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La forza di Berthe Morisot, pittrice nonostante Manet

Un'opera di Berthe Morisot in mostra alla Gam di Torino

A vari lustri dalla nascita dell’impressionismo la pittrice Berthe Morisot (1841-1895), unica donna ad esporre (e con grande scandalo) nello studio di Nadar nella mostra che il 15 aprile 1874 segnò la nascita del movimento, trova finalmente l’attenzione che merita, anche in Italia, con una doppia occasione di incontro dal vivo con la sua opera: la mostra Impression Morisot in Palazzo Ducale a Genova (fino al 23 febbraio) e Berthe Morisot, pittrice impressionista, alla Gam di Torino (fino al 9 marzo).

Finalmente si mette in primo piano il suo lavoro e la sua originale ricerca, presentando un’ampia selezione delle sue numerose opere (il corpus complessivo ne conta circa cinquecento). Fin qui in letteratura si è parlato molto e soprattutto della sua biografia, molto significativa per una storia delle donne, a partire dallo scritto folgorante che le dedicò Anna Banti in Quando anche le donne si misero a dipingere (ripubblicato nel 2011 da Abscondita) in cui la storica dell’arte e scrittrice scavò nel rapporto ambivalente che Édouard Manet instaurò con la giovane artista. Da geniale pittore quale era, Manet seppe cogliere la vibrante presenza femminile di Berthe in celebri quadri come Le Balcon (che nel 1869 fu presentato al Salon) e in ritratti come l’indimenticabile Berthe Morisot con un mazzo di violette ( 1872), in cui spiccano la bellezza elegante e lo sguardo vivo della pittrice che si era prestata a fargli da modella. Mai Manet la ritrasse con i pennelli. Come invece Berthe si auto rappresenta in un emozionante autoritratto del 1885 ora esposto in mostra alla Gam di Torino.

Berthe Morisot, “pastorella”

Anna Banti racconta in particolare di quella volta in cui Berthe Morisot sottopose a Manet un ritratto di sua madre, madame Marisot, poco prima di un’esposizione. Lui le fece dei rilievi e poi intervenne personalmente in modo così pesante da ridurla a «una caricatura». «Io rimango avvilita – annotava Berthe nel suo diario -. Mia madre trova la cosa divertente, io la trovo desolante». L’episodio la dice lunga, se ancora ce ne fosse bisogno, a proposito di quanti e quali ostacoli e pregiudizi le artiste nei secoli abbiano dovuto affrontare per poter sviluppare e affermare il proprio talento.

Ma su questo torneremo più avanti. Prima però vogliamo parlare di Berthe Morisot come artista, cogliendo l’occasione che ci offre la mostra di Genova, prodotta da Electa e curata da Marianne Mathieu, con un percorso di 86 opere, tra dipinti, acqueforti, pastelli a cui si aggiungono foto, documenti lettere (ora pubblicate nel volume Lettere e taccuini 1869-1895 di Abscondita e nel catalogo della mostra edito da Electa).

Da questo percorso espositivo che si snoda in Palazzo Ducale per 11 sale emerge il suo pensiero per immagini, il suo linguaggio visivo nuovo, non solo rispetto a quello realistico e razionale imposto dall’Accademia, ma anche rispetto a quello dei suoi compagni impressionisti, che all’epoca incarnavano l’avanguardia.

Berthe Morisot autoritratto con Julie

Che cosa la distingueva? Intanto la scelta dei soggetti. Protagoniste dei quadri di Morisot sono soprattutto fanciulle in fiore, giovani donne, di cui non ci restituisce una immagine rigidamente definita, ma più profonda,  con pennellate evocative e spesso ricorrendo per scelta al non finito, lasciando che anche il grezzo della tela a vista contribuisse a far comparire l’immagine. La pittrice, spesso, non ci dice nulla della “identità anagrafica” dei suoi soggetti femminili. Non è importante. Ne rappresenta la realtà interiore, fatta di affetti, di sogni, di desiderio, in una fusione fra psichico e fisico che emerge in maniera delicata e avvolgente in quadri come ne La pastorella sdraiata, (1891) o ne La favola (1883) che racconta del rapporto con sua figlia Julie (che Berthe allevò a latte e pittura). Tuttavia non c’è nulla di astrattamente idilliaco in questi ritratti. C’è una morbidezza sì, c’è l’aspirazione a vivere da donne moderne che si legge anche negli abbigliamenti, c’è la voglia a vivere nella società e insieme l’affetto verso i figli, ma senza censurare insoddisfazioni, rinunce, dolori.

Ci viene in mente sotto questo riguardo l’intenso ritratto della sorella maggiore Edma, ritratta nel quadro La culla (1872) del Museo D’Orsay, che i critici dell’epoca liquidarono derubricandolo come «Un dolce dipinto sulla maternità». C’era molto altro. Lo sguardo di Edma rivolto alla bambina che dorme beatamente ci parla di un affetto profondissimo, ma insieme, vi si legge un velo di malinconia e tristezza. Edma aveva ceduto alle pressioni familiari decidendo di sposarsi e di abbandonare la pittura. E il quadro rappresenta la complessità emotiva generata dal diventare madre in quelle circostanze.

Berthe Morisot, La culla

La storia di famiglia racconta che Berthe e Edma da giovanissime erano state avviate dalla pittura con lezioni private, insieme alla sorella maggiore che però le interruppe prestissimo. Cresciute in una famiglia abbiente, erano state mandate a lezione di pittura, così come di pianoforte e di altro, per diventare “brave mogli educate e altolocate”. La madre di Berthe non aveva messo in conto che la più piccola, che si appassionò moltissimo alla pittura, ne avrebbe fatto la propria identità di donna e di artista.

Il maestro Chocard l’aveva avvertita: «Vi rendete conto – le disse – che con il temperamento delle vostre figlie voi non ne farete delle dilettanti ma dei veri pittori? Vi rendete conto di che cosa significa questo? Nel vostro ambiente sarà una rivoluzione, se non una catastrofe». Tuttavia Madame Morisot, comunque sia, non le fermò. Edma e Berthe, più determinate che mai, cominciarono a studiare con Camille Corot, pittore socialisteggiante, anticipatore dell’impressionismo che le iniziò alla pittura en plein air. Nel 1864 vennero ammesse ad esporre al Salon di Parigi.

Edouard Manet, ritratto di Berthe Morisot con violette

Un incontro determinante nella vita di Berthe Morisot fu poi quello con Édouard Manet, di cui raccontavamo all’inizio. Si conobbero al Louvre dove lei copiava dal vero opere di Veronese, attratta dalla sua luminosa pittura tonale (le donne all’epoca erano escluse dalle scuole accademiche di pittura). Le due famiglie, quella di Manet e quella alto borghese di Morisot si frequentavano, i rapporti erano stretti e alla fine Berthe, non più giovanissima, nel 1874 decise di sposare il fratello di Manet, Eugène, che divenne il padre di sua figlia Julie.
La pittrice li ritrae nel quadro Eugène Manet in giardino con sua figlia (1883) , una delle tante opere che raccontano con linguaggio trasfigurato, quasi onirico, spicchi di vita familiare. Nonostante ciò che le imponevano l’epoca e il suo rango, Berthe non si sottomise mai interamente al matrimonio, non rinunciò mai alla ricerca della propria realizzazione.
«Vorrei compiere il mio dovere di dipingere fino alla fine – scrive nei Taccuini – Vorrei che gli altri non me lo rendessero troppo difficile. Non credo che ci sia mai stato un uomo che abbia trattato una donna da pari a pari e questo è tutto ciò che avrei chiesto, poiché conosco il mio valore». E ancora: « La mia ambizione si limiterebbe a voler fissare qualcosa di ciò che avviene. Qualcosa! Una cosa minima. Be’ questa ambizione è ancora smisurata! Una posa di mia figlia Julie, un sorriso, un fiore, il ramo di un albero, una sola di queste cose mi basterebbe». Dipingere il vissuto emotivo profondo di un momento. Dare rappresentazione a qualcosa di profondamente umano e farlo con mezzi nuovi, una pittura luminosa.

Berthe Morisot, autoritratto

Manet, Zola, Degas, Renoir, che poi insieme a Mallarmé fu il tutore di sua figlia dopo la sua morte prematura, in qualche modo compresero l’importanza di questa sua intuizione. Ma Berthe, che li accoglieva nel salotto di famiglia, secondo le regole imposte dalla società, benché avesse esposto in ben sette delle otto mostre iniziali del movimento impressionista fra il 1874 e il 1886, non poté frequentare liberamente l’ambiente artistico di avanguardia. In quanto donna non poteva partecipare alle appassionanti discussioni sull’arte moderna che avvenivano al Caffè Guerbois e in altri luoghi pubblici.
Il sodalizio artistico con Manet fu sempre, al fondo, di sudditanza. Nel rapporto con lui Berthe ebbe modo di conoscere da vicino le sue idee innovatrici. Poi fu il grande maestro dell’arte moderna ad appropriarsi di alcune idee della pittura di lei, ma questo non è stato mai adeguatamente riconosciuto. Intanto la pittura di Morisot diventava sempre più sperimentale, fino ad approdare a una pennellata sempre più libera, come si vede da quadri come Nel giardino di Maurecourt ( 1884).

«L’ultimo oltraggio a Berthe Morisot – ha scritto Elisabetta Rasy lo scorso 13 ottobre sul Domenicale del Sole 24 ore – fu la lapide nel cimitero di Passy. C’era scritto: “senza professione” e poi “vedova di Eugene Manet”. Nient’altro». Ci è voluta la tenacia della figlia, Julie Manet, (che nella mostra genovese appare in molti ritratti e con molte opere proprie), a liberare l’arte della madre dall’oblio. Molto ci sarebbe da dire anche sul rapporto fra Berthe e Julie. Morisot le trasmise tutto quel che sapeva di pittura; non di rado madre e figlia si esercitavano sullo stesso tema. Nella mostra genovese e in quella torinese curata da Chiara Bertola (catalogo 24 Ore cultura) Julie è la fanciulla che suona il violino, che gioca, che corre incontro alla vita in tanti quadri della madre, anche dopo la morte di Berthe a 54 anni, Julie proseguì sulla strada della pittura.

Sulla Libia panni sporchi dappertutto

Non è l’avviso di garanzia – che non è un avviso di garanzia – la leva che l’opposizione potrebbe usare contro la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Quell’iscrizione nel registro degli indagati durerà il tempo di appallottolare la carta dei giornali che ne hanno scritto.

