conflitto Israele-Palestina, in un dibattito tra Enzo Iachetti e il presidente della Federazione amici di Israele Egal Mizrahi. La guerra solitamente vede coinvolti due eserciti ma in quella di Gaza e Cisgiordania si vede un solo esercito che si scaglia contro donne e bambini. Iachetti non poteva accettare l’idea di un bambino armato, manifestando un rifiuto all’utilizzo dei bambini in guerra e all’insinuazione che quelli palestinesi fossero potenziali terroristi. Da qui nasceva la domanda da parte di Mizrahi di definire un bambino. Anche noi ci siamo posti questa domanda e da qui nasce la nostra riflessione e questo articolo: è possibile definire il bambino? Per noi che ci riferiamo alla Teoria della nascita di Massimo Fagioli nella quale il bambino occupa un posto fondamentale, la domanda del presidente della Federazione amici di Israele ci indigna profondamente.

Per l’enciclopedia Treccani ed anche per la legge il bambino non ha una definizione specifica, è il periodo dell’essere umano di età compresa tra la nascita e l’inizio della pubertà. Possiamo considerare questa mancanza un difetto della lingua italiana e legislativo, oppure vedere nella richiesta di definire il bambino la negazione di una realtà evidente che non ha bisogno di essere definita? Possiamo allora considerare la “domanda” una forma di annullamento di questa dimensione umana?

La visione del bambino ha avuto nella storia notevoli cambiamenti, l’attenzione nei suoi confronti è andata sempre più aumentando. Nei tempi antichi al bambino non veniva certo riservato un buon trattamento, e a volte una bella sorte, poteva essere abusato, picchiato e maltrattato.

Egli non aveva nessuna rilevanza nella società, anche a causa probabilmente della forte mortalità a cui andava incontro. Interessante vedere che l’etimologia della parola bambino deriva dal latino babbeus, babbeo, sintomatico della considerazione che si aveva di lui, visto al pari di una bestiolina a causa della mancanza del linguaggio articolato. Per questo motivo veniva associato “a uno stupido o all’animale (in quanto dotato di una realtà materiale), un pezzo di carne senza anima”. Egli era quindi sede del peccato, dell’imperfezione e della mostruosità. Descrizione, questa, riportata da Lutero. Per sua natura quindi manchevole ed animale, che avrebbe acquisito l’umanità solo attraverso l’educazione e la repressione.

Sappiamo che è solo dalla seconda metà del XX secolo, con la Convenzione internazionale dei diritti dell’Infanzia del 1989, che avviene una svolta significativa e storica. Il bambino viene infatti riconosciuto come persona e questo trattato

«Io bambino soldato, così sono riuscito a salvarmi»

Kinshasa –Ho incontrato Jean al mercato, qualche giorno fa, vendeva patate dolci e mi ha implorato di trovargli un lavoro in Francia. Dietro gli occhi castani, un velo di paura. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia e ci siamo incontrati nei pressi della chiesa dei Saveriani, a Panzi, dove c’è un oratorio: «Lì non desteremo sospetti». Mi ha detto. «La mia vita fa schifo e se scoprono quello che ho fatto, potrebbe peggiorare».

Jean prende fiato, si gratta la caviglia destra. «Vivevo a Bukavu, nel Sud Kivu, Repubblica democratica del Congo (RdC) con i miei genitori. Un giorno mio padre se n’è andato e mia madre, per pagare l’affitto, ha cominciato a vendere samosa, ma i soldi che guadagnava non erano sufficienti per le spese e il proprietario ci ha buttati fuori di casa. Ci siamo trasferiti da mia zia, ma anche lì i conti non tornavano e mia madre mi ha spedito a chiederli a mio zio. Arrivato a Misisi, a ovest di Bukavu, mio zio mi ha detto di aspettare la fine del mese, quando avrebbe ricevuto lo stipendio». Jean si è messo il vestito buono per incontrarmi, una felpa nera, col disegno di un gatto giallo, e dei jeans nuovi. «Mentre ero a casa sua ho conosciuto il suo vicino, proprietario di un ristorante, che mi ha proposto di lavorare con lui, mi avrebbe dato vitto, alloggio e un misero stipendio. Mio zio è stato subito d’accordo: “È giusto che a undici anni, cominci a guadagnare qualche soldo”. Due giorni dopo mi sono trasferito a vivere nel ristorante: dovevo servire ai tavoli».