Meloni è ricattabile e probabilmente ricattata. Questo è l’aspetto più rilevante. Il cosiddetto Piano Mattei e gli accordi con la Libia – come quelli con la Tunisia – pretendono il dovere di non irritare le controparti che fanno il lavoro sporco con le persone migranti per rallentarne il flusso verso l’Italia. Al-Masri è uno dei tanti nervi che non possono essere sfiorati.

Ma c’è un freno politico che incombe sull’opposizione: quegli accordi sono stati firmati nel 2017, sono stati rinnovati nel 2020 e infine ancora una volta nel 2023. Dietro il sangue libico ci sono le firme di governi di ogni parte e di ogni colore. Dall’ideatore, l’ex ministro del Partito democratico Marco Minniti, durante il governo Gentiloni, si è passati al secondo governo Conte con il Viminale occupato da Luciana Lamorgese.

Le violenze in Libia non sono iniziate con Meloni e Piantedosi, anche se certa semplificazione politica sta premendo in questi giorni. La Libia è il sacchetto dell’umido dei nostri errori e dei nostri orrori di qualsiasi colore. All’interno del Partito democratico – ancora di più nell’affollato cosiddetto terzo polo – Minniti oggi è ritenuto un ex ministro potabile. All’interno del M5S, ancora oggi, da qualcuno l’immigrazione è ritenuta un fenomeno da stoppare più del rispetto dei diritti umani. Panni sporchi dappertutto.

Buon giovedì.

Nella foto: centri di detenzione per migranti in Libia, frame del video di Rai 3, 23 maggio 2021

Il fascioliberismo di Trump e dei suoi oligarchi: è guerra di classe contro i poveri

Dopo essere riuscito per quattro anni ad evitare per un pelo la prigione, Donald Trump è tornato alla Casa Bianca. Per molti osservatori al di fuori degli Stati Uniti, la rielezione di un criminale condannato che ha cercato di ribaltare illegalmente un’elezione è sconcertante. Ma la seconda vittoria di Trump non è stata un caso fortuito. Sebbene Trump abbia abbandonato la politica formale nel 2021, le forze che lo hanno portato al potere non lo hanno fatto. Questa volta, è entrato in carica molto meglio organizzato, molto più forte e con una base politica più diversificata. In meno di una settimana, Trump ha già rivelato il suo obiettivo e messo a nudo la debolezza di coloro che potrebbero sfidarlo.

C’è un’ombra di qualcosa di colossale e minaccioso che sta iniziando a calare sulla terra proprio ora. Chiamatela l’ombra di un’oligarchia, se volete; è la cosa più vicina che oso immaginare. Quale possa essere la sua natura mi rifiuto di immaginarla. Ma quello che volevo dire era questo: vi trovate in una posizione pericolosa. Jack London, Il tallone di ferro (1907:67-68)

Vent’anni fa, chi avesse definito gli Stati Uniti un’oligarchia sarebbe stato etichettato come un comunista o, nella migliore delle ipotesi, un pazzo. Lo scorso 15 gennaio Biden ne ha fatto un punto centrale del suo discorso di addio al popolo americano, e ha anche messo in guardia da un complesso tecnologico-industriale. Biden ha avvertito gli americani che pochi privilegiati potrebbero presto essere pronti a esercitare un potere enorme negli Stati Uniti. Ha descritto una “pericolosa concentrazione di potere nelle mani di pochissime persone ultra-ricche e le pericolose conseguenze se il loro abuso di potere non viene controllato”. “Oggi, in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà, e una giusta possibilità per tutti di andare avanti”, ha affermato Biden.
Un’oligarchia è una società governata da pochi e una plutocrazia è una società governata dai ricchi: oggi negli Stati Uniti abbiamo i segni di entrambe, grazie ad un “übercapitalismo” apertamente denunciato da Bernie Sanders nel suo recente libro Sfidare il capitalismo (Fazi Editore, Roma 2024).
Quello di Biden è stato un riconoscimento salutare (ma tardivo e ipocrita, visto che almeno 83 miliardari hanno sostenuto la campagna di Kamala Harris) che, soprattutto da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti – con la decisione Citizens United del 2010 – ha aperto le porte a enormi flussi di denaro non trasparente in politica, gli individui ricchi incontrano pochi ostacoli nell’acquistare potere politico. Sul piano costituzionale, gli Stati Uniti rimangono una democrazia liberale rappresentativa e la maggior parte delle sue istituzioni funziona, ma ora oligarchi plutocratici come Elon Musk e Peter Thiel si sono messi al centro delle campagne politiche e aspirano a governare, senza più fingere di avere impulsi/valori progressisti pro-sociali e pro-democrazia. Questa nuova visibilità, dimostrata in modo sfacciato dai leader dei grandi monopoli tecnologici del “capitalismo della sorveglianza” – tra gli altri, Jeff Bezos di Amazon, Sundar Pichai di Google, Mark Zuckerberg di Facebook/Meta, Sam Altman di OpenAI, Tim Cook di Apple, ed Elon Musk di Tesla/SpaceX/X – seduti di fronte ai ministri designati da Trump all’inaugurazione, potrebbe anche rendere gli oligarchi più vulnerabili politicamente. Raramente nella storia recente la guerra di classe è stata condotta in modo così sfacciato. In genere, i miliardari impiegano delle controfigure per attaccare i poveri per loro conto. Ma ora, liberati dalla vergogna e dall’imbarazzo, non nascondono più il loro coinvolgimento. Negli Stati Uniti, l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, guiderà l’assalto federale alle classi medie e lavoratrici: cercando di tagliare la spesa pubblica e le protezioni pubbliche che difendono le persone dal capitale predatorio.

“Oligarca” non è solo una parolaccia per gli ultra-ricchi o un sinonimo di “élite”, né significa solo il governo di pochi. Se quest’ultimo fosse vero, tutte le democrazie rappresentative dovrebbero essere considerate oligarchie, poiché i membri dei Parlamenti hanno senza dubbio più potere politico dei cittadini ordinari. Piuttosto, Aristotele – al quale dobbiamo le designazioni dei diversi regimi – intendeva l’oligarchia come governo dei ricchi (al contrario, la democrazia significava governo dei poveri o del popolo). In un’oligarchia, pertanto, il potere è detenuto da un gruppo di persone in base alla loro ricchezza, allo status nobiliare o religioso, al grado militare e così via. Il termine è anche utilizzato per descrivere Paesi in cui un piccolo gruppo di persone ha molto potere anche se non governa formalmente.
Trump è un narcisista, un bullo e un cercatore di accordi che non desidera avere obblighi verso gli altri. Sta creando una monarchia elettorale non soggetta al controllo parlamentare, un sistema in cui tutto il potere è personalizzato e tenuto nelle sue mani, una ricetta certa per flussi distorti di informazioni, corruzione, instabilità e impotenza amministrativa. Per i sostenitori di Trump, c’è un senso di energia machista scatenata, quasi messianica, che sta avviando gli Stati Uniti verso un destino nazionale che potrebbe comprendere l’annessione di Groenlandia, Canada, canale di Panama e infine Marte. Trump ha annunciato che l’età dell’oro dell’America inizia adesso. E nella sua prima settimana, ha lanciato una rivoluzione politica di destra semplicemente firmando circa 100 ordini esecutivi che avranno un pesante impatto sulla vita di milioni di americani e non cittadini, avviando la deportazione di milioni di migranti clandestini, che lui dice stanno “avvelenando il sangue” degli Stati Uniti; schierando truppe al confine tra Stati Uniti e Messico per “un’emergenza nazionale” per fermare i migranti “coinvolti nell’invasione attraverso il confine meridionale”; attentando al diritto costituzionale (previsto dal 14° emendamento) alla cittadinanza (per i bambini nati negli Stati Uniti se né la madre né il padre sono cittadini statunitensi o residenti permanenti legali); invertendo le politiche di genere e diversità (Dei) per arrivare a revocare anche un ordine esecutivo contro la discriminazione firmato da Johnson nel 1965 che istituiva l’Ufficio federale dei programmi di conformità contrattuale (Ofccp); ripristinando l’ordine esecutivo del primo mandato, denominato Schedule F, che priverebbe potenzialmente decine di migliaia di dipendenti pubblici delle tutele occupazionali e li renderebbe più facili da licenziare; abbandonando praticamente la lotta contro la crisi climatica; dichiarando un’emergenza energetica nazionale per espandere la produzione di petrolio e gas naturale (il nuovo piano per la politica industriale è “drill, baby, drill”), eliminare le normative e porre fine alle regole volte ad accelerare la transizione ai veicoli elettrici (ha definito le misure climatiche dell’Ira (Inflation reduction act) come “la più grande truffa nella storia di qualsiasi paese”); e liberando i circa 1.500 criminali violenti che lo avevano sostenuto nel tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021. I repubblicani hanno sostenuto di essere il partito della “legge e dell’ordine” sin dai tempi di Richard Nixon, ma Trump, il primo criminale condannato eletto presidente, ha ribaltato la più grande indagine del Dipartimento di Giustizia della storia. Una manciata di senatori repubblicani ha condannato la sua decisione, ma la maggior parte lo ha sostenuto o è rimasta in silenzio, un tacito riconoscimento del suo immenso capitale politico. Nella sua intervista alla Fox News, Trump ha liquidato la violenza contro la polizia come “incidenti molto minori”.