Il cielo si rabbuia, nubi si addensano all’orizzonte, ma noi ci siamo sistemati al riparo di una tettoia gialla, di plastica. «Nel ristorante lavoravo assieme a Paul che lavava i piatti e René che stava in cucina. Il ristorante era aperto tutti i giorni, tranne la domenica. Quella domenica, dopo esserci cambiati, siamo andati a fare una passeggiata sino al quartiere di Nyumbi, a vedere una partita di calcio. Quando mi sono accorto che si stava facendo tardi, ci siamo avviati per rientrare». Ancora uno sguardo alle sue spalle, la paura del pregiudizio e della stigmatizzazione è enorme. «Sulla strada abbiamo incontrato un uomo che indossava un completo elegante. “Nella parrocchia della Santissima Trinità, distribuiscono la cena gratis”, ci disse. Ho guardato i miei amici e abbiamo pensato che sarebbe stato conveniente non dover cucinare. L’uomo ci rassicurò, ci avrebbe accompagnato lui.  Appena arrivati in una via laterale, ci hanno aggredito. Ci hanno legati, bendati e ci hanno ordinato di seguirli».

«Avevate capito, cosa stava succedendo?». Gli domando. Lui scuote la testa. «Abbiamo camminato a lungo, siamo arrivati al loro accampamento, nel cuore della notte. Ci hanno tolto la benda e ci hanno legato a un albero, per evitare che fuggissimo, tenendoci sotto tiro con il fucile. Al mattino, quando il sole era appena sorto ci hanno slegato e ci hanno portato una valigia piena di divise militari, ci hanno spogliato e obbligato a indossarle. La mia giacca era troppo grande ed era già stata usata da qualcuno, perché aveva una grossa macchia scura all’altezza del fianco». Jean mi osserva, ancora dubbioso se proseguire o meno. Io lo rassicuro: non userò il suo vero nome, nel raccontare la sua storia. «Abbiamo cominciato l’addestramento. Il nostro inquadratore, un ragazzo di circa diciassette anni,

Non è un pianeta per bambini. E donne

Fahima Noori aveva grandi sogni quando si è laureata all’università in Afghanistan. Ha studiato giurisprudenza prima di prendere la laurea in ostetricia e aveva anche lavorato in una clinica di salute mentale. Ma tutto il suo futuro le è stato portato via progressivamente dopo che i talebani sono saliti al potere nel 2021 in seguito al ritiro definitivo delle forze armate statunitensi dal Paese mediorientale. All’inizio di ottobre ogni sua speranza di realizzazione sociale è andata definitivamente in frantumi quando i talebani hanno imposto il blocco delle connessioni internet in fibra ottica in diverse province, affermando che rientrava in un’iniziativa volta a prevenire l’immoralità. Per Fahima, internet era l’ultima ancora di salvezza per restare in contatto con il mondo esterno. «Speravo di trovare un lavoro attraverso il web», ha detto alla Bbc che ha raccolto la sua e altre testimonianze di giovani afghane senza indicare il vero nome per proteggerle da violente ritorsioni.


Le cifre del silenzio: milioni di ragazze escluse dall’istruzione

Questa misura repressiva dei talebani non è che l’ultima in ordine di tempo di una serie di “norme” legate alla Sharia messe in atto contro le donne in Afghanistan, tra cui il divieto alle bambine di età superiore ai 12 anni di ricevere un’istruzione, il divieto di iscrizione che dal 2022 ha negato l’accesso all’università a oltre 100mila studentesse e la chiusura “silenziosa” alla fine del 2024 di uno degli ultimi percorsi di formazione superiore e di accesso al lavoro a cui potevano partecipare le donne, i corsi di ostetricia. Solo dieci giorni prima del blocco di internet i talebani avevano imposto nelle università un altro divieto di matrice religiosa e misogina, negando agli studenti la possibilità di utilizzare libri scritti da donne. Né romanzi, né saggi, né manuali di medicina o diritto, i testi firmati da autrici sono stati rimossi dagli scaffali. È l’ennesimo tassello di una “politica” integralista che mira non solo a escludere le donne dall’istruzione, ma a cancellare la loro voce e la loro identità dalla storia stessa del sapere. Una dinamica confermata anche dai freddi numeri. In Afghanistan, in quattro anni di regime il tasso di alfabetizzazione femminile è precipitato sotto il 30 % (dati Unesco, 2025). Oggi questo Paese si distingue tragicamente come l’unico al mondo in cui l’istruzione secondaria e superiore è severamente vietata a ragazze e donne. Sono quasi 2,2 milioni oramai quelle escluse dalla scuola oltre il livello primario. Inoltre, gli ultimi dati pubblicati dall’Ocha, l’agenzia Onu per il coordinamento degli Affari umanitari, indicano che anche le iscrizioni alla scuola primaria sono diminuite da 6,8 milioni nel 2019 a 5,7 milioni nel 2022. Dietro questi divieti simbolici, ma concreti e violentissimi, si cela una logica che non appartiene solo all’Afghanistan talebano. La negazione dei diritti fondamentali di bambini e donne, come vedremo, pur espressa con linguaggi diversi, risulta essere il fondamento di ogni sistema patriarcale e teocratico. Essa persiste, con forme e linguaggi differenti, anche nei sistemi democratici occidentali, a riprova del fatto che la mentalità patriarcale e religiosa non è stata rifiutata né eradicata fino in fondo nemmeno nelle società più “evolute”.