La trasformazione radicale di Trump è sostenuta da assistenti e avvocati che hanno trascorso quattro anni a preparare il suo ritorno. C’è anche il “Progetto 2025” per espandere il potere esecutivo e rimodellare la vita americana, elaborato nel corso di due anni dal think tank conservatore Heritage Foundation insieme ad un consorzio di organizzazioni conservatrici (da cui Trump ha cercato di prendere le distanze ma molti dei suoi ex ed attuali collaboratori sono stati direttamente coinvolti e vi hanno contribuito). L’azione di Trump sta in gran parte seguendo le indicazioni del “Progetto 2025” e si basa anche sulla premessa di una legittimità percepita. “La mia recente elezione è un mandato per invertire completamente e totalmente un orribile tradimento”, ha detto Trump nel suo discorso inaugurale. Il sito web della Casa Bianca afferma che ha ottenuto una “vittoria elettorale schiacciante” nel 2024. Tuttavia, la vittoria di Trump non è stata una valanga. Ha ottenuto meno della metà del voto popolare nazionale e ha battuto Kamala Harris solo di 1,5 punti percentuali. I repubblicani hanno perso alcune gare chiave al Senato e hanno mantenuto la Camera dei rappresentanti solo per un margine sottile. I sondaggi di opinione mostrano che tre americani su quattro si sono opposti alla grazia per gli insorti del 6 gennaio. Trump si trova ad affrontare divisioni all’interno del partito repubblicano al Congresso e del movimento MAGA e un elettorato che chiede risultati rapidi. Le mosse di Trump per sovvertire la burocrazia federale (che lui ritiene che gli sia stata ostile durante la sua presidenza 2017-2021), in particolare il cosiddetto “deep State”, hanno scatenato paura e confusione: le agenzie sono prese dall’incertezza su come implementare una valanga di nuove politiche del presidente mentre i lavoratori valutano l’impatto sulle loro vite. Trump ha sabotato il suo primo mandato con la sua notoriamente breve capacità di attenzione, la riluttanza a leggere i documenti politici e la promozione del caos e della disfunzione. Ha uno stile di governo in cui guida con sfacciataggine e poi ricorre alle minacce. C’è il grande discorso e gli annunci appariscenti, ma poi c’è il tipo di duro lavoro di governo e Trump sembra addormentarsi quando arriva al duro lavoro. Il suo è un programma di destra radicale, ma vedremo fin dove arriverà. Gli oppositori di Trump affermano che sta distorcendo la Costituzione degli Stati Uniti e che sta espandendo i limiti del potere esecutivo oltre il limite previsto. Affermano inoltre che le mosse iniziali di Trump dimostrano che è meno interessato a unire il Paese che a trasformarlo radicalmente, e in molti casi a esigere vendetta per punire i nemici politici e intimidire i media.

Le prime settimane della sua amministrazione potrebbero rappresentare l’apice del potere di Trump, come riconoscono alcuni sostenitori. Molti degli ordini esecutivi di Trump mettono alla prova i limiti del diritto costituzionale. Un ordine per porre fine alla cittadinanza per nascita, una dottrina costituzionale che sostiene che quasi tutti coloro che nascono negli Stati Uniti sono automaticamente cittadini, è già stato bloccato da una corte federale. Diversi altri impegni e ordini hanno subito affrontato cause legali da parte di Stati e organizzazioni di difesa, e lo shock e lo stupore della sua prima settimana potrebbero impantanarsi in un contenzioso che durerà per gran parte del suo mandato. Trump potrebbe dover affrontare una sfida nel mantenere la stretta maggioranza dei repubblicani al Congresso nella Camera dei rappresentanti tra due anni. Il partito del presidente in carica perde spesso seggi alle elezioni di medio termine. Se ciò accadesse, si tradurrebbe nella chiusura totale del già stretto percorso legislativo per Trump. Insomma, ci saranno opportunità legali, politiche e sociali per gli oppositori. Anche i piccoli successi, soprattutto se ottenuti in collaborazione con altri, possono ricordare alle persone cosa è possibile fare di fronte a quelle che possono sembrare forze insormontabili.

Il 45° e 47° presidente, di ritorno alla Casa Bianca ha elettrizzato la sua base di sostenitori con una serie di condoni e azioni progettate per rimodellare il paese, anche se, come ha notato Bernie Sanders, ha ignorato quasi ogni problema significativo che le famiglie lavoratrici statunitensi devono affrontare (dal costo di cure sanitarie e medicine ai bassi salari, alla crisi alloggiativa, all’accesso all’istruzione superiore). Da un discorso inaugurale in cui sosteneva di essere stato scelto da Dio per la missione di rifare l’America alla firma teatrale di ordini esecutivi davanti a una folla chiassosa, il suo aggressivo consolidamento del potere ha suscitato paragoni con la monarchia (un popolo che è nato dalla rivolta e guerra contro monarchi crudeli ora ha il proprio). La miscela di politica, ideologia ed escatologia megalomane è particolarmente importante perché Trump ha legato il destino degli Usa alle sue fortune personali come nessun altro presidente prima di lui. Come lui sostiene, la realizzazione del programma America First (arrestare il declino statunitense vis-à-vis l’ascesa della Cina, esaltare il nativismo bianco di ascendenza europea, sostenere il nazionalismo cristiano xenofobico e razzista, predicare il libertarismo anarco-capitalistico, imporre protezionismo e unilateralismo in politica estera) è inestricabilmente legata al suo potere personale. Ma l’assalto veloce e furioso, definito “shock and awful” (piuttosto che “shock and awe”) dai critici, ha incontrato rapide sfide legali e reazioni politiche.

La torsione monarchica di Trump non è solo merito suo. Nel secolo scorso, presidenti come Franklin Delano Roosevelt hanno esteso la portata della presidenza negli affari economici e internazionali. Dopo la guerra del Vietnam, lo storico Arthur Schlesinger ha definito questa l’ascesa della “presidenza imperiale”. Ma non si è fermata. Nella sua intervista a David Frost, Richard Nixon ha sostenuto che se un presidente approva qualcosa, non è illegale. La Corte Suprema ha dato a questa visione, un tempo impensabile, la sua benedizione della maggioranza l’anno scorso, stabilendo che un presidente possiede l’immunità assoluta per qualsiasi atto ufficiale. Una giudice liberale, Sonia Sotomayor, ha affermato che questo ha reso il presidente “un re al di sopra della legge”. Attualmente, i poteri imperiali che Trump potrebbe utilizzare comprendono: uccidere cittadini americani senza un giusto processo, detenere sospettati (compresi cittadini americani) a tempo indeterminato, privare gli americani dei loro diritti di cittadinanza, effettuare una sorveglianza di massa sugli americani senza una causa giustificabile, dichiarare guerre senza l’autorizzazione del Congresso, sospendere le leggi in tempo di guerra, ignorare leggi con cui potrebbe non essere d’accordo, condurre guerre segrete e convocare tribunali segreti, sanzionare la tortura, eludere le legislature e i tribunali con ordini esecutivi e dichiarazioni firmate, ordinare all’esercito di operare al di là della portata della legge, mobilitare un esercito permanente sul suolo statunitense, gestire un governo ombra, dichiarare emergenze nazionali per qualsiasi motivo e agire come un dittatore e un tiranno, al di sopra della legge e al di là di ogni reale responsabilità.

Come afferma l’editorialista Ezra Klein, la domanda che pone Donald Trump è: “Quanto può essere re?” E con un re, inevitabilmente arriva anche una corte che può diventare un mercato, dove membri della famiglia reale, oligarchi, ministri, consiglieri, favoriti, adulatori, agenti, faccendieri e imbonitori competono per l’attenzione e il favore del sovrano. Questo è esattamente il motivo per cui lo stesso George Washington potrebbe riconoscere il sistema politico di corte che ora prospera attorno a Trump come qualcosa di simile alla forma di governo regale contro cui fu spinto a ribellarsi quasi 250 anni fa.
Gli aristocratici sono “gli animali più difficili da gestire, di qualsiasi cosa in tutta la teoria e la pratica del governo. Non si lasceranno governare”, avvertì uno dei “padri fondatori”, John Adams, scrivendo dopo la sua presidenza (1797-1801). Vietare i titoli non era sufficiente; alcuni si sarebbero comunque distinti per nascita o, soprattutto, per ricchezza. Il problema non era solo la loro capacità di acquistare favori politici, ma la presa che il loro denaro aveva sulla mente delle persone. Ecco perché i “padri fondatori (tutti maschi bianchi proprietari di schiavi neri) si sono impegnati per proteggersi da questo tipo di potere assoluto e concentrato, istituendo un sistema di controlli e bilanciamenti che separa e condivide il potere tra tre rami pari (esecutivo, legislativo e giudiziario) per garantire che nessuna autorità singola sia investita di tutti i poteri del governo.

Il potere economico e quello politico si intrecciano ovunque. La paura dell’influenza sproporzionata dei ricchi è esistita per tutta la storia degli Stati Uniti. Tuttavia, a volte la relazione diventa particolarmente dura e minacciosa. Nel suo monito contro gli oligarchi, Biden ha evocato la Gilded Age del XIX secolo e i “baroni ladri” (Andrew Carnegie, Cornelius Vanderbilt, John Pierpont Morgan e John D. Rockefeller) e i loro monopoli, che schiacciavano i concorrenti, sfruttavano i lavoratori, compravano giudici e politici e ostentavano la ricchezza. La ricchezza del team di Trump è creata e immagazzinata nei mercati finanziari; il loro patrimonio netto è la somma della fiducia che i grandi fondi finanziari (BlackRock, Vanguard, State Street, etc.) e altre persone abbienti ripongono nel loro potere di accumulazione. Viaggia facilmente e può comprare cittadinanza, sicurezza e influenza quasi ovunque.

Ecco perché Trump rimarrà fedele ai suoi miliardari, o almeno alle politiche che li hanno arricchiti: lui è uno di loro, con uno stile da “barone ladro” transazionale che sostiene che le tasse sono per i perdenti. Durante la sua prima amministrazione, nonostante le promesse populiste fatte durante la campagna elettorale, Trump alla fine si è schierato con i ricchi. Steve Bannon, il capo stratega di Trump all’inizio del suo primo mandato, ha spinto per aumenti delle tasse per i ricchi. Dopo sette mesi di presidenza, Trump lo ha licenziato e poi ha proceduto ad approvare tagli fiscali per ricchi e grandi corporation, per cui le 400 famiglie miliardarie più ricche degli Stati Uniti hanno pagato un’aliquota fiscale media inferiore rispetto alla metà più povera delle famiglie, quella della classe lavoratrice americana.

Nella sua nuova amministrazione, la destra nazionalista farà sicuramente dei progressi: è entusiasta delle mosse di Trump sulla cittadinanza per diritto di nascita e della sua promessa di andare avanti con le deportazioni di massa. Per questa destra si tratta di riportare l’America all’epoca precedente alla diffusione dei diritti – sociali ed economici del New Deal di FDR degli anni Trenta; civili e politici della ”Great Society” di Johnson degli anni Sessanta -, diritti che ritiene abbiano oscurato l’identità bianca, anglosassone e protestante del Paese. Ma se mai dovesse entrare in conflitto con ciò che vogliono i ricchi consiglieri di Trump nel mondo della tecnologia (portare l’America nell’epoca futura, dove le piattaforme social sono le nuove arene per esercitare una libertà di parola senza regole) è probabile che il suo ruolo verrebbe ridimensionato. Trump sta tentando di dare vita ad un nuovo ordine politico basato sul connubio tra conservatorismo tradizionalista (MAGA) e post-conservatorismo tecnologico (tech-right) dominato da un gruppo ristretto di persone.