Violenze della fede

Attraverso la circoncisione rituale nei Paesi mediorientali di tradizione islamica ed ebraica, il battesimo imposto nelle società a forte presenza cristiana, e fino alla mutilazione genitale femminile praticata in almeno 30 Paesi in Africa, Medio Oriente e Asia, una violazione dell’integrità fisica e psichica viene colpisce bambine e bambini sin dalla nascita dai loro adulti di riferimento nel nome di una fede, per “certificare” l’appartenenza a una comunità. Secondo l’Oms, più di 200 milioni di donne nel mondo hanno subito mutilazioni genitali; l’Unicef e ActionAid denunciano che ogni anno oltre tre milioni di bambine sotto i 15 anni rischiano di esserne vittime e ci sono dei Paesi in cui oltre l’80% delle mutilazioni vengono praticate quando le bambine hanno massimo quattro anni. L’Oms riconosce nella circoncisione maschile non terapeutica un atto privo di consenso e potenzialmente lesivo, anche se praticato in condizioni mediche. In tutti questi casi, il corpo dei neonati, dei bambini e delle bambine diventa per il mondo adulto, quello maschile in particolare, un supporto simbolico su cui incidere l’appartenenza, la discendenza. Un certificato di proprietà marchiato nella carne come fossero bestiame. È la stessa logica che attraversa il battesimo. Un neonato, incapace di opporre fisicamente resistenza e di esprimere verbalmente il proprio dissenso, viene dichiarato appartenente a un sistema di credenze che non conosce. In questo continuum, c’è la radice di ogni violenza rappresentata dalla negazione del diritto all’autodeterminazione.


Infanzia negata: 272 milioni di bambini senza scuola

La limitazione sistematica di diritti prosegue anche negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Essa si manifesta in varie forme, dal mancato accesso alla scuola al lavoro minorile. Per effetto combinato di crescita demografica, conflitti prolungati e crisi economiche l’Unesco ha calcolato che nel 2023 nel mondo erano ben 272 milioni gli “out of school” di età 6-18 anni. Inquietante è

La destra fragile che ha paura di un sindaco

C’è un espediente che funziona sempre: evocare l’11 settembre per squalificare chi vince. Lo abbiamo visto ieri, quando l’elezione di Mamdani a New York è stata accolta da un coro di slogan compulsivi: «sindaco islamico nella città ferita», «resa culturale dell’Occidente», «pro-Pal», «fanatici». Nessuna analisi del voto, nessuna lettura del contesto urbano, nessuna domanda su affitti, trasporti, salari. Solo la scorciatoia identitaria, perché è quella che permette di non parlare della realtà.

La destra italiana che ogni giorno si dichiara sotto assedio, che invoca tutela contro la violenza delle parole altrui, si è esercitata nel vomito d’odio con una naturalezza impressionante. Quelli che chiedono compostezza, che pretendono rispetto per ogni loro sensibilità ferita, hanno passato 24 ore a rovesciare sospetti religiosi come se fossero munizioni. La vittimizzazione, il lamento perpetuo, dura il tempo di un titolo: appena l’oggetto da colpire cambia latitudine, la misura etica evapora.