La politica degli oligarchi può assumere forme molto diverse, non sono tutti necessariamente conservatori, ma hanno sempre un interesse in comune: proteggere la propria ricchezza. Storicamente, ciò potrebbe significare impiegare un esercito privato; può anche tradursi in sottomissione a un despota, che premia la lealtà con almeno un po’ di sicurezza e lucrativi contratti governativi. Nelle democrazie rappresentative liberali, ha significato esternalizzare la protezione della proprietà allo Stato, assicurandosi al contempo che la maggioranza non si faccia venire strane idee su aliquote fiscali elevate e restrizioni alla libertà privata di commercio, industria e finanza. Per questo il capitalismo ha sempre avuto un problema con le libertà democratiche che esistono solo grazie alle grandi lotte popolari condotte sotto le bandiere del socialismo dalla fine del XIX secolo.

Come ha notato Franco Ferrari, mentre la democrazia liberale si fonda sul principio dell’uguaglianza degli individui, il capitalismo si basa sulla disuguaglianza affermata come principio regolatore ineludibile (mascherata dalla retorica del “merito”). È stata in larga parte l’azione del movimento operaio socialista e comunista che, perseguendo il principio dell’uguaglianza sociale, ha posto le condizioni per una democratizzazione, relativa, del capitalismo. L’evoluzione politica e sociale degli ultimi decenni, dominata dal paradigma ideologico neoliberista (nelle versioni sia progressiste di centro-sinistra sia conservatrici di centro-destra), ha cambiato il contesto complessivo e ha consentito al capitalismo di tornare a sviluppare, senza vincoli, la propria naturale tendenza a produrre sempre maggiore disuguaglianza. Questa è fondata sulla concentrazione della ricchezza che si trasforma inevitabilmente in una concentrazione del potere. In un saggio per il think tank conservatore Cato Institute, Peter Thiel è arrivato a scrivere: “Non credo più nella compatibilità di democrazie e libertà [perché] se abilitato, il demos finirà inevitabilmente per votare restrizioni al potere dei capitalisti e quindi restrizioni alle loro libertà”.

L’1% più ricco degli americani possiede il 30% della ricchezza nazionale, mentre il 97,5% del patrimonio netto totale è detenuto dal 50% più ricco, ma la vera divisione non è tra l’1% e il resto; piuttosto, la linea di confine cruciale corre tra ciò che i gestori patrimoniali liquidano come i semplici “ricchi di massa” (tra loro c’è anche il gruppo Patriotic Millionaires che a Davos ha fatto campagna pro-tasse) e gli oligarchi che possono pagare per i servizi dell’industria della difesa della ricchezza accumulata. Persino i professionisti con redditi elevati non possono permettersi gli avvocati e i contabili necessari per creare società paravento e trasferire denaro nei paradisi fiscali; coloro che possono permetterselo, ovvero il decimo più alto dell’1%, finiscono per dover pagare meno tasse delle loro segretarie (per riprendere il famoso esempio di Warren Buffett). Apparentemente Musk ha pagato il 3,4% di imposta federale sul reddito tra il 2014 e il 2018.

L’industria della difesa della ricchezza accumulata è discreta; parte di ciò che il mondo offshore offre agli oligarchi è la segretezza. Come ha osservato la sociologa Brooke Harrington, alcuni dei ricchi pagano persino i professionisti per aiutarli a mimetizzarsi, nascondersi dall’occhio pubblico e non comparire nella lista di Forbes. Allo stesso tempo, gli oligarchi hanno un chiaro interesse nel plasmare l’opinione pubblica. In un’epoca in cui i “media tradizionali” sono in difficoltà finanziarie, è diventato molto più economico acquistare giornali o canali TV, come hanno fatto il defunto Silvio Berlusconi e l’imprenditore Vincent Bolloré, un importante sostenitore dell’estrema destra in Francia. Le piattaforme dei social media sono un po’ più costose, ma la loro portata globale offre anche possibilità uniche per influenzare la politica in molti Paesi diversi, come dimostra l’ossessivo poster Musk quasi ogni ora del giorno e della notte.

Resta insolito, tuttavia, che gli oligarchi si appropriano personalmente delle leve dello Stato, a meno che, come nel caso di Berlusconi, entrare in politica non sembri l’unico mezzo per evitare il crack finanziario e la prigione. Dei nominati politici di Trump – l’uomo che si scaglia contro le élite e si rivolge a coloro che sono rimasti indietro, i perdenti dell’era della globalizzazione – 26 hanno fortune che superano i 100 milioni di dollari; 13 sono miliardari, un variopinto gruppo di persone ultra-ricche che ha una cosa in comune: si autodefiniscono tutti dei “disruptor” che mirano a distruggere (non a riformare) gli attuali sistemi di governo. Il suo è il governo più ricco nella storia del Paese. Inoltre, c’è la persona più ricca del mondo – Elon Musk, che durante la cerimonia inaugurale ha rivolto ai suoi sostenitori il saluto nazi-fascista – in un ruolo ampiamente indefinito e completamente irresponsabile come promotore di “efficienza governativa” (DOGE). Musk, la prima persona il cui patrimonio netto ha superato i 400 miliardi di dollari, afferma che i cittadini affronteranno “difficoltà temporanee” mentre il suo Dipartimento taglia la spesa pubblica. Ha affermato che potrebbero essere tagliati “almeno” 2.000 miliardi di dollari dalla spesa federale, una cifra superiore all’intero budget discrezionale (una contrazione le cui conseguenze sarebbero devastanti per la maggior parte degli americani). Trump e Musk vogliono tagliare il bilancio federale in modo da poter tagliare le tasse per gli ultra-ricchi.

Questa classe ha bisogno di tutto l’aiuto possibile: dal 2020, la ricchezza dei 12 uomini più ricchi degli Stati Uniti è aumentata “solo” del 193% e collettivamente ora possiedono “solo” 2 trilioni di dollari. Questo mentre gli “oil-garchi” stanno già raccogliendo i frutti per aver sostenuto Trump, amico dei combustibili fossili (le grandi compagnie petrolifere hanno speso 445 milioni di dollari nell’ultimo ciclo elettorale per influenzare Trump e il Congresso). L’elezione di Trump è stata una risposta ai crudeli fallimenti del neoliberismo, ma sarà anche la loro massima espressione. È stata una risposta alla corruzione del sistema politico da parte del denaro privato. E sarà la massima corruzione del sistema.
Se il programma di Musk avrà successo, difficilmente dovremo immaginare i suoi impatti sulla vita umana e sul mondo vivente, perché nell’ultimo anno un piano simile è stato attuato in Argentina. Lì, Javier Milei ha condotto la sua guerra di classe per conto del capitale internazionale. I risultati includono un’orribile ondata di povertà; un crollo del numero di persone con assicurazione sanitaria, unito a un sottofinanziamento critico del sistema sanitario pubblico; la proliferazione di crimini d’odio; un assalto coordinato alla scienza e alla protezione ambientale; e un libero accesso per le corporation straniere che sperano di impossessarsi dei minerali, della terra e della manodopera del Paese.

Un massiccio programma di tagli e deregulation che Musk e gli altri oligarchi trumpiani cercano di estendere grazie alla politica sadomasochistica ora in ascesa su entrambe le sponde dell’Atlantico. I demagoghi hanno scoperto che non importa quanto soffrano i loro seguaci, finché i loro nemici designati soffrono di più. Se riescono a continuare ad aumentare il dolore per i capri espiatori (principalmente gli immigrati e i poveri), gli elettori li ringrazieranno per questo, indipendentemente dal loro dolore. Questa è la grande scoperta degli oligarchi guidati dallo stesso Musk: ciò che conta in politica non è quanto bene stanno andando le persone, ma quanto bene stanno andando in relazione ai gruppi esterni designati come capri espiatori.
Comunque, la strana miscela di visibilità e invisibilità crea vulnerabilità. In fondo, Trump guida una banda di arrivisti, nemici dell’”establishment corrotto” delle coste orientali e occidentali, assetati di denaro e nazionalisti irriducibili. Ci sono i conflitti di interessi e gli scandali che deriveranno dal saccheggio dello Stato (anche se, per ora, sia i democratici che il pubblico in generale sembrano semplicemente rassegnati a una cleptocrazia su una scala senza precedenti); le grandi promesse di “efficienza” di Musk potrebbero rimanere insoddisfatte; le teorie del complotto e la pura petulanza di oligarchi neo-trumpisti come Mark Andreessen (Netscape) – che si lamentano del fatto che l’amministrazione Biden aveva scatenato il “terrorismo” contro l’industria tecnologica – intaccano l’immagine dei geni della Silicon Valley sempre pronti con una soluzione ai problemi dell’umanità.

Gli oligarchi possono essere umiliati o quanto meno messi sotto controllo di regole? Gli analisti sono pessimisti sul fatto che qualsiasi cosa che non siano guerre o catastrofi economiche come la Grande Depressione determini un cambiamento fondamentale. In linea di principio, le leggi possono impedire la concentrazione del potere: i parlamentari e magistrati italiani hanno cercato di limitare il numero di canali TV che Berlusconi poteva controllare; gli antichi ateniesi usavano l’ostracismo per espellere chiunque avesse troppo potere dalla politica (anche se non c’era nulla di sbagliato nel loro carattere individuale). Ai nostri giorni, il teorico politico John P. McCormick, riprendendo gli insegnamenti di Machiavelli, suggerisce che solo la minaccia di processi popolari, con una possibile pena di morte, può far sì che i ricchi si astengano dal combinare misfatti.

Alla fine, la scommessa migliore rimane il potere di contrasto: una cittadinanza attiva, il cui impegno è ampiamente definito dalla protesta, organizzazioni forti, siano esse sindacati o associazioni della società civile, media indipendenti e, non dimentichiamolo, la politica democratica: Franklin Delano Roosevelt, che non ha evitato di usare la parola oligarchia (economica) nei suoi discorsi nella campagna elettorale del 1932, non aveva automaticamente il mandato di perseguire il potere concentrato a causa della Grande Depressione; lo ha rivendicato e costruito. A tal fine, è utile rendere visibili gli oligarchi, che saltano su e giù accanto al presidente Trump.

Sebbene vi siano molteplici grandi ego plutocratici intorno a Trump e quindi c’è la possibilità che si scatenino sanguinose faide interne tra diverse fazioni – da un lato, i nazionalisti di estrema destra e i reazionari (fautori di un “codice morale neo-vittoriano” che enfatizza il tradizionalismo socio-culturale conservatore, il patriarcato e le gerarchie razziali) del movimento MAGA (come Stephen Miller e Steve Bannon) che hanno sostenuto Trump da quando è sceso dalla sua scala mobile dorata nel 2015; dall’altro, la destra tecnologica (la “tech-right”) neoliberista e globalista di Elon Musk e delle altre élite della Silicon Valley, tra cui Peter Thiel e Marc Andreessen, diventati ferventi sostenitori di Trump più di recente; gruppi che si stanno già scontrando su aspetti chiave della repressione dell’immigrazione. L’imprenditore tecnologico miliardario Vivek Ramaswamy ha abbandonato la direzione del programma DOGE dopo uno scontro con Elon Musk (ma si candiderà alla carica di governatore dell’Ohio per il GOP).

Ma è probabile che il matrimonio tra Trump e gli oligarchi della tech-right – che prevede l’assenza di qualunque diaframma fra potere politico e affari, al punto che nessuna ingerenza e nessun conflitto d’interessi ormai sembrano troppo spudorati – prosperi senza sfide esterne. Mentre la rabbia cresceva all’inizio del secolo scorso, il presidente Theodore Roosevelt indebolì i “malfattori della ricchezza” distruggendo i trust, creando agenzie di regolamentazione e rendendo i terreni inaccessibili allo sfruttamento commerciale. Molti americani desiderano ardentemente un altro “accordo equo”. Ma la ricchezza consente ai suoi proprietari di plasmare la realtà. Le ferrovie che arricchirono i magnati del XIX secolo hanno letteralmente definito il tempo in cui il Paese correva (passando da 3.000 miglia nel 1840 a circa 259.000 miglia nel 1900). Ora il “complesso tecnologico-industriale” evidenziato da Biden e gestito dai nuovi amici di Trump funziona a un livello ancora più intimo, determinando cosa vedono gli elettori. In gioco potrebbe esserci in ultima analisi la questione di chi governerà: il popolo o i nuovi aristocratici americani.

La convergenza tra politiche pro-business e innovazione radicale promette un’accelerazione tecnologica, ma rischia di ampliare ulteriormente disuguaglianze e rafforzare i monopoli. Monopolisti visionari come Elon Musk e Jeff Bezos incarnano un’epoca di innovazione senza precedenti, resa possibile dal Telecommunications Act del neoliberista progressista Bill Clinton del 1996 che ha autorizzato la rivoluzione di Internet e del cyberspazio a essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica. Tuttavia, fuori dagli Stati Uniti il settore si trova ora al centro di un dibattito cruciale tra regolamentazione e innovazione, con una crescente pressione da parte di governi e organizzazioni internazionali preoccupati per le implicazioni sociali, economiche e geopolitiche.

Nel complesso è chiaro che la rielezione di Trump rappresenta una svolta critica per l’Occidente. Mentre la sua prima vittoria ha rappresentato una scommessa ad alto rischio verso l’ignoto, questa volta gli americani sapevano perfettamente per cosa stavano votando. Lungi dall’attenuare le tendenze autocratiche per cui è stato ampiamente criticato, ha raddoppiato la posta in gioco. Ora, l’Occidente è perseguitato dallo spettro del “capitalismo autoritario” che viene alimentato da tre profondi cambiamenti economici e politici che stanno rimodellando le economie occidentali: un allontanamento dall’ortodossia del libero mercato (neoliberismo), una stretta sulle libertà democratiche e un aumento della sorveglianza statale. Insieme, questi cambiamenti rappresentano un’economia politica distinta che, se non contenuta, potrebbe inaugurare una nuova era di governance più autoritaria.
Nel suo libro del 1978 “Lo Stato, il potere, il socialismo”, Nicos Poulantzas descrisse l’emergere dello “statalismo autoritario”, una forma di governo che egli distinse dalle dittature di polizia, militari o fasciste, e che tendeva a ridurre i diritti democratici. Criticò il monopolio quasi assoluto dell’esecutivo sulla legislazione e la sua concreta attuazione attraverso “decreti, interpretazioni giudiziarie e adeguamenti del servizio pubblico” che conferiscono potere all’amministrazione, poiché i memorandum hanno la precedenza sulle disposizioni legali. In tali condizioni, la politica statale viene formulata in circoli ristretti, sotto il sigillo della segretezza, in un modo che consente l’interferenza di reti nazionali ed internazionali private. In questo modello, il presidente è il “punto focale di vari centri e reti di potere amministrativo”, che diventano il “partito politico efficace dell’intera borghesia, che agisce sotto l’egemonia del capitale monopolistico”. L’alternanza dei partiti al potere è ridotta a un esercizio di prestigio, aprendo la porta a un vero e proprio “partito-stato dominante”. Questo statalismo autoritario, ha spiegato Poulantzas, non è “né la nuova forma di un autentico stato eccezionale né, di per sé, una forma di transizione sulla strada verso tale stato: rappresenta piuttosto la nuova forma “democratica” della repubblica borghese nell’attuale fase del capitalismo”. Questa forma di governo differisce dal fascismo: quest’ultimo deriva da una “crisi dello Stato”, ha osservato Poulantzas, e “non viene mai stabilito a sangue freddo”. La sua esistenza “presuppone una sconfitta storica della classe operaia e del movimento popolare”. Tuttavia, egli insiste sul fatto che lo statalismo autoritario contiene “elementi sparsi di totalitarismo” e “cristallizza la loro disposizione organica in una struttura permanente parallela allo Stato ufficiale”. Non si può quindi escludere che, dopo una profonda sconfitta dei movimenti sociali, possa svilupparsi “qualsiasi processo di tipo fascista”, non dall’esterno (come il fascismo storico), ma da “una rottura interna allo Stato, secondo linee già tracciate nella sua configurazione attuale”.

Grazie all’alleanza transatlantica emergente tra Trump, l’estrema destra europea e i magnati miliardari dei social media, lo “statalismo autoritario” o il “capitalismo autoritario” è la realtà che ora anche noi europei affrontiamo. È impossibile prevedere esattamente cosa farà Trump e se i suoi alleati di estrema destra in Europa seguiranno le sue orme, riuscendo a cementare e consolidare un ampio blocco sociale reazionario. Ma non dovremmo farci illusioni sulla minaccia che questa alleanza rappresenta. Questo non è lo stesso trumpismo che ha vinto le elezioni nel 2016: è un progetto completamente diverso e più pericoloso. Si apre la prospettiva di un “fascismo della libertà” o di “una “democrazia illiberale” o di una “democrazia autoritaria” o di una nichilista “democrazia oligarchica” (di cui parla Emanuel Todd) o di un “fascioliberismo” (di cui parla Luigi Ferrajoli) che promette di coniugare individualismo (“ciascuno è imprenditore di sé stesso”) e potere sovrano nella cornice di una società nazionale semplificata, conformista, socialmente conservatrice e culturalmente omogenea, riempito di contenuti radicalmente antidemocratici (rispetto ad una democrazia liberale) veicolati attraverso una retorica propagandistica della libertà dalle influenze straniere, dalle censure della correttezza politica, dagli obblighi di solidarietà, dal diritto internazionale, dalle regole e dagli impedimenti che graverebbero su individui e imprese.

In che modo le forze politiche progressiste dovrebbero cercare di contrastare l’ascesa di un nuovo autoritarismo? Una cosa è chiara: alimentare il sentimento anti-Cina non curerà i mali del capitalismo occidentale. Le radici di questi problemi, e quindi le loro soluzioni, possono essere trovate molto più vicine a casa. Anche il semplice tentativo di vietare o censurare le voci della destra autoritaria non funzionerà. Quando le voci in questione includono il presidente degli Stati Uniti e il secondo partito più popolare nel cuore pulsante dell’Europa (l’AFD), metterli a tacere non è un’opzione (anche se ciò non ha impedito a centinaia di politici tedeschi di provarci). Invece, le radici di questi problemi devono essere affrontate alla fonte. In realtà, non sono la Cina o gli immigrati a fregare la gente comune che lavora, ma un sistema economico estrattivo e iniquo. Le disuguaglianze socio-economiche si sono enormemente ampliate, mentre nel frattempo il lavoratore medio nelle economie avanzate ha visto solitamente la propria retribuzione reale diminuire o restare stagnante.

Le fortune contrastanti degli oligarchi mega-ricchi e di tutti gli altri non sono scollegate. Nonostante quanto affermano i nostri leader, il capitalismo nel “mondo sviluppato” è diventato principalmente un motore per ridistribuire la ricchezza verso l’alto, sia dai suoi cittadini che dal resto del mondo. La disuguaglianza alle stelle è anche inestricabilmente legata alla crisi climatica e ambientale. Oltre ad aspirare gran parte della ricchezza mondiale, l’1% più ricco emette tanto inquinamento da carbonio quanto i due terzi più poveri dell’umanità. Pertanto, affrontare la crisi climatica e ridurre la disuguaglianza devono andare di pari passo.

Ma indirizzando le legittime lamentele economiche verso spauracchi e migranti esterni, è la destra autoritaria, non la sinistra progressista, che ha capitalizzato con maggior successo questo sistema corrotto. Se vogliamo affrontare le sfide economiche e ambientali centrali che ci troviamo ad affrontare, questo deve cambiare urgentemente.
Le forze progressiste di sinistra hanno trasformato l’economia politica occidentale in passato e il compito che le attende è di farlo di nuovo. L’obiettivo deve essere quello di affrontare le disuguaglianze, aumentare gli standard di vita e affrontare la crisi ambientale, stando al contempo al fianco dei migranti e di altri gruppi minoritari contro persecuzioni e oppressioni. Ciò comporterà inevitabilmente un ruolo più proattivo per lo Stato. La domanda chiave è: nell’interesse di chi agirà? La lezione della Bidenomics è che concentrarsi principalmente su settori industriali come l’energia rinnovabile e la produzione manifatturiera non funzionerà se non sarà accompagnato da politiche per frenare il potere delle aziende e ridistribuire la ricchezza. Ciò significa sfidare di petto il potere degli interessi acquisiti, non sottomettersi a loro.