È stato tutto evidente: Salvini che fa l’inventario moralistico delle presunte idee del neosindaco come un elenco di minacce; Vannacci che accosta un voto locale all’ombra dell’11 settembre per produrre una narrazione di “decadenza”; Ciriani che dichiara New York «non rappresentativa» pur di evitare l’idea che quella scelta politica dica qualcosa anche a noi. La stessa grammatica, lo stesso riflesso pavloviano, lo stesso bisogno di trovare un nemico da esibire.

Nel frattempo, Mamdani parlava di integrità amministrativa e di impegno contro l’antisemitismo. Nessun trionfalismo, nessuna bandiera agitata. Compostezza, appunto. È questo il punto che brucia. Perché chi vive di propaganda teme la normalità della politica quando non può ridurla a caricatura.

Questa vicenda mostra cosa resta della destra quando si toglie la retorica della difesa dei valori: un riflesso, una paura, una fregola. E niente di più.

Buon giovedì. 

Perché New York ha scelto Zohran Mamdani. Un millennial socialista sindaco della città di Trump

È partito con l’1% di preferenze nei sondaggi, ha sbaragliato le primarie del Partito democratico e da stanotte è il nuovo sindaco di New York con più del 50% delle preferenze: è Zohran Mamdani, socialista trentaquattrenne nato in Uganda da genitori indiani diventato cittadino americano nel 2018. Sembra una favola sul sogno americano? Un po’, effettivamente, lo è. Sicuramente è la storia di rivalsa di una città che, di per sé, non è rappresentativa degli Stati Uniti, ma che potrebbe rappresentare il primo baluardo di opposizione vera alle politiche del presidente Donald Trump. Esattamente un anno fa, il 5 novembre 2024, gli americani eleggevano per la seconda volta un magnate con precedenti di molestie sessuali e delle tendenze autoritarie che si sono sprigionate con tutta la loro forza nei 365 giorni successivi. Oggi, New York festeggia la vittoria dell’underdog, per di più di religione islamica. E non è una cosa da poco, in una città che meno di venticinque anni fa è stata il teatro dell’attentato alle Torri Gemelle, che scatenò un’ondata di islamofobia dura a morire. Come se non bastasse, Mamdani si è anche dichiarato apertamente a favore della Palestina in una città dove gli abitanti di religione ebraica sono tanti e (alcuni) anche potenti.
Sulla carta, questa era un’elezione impossibile. Alle primarie il suo sfidante era Andrew Cuomo, ex governatore dello stato di New York che aveva ricevuto appoggio da tutte le parti, compreso dall’ex presidente Bill Clinton. Nonostante la sconfitta, Cuomo ha deciso comunque di presentarsi alle elezioni, stavolta appoggiato addirittura da Trump e dal magnate Elon Musk, ma ha perso lo stesso. E così, il primo gennaio 2026 la Grande mela avrà un sindaco immigrato, musulmano, non bianco e socialista. Ma come è possibile?

Due fattori hanno giocato un ruolo fondamentale: la comunicazione e la ferma opposizione a Trump. In particolare, Mamdani ha chiarito subito che, come sindaco, non avrebbe appoggiato l’invio dell’ICE (una sorta di polizia dell’immigrazione) e della Guardia nazionale a New York, cosa che sta già accadendo in città come Los Angeles e Chicago, dove persone accusate di essere immigrati irregolari vengono arrestate in veri e propri agguati. I suoi punti programmatici sono rivolti al benessere comune: asili nido accessibili, autobus gratuiti grazie a un aumento della tassazione dei cittadini più ricchi, progetti di edilizia sociale, supermercati con prezzi calmierati, aumento del salario minimo a 30 dollari l’ora, regolazione dei canoni d’affitto. Nel suo victory speech, Mamdani ha ricordato che New York è una città fatta dagli immigrati, popolata di immigrati e, «da oggi, governata da un immigrato», e tale ci tiene che resti. Lo aveva ricordato anche la deputata democratica socialista Alexandria Ocasio Cortez nel discorso che aveva tenuto all’ultimo comizio di Mamdani: New York e gli Stati Uniti tutti non esistono senza immigrazione. E, dal punto di vista comunicativo, è sempre stato questo il messaggio: siamo tutti parte di una città che è una grande comunità interdipendente. La campagna elettorale ha preso un’impennata quando sono cominciati a circolare i video di Mamdani che interagiva con i cittadini, che sposava le loro lotte contro le ingiustizie, come lo sciopero della fame di un tassista di nome Richard (che ha ricordato anche nel suo discorso dopo la vittoria). Sono stati toccati temi che di solito vengono ignorati, come la malattia mentale o le lotte sindacali. Eppure, Mamdani non viene da una famiglia della classe operaia: anche se i genitori sono arrivati in Usa come rifugiati, sua madre è una regista e suo padre un professore della Columbia University, con una moglie artista (anche lei di origini straniere, specificamente siriane). Potrebbe benissimo essere accusato di essere un privilegiato. Eppure, ha deciso di puntare sul benessere di tutti, invece di cercare di allearsi con i potenti a discapito della maggioranza. «Sono giovane, nonostante i miei migliori sforzi a invecchiare. Sono musulmano. Sono un socialista democratico. E cosa più grave di tutte, mi rifiuto di scusarmi per ognuna di queste cose» ha detto sul palco della vittoria.