Questo progetto deve anche mirare a rafforzare la democrazia e proteggere le libertà civili in un momento in cui entrambe sono sempre più minacciate. Negli ultimi anni i governi di Stati Uniti, Europa e Regno Unito hanno represso il diritto di protesta con una legislazione draconiana (in Italia c’è in ballo l’approvazione del DDL 1660 “sicurezza”). Considerato il terrificante curriculum di Trump, tra cui la richiesta all’esercito di reprimere le proteste pacifiche dei “lunatici della sinistra radicale”, dovremmo aspettarci che l’assalto al diritto di protesta si intensifichi, insieme a una limitazione delle libertà civili in senso più ampio. La protesta pacifica sarà assolutamente fondamentale per resistere alla destra autoritaria in tutto il mondo, ed è esattamente per questo che è probabile che venga soppressa.

Lo spettro del capitalismo oligarchico autoritario sta infestando l’Occidente, è già qui, ed è in realtà piuttosto popolare. Ora bisogna contrastarlo dalle fondamenta. La domanda chiave è: possiamo costruire un “blocco sociale alternativo” in grado di avere ed esprimere il potere necessario per sfidarlo? Al momento, la situazione non sembra promettente: la protesta più forte all’”incoronazione” di Trump è giunta dalla voce calma e sommessa di una vescova episcopale. Possiamo solo sperare che l’arrivo di Trump 2.0 fornisca la sveglia di cui il mondo ha così disperatamente bisogno. Non dobbiamo presumere che il capitale trionferà, ma dobbiamo anche renderci conto che questo è un momento in cui chi ha idee diverse – ecosocialiste, ad esempio – per riorganizzare l’economia, per resuscitare la politica come partecipazione, per ricostruire un più equilibrato rapporto tra uomo/società e natura, deve farsi avanti e lottare per ciò in cui crede. Mentre i partiti populisti etno-nazionalisti e reazionari guadagnano terreno in Occidente, i progressisti di sinistra devono anteporre le priorità sociali e climatiche agli interessi del mercato.

L’autore: Alessandro Scassellati Sforzolini è ricercatore sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco (Derive e Approdi).

Nella foto:il presidente Donald Trump e il vice presidente J.D. Vance (foto White House Trump), 20 gennaio 2025

Il partigiano Pinot Gallizio e l’invenzione della pittura a metro

Foto di Pino Galizio courtesy Fomdazione Giorgio Amendola

Albese, chimico, farmacista ed erborista di professione, ma anche archeologo, produttore di caramelle, partigiano, politico. Artista infine: una vocazione tardiva, arrivata allo scoccare dei cinquant’anni, portata avanti con il furore dell’autodidatta, con il raziocinio del militante, con la profondità dell’uomo di pensiero. Una stagione intensa e breve, prematuramente interrotta dalla morte. Parliamo naturalmente di Pinot Gallizio (1902-1964), alfiere di una stagione formidabile e irripetibile del Piemonte e dell’Italia, che si era definitivamente lasciata la guerra alle spalle e che occupava il centro nel panorama culturale europeo.
Alla singolare figura di Gallizio la Fondazione Giorgio Amendola (via Tollegno 52, Torino) dedica, unitamente al Comune di Torre Pellice e alla Civica Galleria Filippo Scroppo, la mostra dal titolo “Dagli esordi alla pittura industriale 1955-1958”. L’esposizione, organizzata in collaborazione con l’Archivio Gallizio di Torino con la partecipazione di collezionisti privati e della Galleria del Ponte di Torino, si può visitare a ingresso gratuito fino a fine febbraio.
Il quadriennio riportato nel titolo è la finestra temporale scelta dal curatore Luca Motto; ristretta ma assai significativa la selezione delle opere, a partire da “Antiluna”, 7 metri lineari (ma erano 9 in origine, nel 1957) che della “pittura industriale” rappresentano appunto la fase aurorale, il lavoro primigenio. L’opera è parte della collezione civica d’arte contemporanea del Comune di Torre Pellice.
Proprio nel fatidico 1955 Gallizio aveva fatto il suo esordio espositivo ad Albisola Marina: nei mesi e negli anni successivi avrebbe conosciuto Farfa, Fontana, Asger Jorn, Guy Debord e Michèle Bernstein, rapporti fondamentali per la nascita del Laboratorio Sperimentale, dell’Internazionale situazionista e, appunto, della cosiddetta pittura industriale, intrigante e singolare operazione creativa, ma soprattutto riflessione profonda su un nuovo modo di fare arte, rinunciando alla “accademica” tela e al “borghese” cavalletto per sostituirli con lunghe porzioni di tela da far scorrere su lastre di vetro dipinte per ottenere, grazie anche a interventi diretti di imprimitura e di sovrapposizione di colori a olio e resine, rotoli di pittura “industriale” lunghi decine di metri. Da prenotare, da acquistare al metro, da portarsi a casa. Una rivoluzione nella rivoluzione.
Orari: dal lunedì al venerdì 9.30-12.30 e 15.30-19.00, sabato 9.30-12.30.

Informazioni: 011.2482970.

in foto il pittore Pinot Gallizio. Sopra alcune sue opere Courtesy Fondazione Giorgio Amendola

L’autore: Andrea Donna è giornalista

“Diamanti” di Özpetek è una celebrazione corale dell’universo femminile

«La vita privata zoppica per tutti quanti. I film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi, rallentamenti. Vanno avanti come i treni nella notte.» Forse il metacinema che apre e chiude Diamanti, l’ultima opera di Ferzan Özpetek, allude proprio all’assunto di François Truffaut. Lui si rivolge così all’alter ego Antoine Doinel che in quel momento si fa chiamare Alphonse. Effetto notte  fu Premio Oscar proprio in quegli anni Settanta raccontati adesso in carta da parati. Gli esseri umani, a proposito di statuette dell’Academy, sono sempre gli stessi. Fragili, sotto scacco del rimuginìo. Non c’è riconoscimento che tenga. Sarà che siamo fatti di emozioni, insicurezze, sensi di colpa, incomprensioni. Impressioni sovente sbagliate. Soprattutto sulla nostra pelle. È il bello, il brutto, della vita. Che corre veloce. Le occasioni rispetto alle premesse dell’adolescenza si dimostrano assai esigue. Deludendo aspettative. Inasprendo la velleità dei rimpianti.
Il regista racconta di nuovo la Capitale e lo fa come pochi. Lo fa con lo sguardo dell’uomo che è diventato. Del bambino e del ragazzo che è stato. Il quindicesimo lungometraggio della sua filmografia rappresenta una “soppesata”. Un totale in divenire, dunque. Niente più flashback da un passato lontano. Quel tempo viene raccontato direttamente. Scevro di indizi. Le tessere del mosaico stanno già lì. Bisogna essere bravi appena a scorgerle. Giusto per ricomporle. Sistemarle con cura.
Aspettando che la nostalgia passi da sé. Woody Allen, una volta, per bocca di Bardem (e Penelope Cruz) ha suggerito che «solo l’amore inappagato è davvero romantico». I sentimenti (r)esistono ancora. Magari sotto voce. Mascherati dall’autoironia che ne eviti lo sciupio. Luisa Ranieri l’aveva rivelato nell’ultimo capitolo della “serie”: «Chi si è voluto bene non si lascia mai. Non è il quanto, è il come. È l’intensità di un incontro che fa una storia».
Lei (con personalità, ha trovato una cifra) fa da capofila assieme a tantissime altre donne. Attrici e personaggi dello spettacolo. Diciotto, complessivamente. E se Jasmine Trinca, Vanessa Scalera e Kasia Smutniak rielaborano un peculiare circolo virtuoso, comunque consolidato, è molto piacevole (ri)scoprire interpreti di rango quali Anna Ferzetti, Milena Mancini, Loredana Cannata. Persino Mara Venier prestata (d)alla tv non sfigura affatto. Anzi. Gli oltre tredici milioni di incasso vorranno pur dire qualcosa. Alle condizioni giuste un cuoco bravo cucina bene con qualsiasi ingrediente. Le spezie fanno vivanda. Tutto è ammesso. Il consueto eccesso camp alla giudia, i maschi trattati con un filo di sussiego (Marchioni, Recano e Purgatori, intensi a prescindere), le canzoni a cappella, qualche cliché ruffiano e “frociarolo”, l’hikikomori giovanile ante litteram, San Pietro visto dal buco della serratura all’Aventino, Mina che spunta ovunque, il finale consolatorio. In fondo lo spettatore è avvisato: «L’Arte è tutta un tradimento».
Conta il cuore, allora. Quest’autore riesce sempre a fottere lo spettatore coi sentimenti. Li sa descrivere con sfacciato pudore. Uscito dalla sala potresti quasi chiedere scusa all’esistenza. E poco importa se non conosci Piero Tosi oppure manca il costume della scena finale. L’andrienne, in fondo, vale uno strascico o un mantello da strega. Basta che non si urli a sproposito, però. Stare al mondo, esistere, rimane un mestiere certosino. Solo una sarta può spiegarlo meglio al pubblico. Altrimenti in che modo potrem(m)o guardare l’amore negli occhi senza abbassarli mai? Patty Pravo è una sentenza. Il melò, Testaccio, le sigarette, la eco di Ettore Scola, le mollette di legno, il ’68, le sigarette, le spille false a via dei Pettinari, i murales disegnati ad hoc, restano un espediente. Una cartina di tornasole tesa a farci da monito. Abbiamo bisogno di ricordarlo. Vivere è complicato, ridicolo, crudele, dolcissimo. «Non siamo niente ma siamo tutto».

 

L’autore: Francesco Della calce è critico cinematografico, saggista e curatore

In foto un frame di Diamante, courtesy ufficio stampa del film

Meloni e il reato di realtà: la legge non si piega ai like

Ha parecchia strada da fare Giorgia Meloni per essere la migliore presidente del Consiglio, come continua a scrivere sui depliant elettorali. Dovrebbe, innanzitutto, conoscere la differenza tra un avviso di garanzia e un’iscrizione al registro degli indagati. Dovrebbe – se davvero le sta a cuore la cosiddetta egemonia culturale – essere lei a spiegare ai suoi elettori che con l’avviso la procura informa una persona iscritta nel registro degli indagati che è in corso un’indagine a suo carico, mentre l’iscrizione nel registro degli indagati – che ha ricevuto ieri – semplicemente è un atto interno al procedimento penale che segue una notizia di reato.

La presidente del Consiglio dovrebbe sapere che il querelante Luigi Li Gotti è tutt’altro che un pericoloso comunista: il passato nel Movimento sociale italiano smonta il teorema esposto nel video di Meloni. Difendere i collaboratori di giustizia – fondamentali nella lotta alla mafia nonostante siano odiosi per certa politica – in uno stato di diritto non dovrebbe essere un’onta.

Dovrebbe sapere Meloni che l’articolo 378 del codice penale recita che “chiunque aiuti taluno a eludere le investigazioni della Corte penale internazionale è punito con la reclusione fino a quattro anni”. (ndr sul caso Almasri v. qui). Per questo il procuratore Lo Voi – non per scelta personale, ma per rispetto della legge – ha aperto un’indagine in un Paese in cui l’azione penale è obbligatoria.

Oppure potrebbe essere peggio di così: Meloni queste cose le sa bene e ha messo in piedi il più mendace caso di manipolazione di questi ultimi anni. Tertium non datur.

Buon mercoledì.

Nella foto: Giorgia Meloni nel frame del video fb, 28 gennaio 2025

Occupazione e disabilità: i numeri preoccupanti del mercato del lavoro

L’accesso dei disabili al mercato del lavoro, in Italia, è strutturalmente insufficiente. Lo dimostrano plasticamente i dati della Xl relazione sullo stato di attuazione della Legge 12 marzo 1999 n.68, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, redatta dal Ministero del Lavoro in collaborazione con l’Inapp, l’Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche.
Le conclusioni della relazione sono sintetizzate da Franco Deriu, responsabile della Struttura inclusione sociale dell’ Inapp, unità dell’ Istituto dedicata all’analisi delle varie forme di povertà e delle misure per contrastarla, come pure allo studio delle politiche e delle azioni indirizzate a garantire l’inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità: «Il quadro delineato dalla Xl Relazione al Parlamento – spiega Deriu – mostra che l’ impianto della legge sul collocamento mirato è riuscito a sopportare gli effetti della crisi economica e occupazionale determinata dalla pandemia. Ma ha anche evidenziato i limiti di un sistema che può contare su una ottima normativa, ma non è ancora in grado di determinare quel cambio culturale e di prospettiva necessario ad assicurare un effettivo modello non discriminatorio di inclusione per le persone con disabilità in cerca di occupazione».
La relazione presenta, in particolare, i dati degli anni 2020 e 2021, «il periodo centrale della pandemia da Covid-19 – ricorda l’ Inapp – nel quale si sono manifestati con maggiore forza gli effetti sociali, economici e occupazionali della crisi sanitaria che ha interessato tutto il mondo».
«Nel 2020 le persone con disabilità iscritte agli elenchi competenti per il collocamento mirato risultavano 794.937, diminuite a 774.507 nel 2021. Le iscrizioni nel corso dell’anno attestano il condizionamento dovuto alla fase pandemica, con le nuove iscrizioni nel 2020 che non superano le 53mila registrazioni (oltre il 40% inferiori all’ annualità precedente), per poi crescere nuovamente nel 2021 a 85mila.
Complessivamente gli avviamenti al lavoro totali, comprensivi dei comparti pubblico e privato in Italia, comunicati dai servizi competenti per il collocamento mirato, ammontano a meno di 30mila nel 2020 e raggiungono i 37mila nell’ anno successivo.
Per quanto riguarda le assunzioni, nel biennio di riferimento interessato dalla pandemia, si evidenzia una diminuzione con numeri che riguardano oltre 32mila assunzioni complessive nel 2020 e 41mila nel 2021. Valori che si discostano significativamente dalla performance del collocamento mirato nel 2019, che riportava oltre 58mila assunzioni tra settore pubblico e privato». Da notare che gli avviamenti al lavoro sono sempre inferiori alle assunzioni, perché non tutte vanno a buon fine dopo il periodo di prova. Ed è impossibile nascondere la nostra costernazione in merito al dati che riguarda le strutture pubbliche, con ben 34.118 scoperture.
«Di fronte alle mancate coperture, evidenti specie nel settore pubblico -ci spiega l’onorevole Giovanni Battafarano – che fu relatore nel 1999 della legge 68 al Senato, occorre dare vita a iniziative diffuse e largamente condivise per sollecitare amministrazioni e aziende inadempienti a procedere alle assunzioni anche attraverso una forte spinta di sensibilizzazione culturale».
È necessario inoltre, esercitare una pressione sul ministero del Lavoro affinché vigili sull’attuazione della norma, in particolare modo nel settore pubblico, che elimini il più possibile ogni forma di deroga e metta in campo ogni strumento in suo possesso, magari inplementandolo anche con nuove strategie, che portino al pieno rispetto della legge.
Non si possono consentire né leggi né persone di serie B.
Da evidenziare inoltre, nella sintesi dell’Inapp, anche il numero di risoluzioni dei rapporti di lavoro tra datore e dipendente. Nel settore privato, si sono registrati 23.473 casi nel 2020 e 26.439 nell’ anno seguente, con la causa prevalente nella cessazione del termine nei contratti a tempo determinato (circa il 30%).
Dunque, si può osservare come il mercato del lavoro mostri tre grandi limiti nel rapporto con i disabili: il primo è l’accesso vero e proprio; il secondo, la stabilità e conseguentemente, il terzo, ovvero la qualità del lavoro stesso e quindi, della vita e della dignità per il cittadino-lavoratore portatore di disabilità.
Questo va messo in evidenza, a onta dello spirito della stessa legge 68, obiettivo della quale è la promozione dell’ inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili, al fine di garantire loro il diritto al lavoro attraverso servizi di sostegno e collocamento mirato.
Le cose non stanno andando così. Perlomeno, non come dovrebbero. Avere un buona normativa non basta. Non interessa la bellezza, sebbene oggettiva, del contenitore, ma quella del contenuto, che nel caso specifico di questa legge, è fatto di migliaia di donne e uomini, che con la mancata applicazione della stessa, vedono naufragare la possibilità di una prospettiva di vita dignitosa e libera, come tra l’altro, previsto e sottolineato anche dalla nostra Carta Costituzionale.
È amaro dover ammettere, che dopo 25 anni dalla nascita della legge, la strada dell’inclusione lavorativa per le persone con disabilità, è ancora lunga ed in salita.

 

gli autori *Cesare Damiano, Presidente Associazione Lavoro&Welfare, www.cesaredamiano.org
**Nina Daita, esperta in politiche sulla disabilità

La politica del “chi se ne frega”

«Chi se ne frega». Daniela Santanchè piace molto ai suoi elettori perché è la donna più simile al prototipo di maschio che piace da quelle parti. «Chi se ne frega», dice ai giornalisti che le chiedono delle sue dimissioni, del suo rinvio a giudizio, dei suoi compagni di partito che non la difendono e dei suoi alleati che non la vorrebbero più incrociare al Consiglio dei ministri.

«Chi se ne frega», dice Santanchè ripetendo la solita litania di un rinvio a giudizio che «non ha nulla a che vedere con le mie funzioni di ministro», spiega. Eppure, andare a processo per truffa allo Stato che si governa dovrebbe essere qualcosa che ha a che vedere con l’etica politica, ancora di più se si fa parte dell’esecutivo.

Quel «Chi se ne frega» è uno strale lanciato in faccia al piglio deciso sempre vantato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Meloni che in quattro e quattr’otto ha lasciato il padre di sua figlia con un messaggio sui social, Meloni che con una mano ha apparecchiato le navi per le deportazioni in Albania, Meloni che nel tempo di un cambio d’abito si è svegliata una mattina super atlantista e quasi europeista. Quella Meloni è incagliata sulla sua ministra del Turismo.

I suoi elettori si chiedono cosa la blocchi. Santanchè usa l’amico La Russa come scudo. E poi c’è il garantismo, quel garantismo che nella compagine di governo storicamente è stato usato come impunità per coprire di tutto. Se tutto è garantismo, allora ognuno è garantito, anche se ha mentito al Parlamento, anche per un rinvio a giudizio così pesante. «Chi se ne frega», appunto.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video fb della ministra Santanché nel tour Vespucci, Gedda, 27 gennaio 2025