Mamdani fa parte di una generazione, quella dei millennial, che si è sentita dire e ha visto di tutto: che siamo (perché chi scrive è, in effetti, una millennial) dei fannulloni. Che il futuro non esiste. Che la nostra unica possibilità è arrangiarci e piegarci alle regole che qualcuno più privilegiato di noi ha deciso di imporci. Che ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza tra attentati e crisi economiche senza precedenti. Che ribellarsi non serve a niente. Ecco, la vittoria di Zohran Mamdani dice tutto il contrario: il futuro esiste eccome, basta guardare dalla parte giusta. E non è una questione puramente generazionale: se è vero che Mamdani e AOC sono entrambi millennial, la loro carriera politica si genera dal movimento Our Revolution di Bernie Sanders, il senatore del Vermont che da socialista è quasi riuscito a vincere la nomination democratica alle presidenziali del 2016. «La speranza è viva», ha detto Mamdani, sottolineando però come la speranza sia in effetti una decisione da prendere giorno dopo giorno, su cui lavorare insieme.

Certo, ci sarà molto da lavorare per mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, in una città enorme che non versa affatto in buone condizioni, mantenere l’entusiasmo senza farsi schiacciare dalla burocrazia. È stato capace di galvanizzare gli elettori democratici, in particolare quelli più giovani, come il suo partito non era stato capace di fare da anni, il tutto definendosi socialista. Non ha cercato compromessi come invece ha fatto la candidata alla presidenza Kamala Harris, che a un certo punto della campagna elettorale del 2024 sembrava preoccuparsi più di piacere agli elettori moderati di destra che a quelli del suo lato politico. È vero che la politica locale statunitense non si può paragonare alle elezioni presidenziali, ma ultimamente è proprio dal livello locale che stanno venendo i più forti segnali di opposizione a Trump: contingentemente a questa vittoria, sono state elette due governatrici donne e democratiche, mentre in California è passata la proposta di ridisegno dei collegi elettorali in chiave anti-trumpiana proposta dal governatore democratico (e aspirante candidato presidente) Gavin Newsom. Un anno di Trump alla Casa Bianca inizia a sentirsi, e dopo mesi di silenzio assoluto si comincia a vedere qualche segnale di ripartenza per i Dem. «In questo momento di buio politico, New York sarà la luce», ha detto Mamdani dopo la vittoria. Che la luce la porti un socialista, musulmano, immigrato e pro-Palestina è la vera notizia per noi, per il Partito democratico e per la storia degli Stati Uniti stessa.

Per approfondire ulteriormente: Mamdani, un socialista alla conquista della Grande Mela

La memoria corta come strategia di potere

Se Totò Cuffaro e Saverio Romano siano colpevoli lo deciderà il processo. Per i magistrati l’ex presidente della Regione siciliana sarebbe “al vertice di un’associazione criminale”, un “comitato d’affari occulto” che si spartiva appalti nella Sanità, forziere di ogni regione di questo Paese. Romano, ex ministro e deputato per Noi Moderati, sarebbe stato uno degli anelli di congiunzione.

Siamo nel campo delle accuse. Cuffaro dice di non vedere l’ora di spiegare tutto ai magistrati mentre Romano parla di “processo mediatico”, che è un po’ come il cacio non solo sui maccheroni: sta bene su tutto, soprattutto in questi tempi in cui la magistratura è il boccone preferito della propaganda di governo.

Vasa Vasa Cuffaro – vale la pena ricordarlo in quest’epoca di memorie labili – è stato condannato a sette anni per favoreggiamento a Cosa Nostra. Ha scontato la sua pena più velocemente del previsto e – come sancito dalla nostra Costituzione – è stato riabilitato alla vita politica. Scontata la condanna l’ex governatore è tornato alla politica, a capo della DC siciliana.