Un convegno e una ricerca

Architettura, arte, ricerca. Nel pomeriggio del 31 gennaio, presso la Facoltà di Architettura di piazza Borghese a Roma, che ci accoglierà nella persona del suo preside Orazio Carpenzano, si terrà un convegno che mi piace definire anche con la parola Ricerca, ricerca per un futuro possibile. Durante il convegno/ricerca si parlerà dei contenuti del numero 18 del 2024 della Rivista Arc2città, una rivista digitale, che ha la sua redazione in Milano ed è stata ideata ed è diretta dal professore Ernesto D’Alfonso. La rivista propone al lettore un viaggio nuovo e particolarissimo nel mondo delle arti: il mondo della rappresentazione, dal cinema all’architettura.
“In particolare cercheremo di mettere in evidenza un nesso tra il gruppo del Politecnico del regista, architetto e drammaturgo Amedeo Fago, nella “fabbrica” al Flaminio, la sua partecipazione all’ Analisi Collettiva di Massimo Fagioli e le opere d’arte di Fagioli stesso con cineasti, artisti, architetti. Essendo Fagioli uno psichiatra e uno psicoterapeuta emerito, quindi una fonte di avanzamento del sapere. Che, per quanto ci riguarda, riguarda le arti”, annota D’Alfonso.
Perché il Politecnico? E quale il nesso, che la rivista propone, con l’Analisi collettiva di Massimo Fagioli? Cosa successe tra gli anni Sessanta e Settanta? Per comprendere e spiegare prendo a prestito, questa volta, le parole dello stesso Fagioli nel suo incipit alle Notti dell’isteria: “Si evidenziarono con gli anni Sessanta, accanto e insieme a movimenti sociali e politici di portata mondiale che si estendevano dall’estremo oriente comunista alle aristocratiche università statunitensi, interessi sempre più diffusi per la realtà psichica umana. Gli anziani e pochi cultori di una terapia non farmacologica della malattia psichica cominciarono ad essere richiesti e frequentati”. Stalin era morto nel 1953, nel 1956 ci fu la destalinizzazione del comunismo, nel 1960 ebbe inizio lo scontro teorico e non solo tra Russia e Cina, ebbe inizio la così definita rivoluzione culturale di Mao… Nella “piccola Italia lacerata dal tormento di uscire dalla secolare civiltà contadina e cattolica” la cultura era ancora nell’incertezza e poi venne, improvviso, il sogno ad occhi aperti del sessantotto… Ma l’immaginazione al potere, frase sbandierata nel maggio francese, si scoprì essere illusoria perché proponeva una fantasia alla quale mancavano le fondamenta, e la parola libertà veniva coniugata dimenticando la parola identità, sua sorella gemella ma diversa. La teoria assolutamente nuova che raccontava di un inconscio conoscibile e della non scissione tra inconscio e coscienza nacque nel 1971.
Se il ’68 morì con il ’68 perché aveva fatto senza essere, comunque in quegli anni, insieme alla ricerca per la realtà psichica, avvenne un mutamento irreversibile perché la ricerca aveva assunto il suo ruolo sociale: i dibattiti si svolsero coralmente, nei collettivi, nelle assemblee, nei circoli culturali. In questo clima generale gli architetti cercarono di uscire dallo stretto recinto disciplinare per confrontarsi con altri linguaggi, diversi da quello che dominava la disciplina architettonica sino ad allora; la rivista ci racconta che il Politecnico fu testimonianza e sperimentazione di questa ricerca.
“Uscirono, peraltro, in quegli anni, i libri di Massimo Fagioli sulla Teoria della nascita, che demolivano le premesse freudiane della psicoanalisi. Si manifestò, peraltro, una modalità inaudita di tenere le “sedute” della psicoterapia. Furono sedute collettive, cui partecipavano decine di persone. Ed in cui la rivelazione in pubblico di ciò che di più irripetibile e non razionalizzabile sia stato vissuto in stato di sonno, non cosciente, in presenza ai dati di senso veniva partecipata in un racconto volto ad essere interpretato. Il modo in cui si manifestò e il successo che ricevette dal pubblico merita di essere fatto oggetto di riflessione.”, si legge ancora nel numero della rivista.
Nel 1980 a Firenze e poi a Bologna si tennero due dibattiti, gremitissimi, sull’arte, sulla possibilità di trasformazione degli esseri umani, sulla realtà umana dell’artista. Nel 1980 i seminari di Analisi Collettiva furono accolti dallo psichiatra nel suo grande studio privato in Trastevere.
Nel 1985 il film Diavolo in corpo propose un nuovo volto di donna e denunciò l’impotenza del setting freudiano. Nel1986 Fagioli volle ristrutturare la sede dei suoi seminari in via di Roma Libera 23: l’aver ristrutturato il luogo ebbe il significato di consolidamento di dieci anni di lavoro psicoterapeutico ma, insieme, la forma architettonica della struttura divenne oggetto di una proposizione a livello artistico: molteplici e diverse furono le immagini oniriche e le interpretazioni che ne seguirono. Ebbe inizio una ricerca collettiva sull’origine delle immagini in architettura e sul processo creativo che porta dalla ideazione alla realizzazione di un progetto, uscendo dallo stretto recinto disciplinare per fondarsi solidamente sulla rivoluzionaria Teoria della nascita.
E la ricerca continua.

L’autrice: Paola Rossi è architetto, saggista ed ex assessore

In foto un’immagine dal documentario su Il Politecnico

Sul Tevere con i fiumaroli. La Roma che ancora resiste raccontata da Angelo Loy

Accade a Roma, e forse in tante altre città: c’è una vita urbana visibile, accelerata, o piuttosto centrifugata, e poi ci sono gli interstizi, che ospitano altri mondi e altri ritmi, in cui sopravvivono tradizioni e mestieri altrove perduti. Il docufilm di  Nel tempo di Cesare, trent’anni con i fiumaroli  di Angelo Loy racconta le vicende di due famiglie di pescatori di anguille – “i rosci” e “i ciccioni” – che da generazioni vivono e lavorano sul Tevere, contendendosi il controllo del fiume. Angelo Loy, regista di documentari sociali, tra cui Pinocchio nero con Marco Baliani e un gruppo di ragazzi di strada di Nairobi, Una scuola italiana e Luoghi comuni, ha incontrato Cesare e gli altri pescatori per la prima volta nel 1995. Per quasi trent’anni è andato a trovarli, condividendo con loro il tempo sul fiume, i giorni di festa e i momenti di sconforto, documentando le vite e gli intrecci tra le due famiglie da una sponda all’altra del Tevere. Nel tempo di Cesare è un viaggio alla scoperta della cosiddetta “cultura fiumarola”, una parte di Roma nascosta e sorprendente, un mondo che oggi appare quasi mitologico, ma che resiste e vive secondo il ciclo del fiume, lontano dalle traiettorie cittadine e sconosciuto agli stessi romani. A gennaio nelle sale: il 27 a Milano, al Cinema Anteo; il 28 a Torino, al Cinema Massimo; il 29 a Roma, alla Sala Troisi.

Angelo, come hai conosciuto “i rosci” e “i ciccioni”?

Era il 1995, studiavo biologia e per la tesi di dottorato mi servivano campioni di anguille, così sono andato al Tevere e sono entrato in contatto con queste due famiglie, Cesare e Alfredo, due fratelli detti “i rosci”, e Franco e Nando, e la madre Sor Irene, detti “i ciccioni”. Erano rivali e vivevano sulle sponde opposte del fiume. Mi hanno subito accolto. Andavo a trovarli con una videocamera e riprendevo. Così per un paio d’anni, poi sono partito per una specializzazione a New York. Ero convinto che avrei fatto il biologo, invece sono diventato un regista, e proprio grazie ai “fiumaroli”.

Com’è andata?

A New York avevo un amico scultore, Vincenzo Amato, emigrato da Palermo come si partiva allora dall’Italia, con le scatole di cartone. Viveva in una scuola abbandonata di Manhattan, dormiva su una tavola di legno sistemata sopra ai bagni. All’inizio andavo a trovarlo il venerdì sera, poi sempre più spesso. Da lui ho conosciuto Emanuele Crialese, si è creato un gruppo e nel primo film di Emanuele, Once we were strangers, Vincenzo ha recitato da protagonista (come poi in quasi tutti i suoi film), io facevo il backstage. Nello stesso periodo ho incontrato la documentarista Danae Elon e le ho raccontato dei “fiumaroli”. Il mio iniziale interesse è diventata una passione, anzi un’ossessione, e ho deciso di tornare in Italia per raccontare la loro storia. Dal ‘99 al 2002 ho fatto nuove riprese, Danae ha curato la fotografia a pellicola. Ne è venuto fuori un montato di 36 minuti. A quel punto la cosa per me era esaurita e sono partito per l’Africa. Non avevo idea che dieci anni dopo sarei tornato al fiume.

Cosa ti ha riportato al Tevere?

Nel 2012 ho ricevuto un sms di Franco, uno dei “ciccioni”. Diceva: “Amico vieni, porta videocamera”. Negli anni erano successe tante cose. Franco si era ammalato, il fratello, Nando, era morto e l’anziana sor Irene era migrata sull’altra sponda. Sopita la faida, adesso erano gli antichi rivali, i “rosci”, a prendersi cura di lei. Al tempo del messaggio, Franco si era aggravato e mi stava chiedendo di continuare a raccontare, così sono tornato per seguirlo fino alla sua morte.

Cosa significa fare riprese per quasi trent’anni?

Il tempo in questo film è centrale. C’è il tempo del fiume, ci sono decenni di lavoro, e c’è la costruzione di una narrazione. Non è un documentario antropologico sui mestieri che vanno scomparendo, né un racconto agiografico sulla pesca sul Tevere. Ho voluto raccontare il flusso della vita di queste persone, cogliendo i momenti che potevano essere snodi narrativi. Sul fiume non succede mai niente, ogni giorno è uguale al precedente, quindi ho dovuto lavorare sul lungo periodo per catturare i piccoli cambiamenti che tutti insieme creano una storia. Il pescatore e il documentarista hanno questo in comune: l’allenamento all’attesa. C’è anche un’evoluzione nelle riprese: all’inizio c’è più freschezza, meno necessità formale, ma anche più distanza tra me e loro, un po’ di pudore, forse. Man mano che si crea la fiducia, la telecamera scompare, tra di noi siamo più diretti, si lavora insieme. Per me è stato un film di formazione, in tutti i sensi.

Cosa intendi?

Intanto, è stato grazie all’incontro con i “fiumaroli” che sono diventato regista di documentari sociali. Mi interessa entrare in contatto con mondi che non sono il mio, creare le condizioni perché chi non ha voce possa raccontarsi da sé. È questo che ho fatto anche nei tanti anni di lavoro in Africa con i ragazzi di strada. Poi quando è arrivato quel messaggio di Franco ho capito che era ora di tornare al punto di origine, come fanno le anguille quando tornano al mare dei Sargassi. Ancora oggi vado a trovare Cesare e gli abitanti del fiume, è un luogo che mi riconcilia con la mia città, che per molti versi soffro e mi affatica. Questo lavoro mi ha posto davanti a questioni umane e professionali. Per esempio, il documentario presuppone che si restituisca una verità che di fatto non esiste: tutto è manipolazione, dalla scelta dell’inquadratura al modo di interagire, al montaggio. Quello che conta è lo scopo ultimo. Il mio era creare un lavoro in cui sia io che i “fiumaroli” ci riconoscessimo. Anche il montaggio è stato complicato, più volte ho temuto che questo film esistesse solo nella mia testa, finché non ho incontrato Shervin Zinouzi, che è riuscito a restituire quello che volevo raccontare: la vita di queste persone e le emozioni della “cultura fiumarola”.

Cos’è la “cultura fiumarola”?

Cesare direbbe che è un modo di vivere. Queste persone vivono in simbiosi col fiume, in un rapporto di prelievo, rispetto, amore. Sono gli eredi di chi fino agli anni Sessanta, prima del grande inquinamento, viveva il Tevere come la zona vacanziera più prossima alla città, ma sono anche professionisti di un’attività che si svolge sul fiume. La loro è una cultura popolare, molto romana, una tradizione culinaria e di accoglienza, un certo modo di fare festa. Oggi è una bolla, sopravvissuta perché marginale, trascurata. All’inizio loro stessi erano sorpresi che io mi interessassi a loro, che volessi entrare nel loro mondo e raccontarlo. Nel tempo però mi sono conquistato anch’io il titolo di “fiumarolo”, con tanto di cerimonia e attestato. Me l’hanno consegnato gli amici e i parenti di Cesare. Eccolo qui, c’è scritto: «La comunità fiumarola/Per la disponibilità e la simpatia/Per la grande passione dimostrata nel campo della Vita Tiberina/Vista la professionalità acquisita di regista/In nome della fabbrica dell’appetito/ Conferisce ad Angelo Loy, nato a Roma il 6 ottobre 1966,
Il titolo di “Fiumarolo”».