Riabilitato? Sì, sulla carta. Ma Cuffaro non ha mai ammesso di avere favorito la mafia: ha sempre negato di avere avuto rapporti con i mafiosi, ha definito la condanna “un dolore che ho accettato” e non una colpa da riconoscere. Ha chiesto un perdono spirituale, non politico o etico.

Non so se fosse opportuno che Cuffaro tornasse a dettare i tempi della politica siciliana. Di certo è politicamente inopportuno poggiare il proprio ritorno a un atto burocratico senza passare dalla presa di responsabilità. E la sensazione che l’ex presidente già condannato ancora muova i fili dei soldi regionali è la fotografia perfetta della politica che non dà seguito agli esiti dei processi. Con buona pace dei garantisti.

Buon mercoledì.

Foto dalla pagina Fb di Cuffaro

Per sapere a cosa serve la riforma, citofonare Nordio

C’è una sincerità involontaria nelle parole di Carlo Nordio al Corriere della Sera: «Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo». Basterebbe questa frase per chiudere il dibattito. Il ministro della Giustizia, con la disarmante trasparenza di chi non si accorge di confessare, ammette che il suo disegno costituzionale serve a blindare il potere, qualunque sia il colore del governo. Un sistema che mette i pubblici ministeri sotto il controllo politico non per migliorare la giustizia, ma per neutralizzare l’unico potere che non si elegge.

Nordio la chiama “riforma di civiltà”, ma l’Associazione nazionale magistrati la traduce per tutti: un modo per impedire ai pm di indagare liberamente, per “evitare invasioni di campo”. È la vecchia ossessione di una classe dirigente che teme più le inchieste che il voto. E mentre il ministro rassicura che «servirà anche al Pd», svela l’altra verità: non una giustizia per i cittadini, ma una per i governanti di turno.

È la stessa logica che negli anni Novanta alimentava l’odio contro Mani Pulite, quando si scambiava la legalità per faziosità e si sognava un potere senza contrappesi. La riforma Nordio ne è la prosecuzione aggiornata, con la stessa ambizione: ridurre la magistratura a servizio d’ordine del governo. Non c’è bisogno di teorie o convegni per capire dove porta questa strada. Basta citofonare Nordio: risponderà che la giustizia deve stare buona, finché governa chi comanda. E che il resto, come sempre, è “invasione di campo”.

Buon martedì.  

 

Foto Gov

Un uragano che scuote il sistema, cosa cambia a Cuba dopo Melissa

L’Avana – Abbiamo cominciato a osservare Melissa il 21 ottobre. Si profilava come semplice tempesta tropicale, un grado inferiore a quello di uragano, che secondo la categoria Saffir-Simpson va da 1 a 5. Tuttavia sapevamo che il fatto che fosse così lenta non lasciava presagire niente di buono. Molto presto abbiamo capito che non si trattava di pronosticare se sarebbe passata per Cuba, ma solo di comprendere nella maniera più dettagliata possibile dove.
Mi occupo di prevenzione e gestione del rischio di disastri da quindici anni, sette di questi trascorsi a Cuba. Conosco i protocolli e so benissimo qual è il mio ruolo in una situazione del genere. Ho studiato per anni il sistema di preparazione messo a punto dall’EMNDC (Estado Mayor de la Defensa Civil) a Cuba, che molti nel mondo ammirano, e che ha permesso a questo piccolo Paese nel mar dei Caraibi di sopravvivere al rapido succedersi di uragani e tempeste dal trionfo della Rivoluzione in poi.
Tuttavia vivo qui e so che, al di là della propaganda di Stato e dei suoi mille detrattori, Cuba non è più quello che fu. Come a molti, mi brucia ancora il ricordo dell’uragano Oscar, che un anno fa devastò l’Oriente cubano. Ricordo che, quando una collega da Bruxelles mi aveva chiamato un giorno prima che Oscar toccasse suolo cubano, per sapere se avevamo bisogno di appoggio, io avevo risposto con un po’ di spavalderia: “Con un categoria 2 i cubani si lavano i denti”. E mi sbagliavo. Ancora oggi, dopo un anno, non c’è chiarezza sul numero di morti né sui danni causati da Oscar e dagli errori umani che ne seguirono, e in molti pensano che lo storicamente efficiente Sistema di Allerta Precoce quella volta non abbia funzionato.
Non sono l’unica a ricordare amaramente l’ottobre di un anno fa, i 3 (per alcuni fino a 7) giorni senza elettricità, i frigoriferi aperti, come sventrati, mentre i più fortunati cercavano di cucinare il cibo immagazzinato nel tentativo di salvarne almeno un po’, il caos di informazione e disinformazione e la netta sensazione, ascoltando gli spezzettati racconti dei colleghi sul territorio, che al di là dei battibecchi tra la stampa di regime e quella della dissidenza, qualcosa davvero non avesse funzionato nella preparazione e nella risposta. Purtroppo non siamo stati partecipi di alcun esercizio di apprendimento a posteriori, non sappiamo se la Protezione Civile abbia analizzato l’accaduto e tratto delle lezioni, né possiamo sperare di saperlo: vivere a Cuba significa anche troppo spesso oscillare fumosamente tra una stampa scandalistica e delegittimante per lo più finanziata dalla diaspora e ripresa dalla maggior parte dei media internazionali inclusi quelli italiani, e una di regime, basata nel Paese, che pubblica solo notizie ripulite e reimpacchettate, spesso inutilmente trionfaliste, sempre più scollate da quello che vediamo ogni giorno per le strade.
Ma torniamo al 21 di ottobre. La lentezza dell’avvicinarsi di Melissa ha permesso a tutti di organizzarsi. La Protezione Civile ha evacuato circa 500.000 persone. A Cuba le evacuazioni preventive sono storicamente gestite su un doppio binario: tutti quelli che si trovino nella situazione di dover lasciare le proprie abitazioni, se hanno un familiare non lontano che vive in una casa definita sicura dalla Protezione Civile, si recano lì. Solo una piccola parte si reca nei rifugi, che in genere sono scuole allestite temporaneamente a riparo. Il meccanismo di evacuazione dei civili a Cuba non prevede obiezioni né giudizi individuali. Poco tempo fa, in una conversazione con uno dei medici Cubani che collaborarono a interrompere la trasmissione del virus dell’HIV da madre a figlio, lui parlando di come Cuba aveva affrontato l’HIV, mi disse: “A Cuba la vita di ogni cittadino vale più di ogni altra cosa. E per salvarla facciamo di tutto, a volte senza curarci del fatto che qualcuno possa essere o meno d’accordo con i nostri metodi. Come se disponessimo di queste vite”.
Avevo personalmente sperimentato la verità di questa affermazione durante il covid, quando lo Stato aveva, per proteggere i suoi cittadini, imposto misure che sarebbero state reputate inaccettabili in moltissimi Paesi del mondo, proprio in virtù di questo dovere di protezione che va a volte anche al di là del riconoscimento dell’agentività dei cittadini e delle cittadine. Le evacuazioni nel momento di preparazione agli uragani, un processo doloroso in cui le persone sono obbligate a lasciare quanto di più caro hanno, e spesso anche i propri mezzi di sussistenza, funzionano nella stessa maniera. Bisogna salvare ciò che abbiamo di più prezioso, la vita. Tutto il resto verrà dopo.

Nel frattempo, memori degli eventi del 2024, diversi donatori europei tra cui la Germania, hanno annunciato già un paio di giorni prima del passaggio dell’uragano che avrebbero donato varie centinaia di migliaia di euro al CERF, il fondo di emergenza delle Nazioni Unite che con molta probabilità si occuperà della risposta. Un segnale di fiducia verso il multilateralismo. Peccato che il sessantennale embargo (le sanzioni unilaterali e con effetto extraterritoriale imposte dagli USA) unito alle arcinote lungaggini e complessità della burocrazia interna a Cuba, rendano praticamente impossibile importare qualsiasi bene in meno di tre mesi, un tempo interminabile per chi ha perso una casa, e anche per chi voglia portare soccorsi quasi immediati. E così stiamo assistendo a creativi appelli delle Nazioni Unite che chiedono a imprenditori e privati locali, intenzionati a rispondere, e che hanno accesso a prodotti già situati sul mercato locale, di palesarsi, e di unire le forze.
Al di là dell’encomiabile sforzo di coordinamento, emerge il fatto che la crisi della cooperazione internazionale è arrivata anche qui.

Intanto, il 29 ottobre, dopo 24 ore di pioggia e vento intensissimi, Melissa tocca terra come categoria 3 e colpisce le province di Holguin, Granma, Santiago e Guantanamo. Le ultime due sono regioni che negli ultimi anni si sono estremamente impoverite dal punto di vista sociale ed economico, e sono ancora in forte difficoltà dopo il passaggio dell’uragano Oscar nel 2024. Inoltre, si tratta delle zone di Cuba più colpite dalla degenerazione del sistema elettrico nazionale e dai lunghissimi e famosi apagones, i blackout che durano giorni interi, intervallati solo da poche ore di elettricità, che oramai flagellano senza interruzione il Paese. Quest’anno il Sistema di allerta precoce non fallisce, e tutti sono già pronti: le Ong internazionali hanno allertato i propri partner in loco sulla necessità di raccogliere informazioni al più presto, le Nazioni Unite hanno attivato il loro sistema di coordinamento, e soprattutto la Protezione civile cubana ha mobilitato quella complessa rete di militari e civili (compresa la Croce Rossa) che si occuperà della risposta nelle ore immediate al passaggio di Melissa. Nel giro di 24 ore l’uragano si allontana, dopo aver lasciato distruzione e paura, ma le conseguenze proseguono per i giorni successivi: i fiumi in piena a causa della pioggia, cominciano a esondare il 31 ottobre, soprattutto nella provincia di Granma, obbligando la Protezione civile a una massiccia operazione di salvataggio che includerà persino un trasporto massivo di persone via treno.

Mentre scrivo questo articolo sembra che siamo usciti dalla fase più critica e che tutti possiamo occuparci della delicatissima fase di recupero.

Che cosa abbiamo imparato, come cittadine e persone che si occupano di preparazione e risposta al rischio di disastri?

  • Che i tempi sono cambiati e anche il governo cubano sta lentamente transitando verso un’altra modalità di risposta: è dell’1 novembre l’emissione di una Gazzetta ufficiale che stabilisce formalmente che il governo pagherà il 50% delle spese di ricostruzione a tutti i cittadini che debbano riabilitare le proprie abitazioni. Usciamo dunque dalla logica del “se ne occuperà lo Stato”, che negli ultimi anni si era tristemente trasformata in una vuota retorica, visto che lo Stato non aveva più le risorse per occuparsi di tutto. Entriamo in una logica di accompagnamento, dove lo Stato riconosce il ruolo protagonista dei cittadini e tuttavia si sforza di offrire una partecipazione e un supporto. Restano da verificare l’implementabilità e la sostenibilità di questa offerta.
  • Che i tempi sono cambiati (reprise), e si ammette la necessità, al di là delle agenzie nazionali e internazionali che tradizionalmente si occupano di questo, di appoggiarsi a tutte quelle reti di privati cittadini che, dalle zone di Cuba meno toccate dall’uragano e spesso anche dall’estero, offrono supporto materiale e donazioni. Questo cambiamento di tendenza ebbe inizio, ricordo, con il tornado che colpì l’Avana nel 2019. Da pochi mesi i cubani avevano avuto accesso alla connessione 3G sui cellulari. Grazie a essa, movimenti di cittadini si mobilitarono rapidissimamente per portare aiuti al di là e a prescindere dalla risposta ufficiale.
  • Che il cambiamento climatico non è un’opinione e bisogna pensare in termini di sistemi: per la prima volta assistiamo allo sforzo congiunto di agenzie basate in paesi diversi (Cuba, Jamaica, Bahamas), di ragionare sull’impatto dell’evento e unire le energie, non solo per la risposta, ma per le prossime preparazioni.
  • Che il cambiamento climatico non è un’opinione (reprise), gli eventi potenzialmente disastrosi si intensificano in termini di frequenza, si fanno di natura più imprevedibile e quindi diventa difficile fare preparazione secondo il modello del “business as usual”.

Insomma sarebbe interessante, al di là delle usuali polemiche di carattere ideologico che emergono inevitabilmente quando si parla di Cuba, guardare a questo recente evento come a una fonte di apprendimento, un pilota, qualcosa che può indicarci una direzione per il futuro della prevenzione e nella risposta dei disastri di origine naturali.

L’autrice: Carla Vitantonio è cooperante, autrice, attrice. Ha lavorato come capo missione per Ong internazionali in Corea del Nord, dove ha passato quattro anni. Attualmente vive a Cuba, fra i suoi libri Bolero Avana (Add)