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Manco li cani

Niente segreto di Stato. In compenso ieri è andata in scena la menzogna di Stato, con il ministro Nordio nella parte del primo attore che è riuscito a infilare di fronte al Parlamento una serie di sfondoni giuridici e politici degni di un’interrogazione di diritto andata male alle scuole superiori.

Nordio spiega che Almasri è stato rilasciato perché ha ritenuto troppo vaghi i capi di accusa della Corte penale internazionale nei confronti del torturatore Almasri. Quindi, poiché il macellaio libico è stato ritenuto non pericoloso, è stato rilasciato. Ma è stato accompagnato a casa con un volo di Stato – che era pronto tre ore prima della decisione ufficiale del ministro – perché ritenuto troppo pericoloso. Anzi, si è deciso di accompagnarlo proprio tra le braccia festanti dei suoi colleghi, mezzi poliziotti e mezzi trafficanti, per umiliare completamente l’Italia agli occhi del mondo.

L’attrice protagonista di questa brutta storia, Giorgia Meloni, è rimasta fuori scena. Oscena come si direbbe letteralmente. Tra le quinte a spiare e sperare che tutto passi in fretta, confidando nella credibilità delle sue comparse. Missione fallita.

Era in scena invece la deputata meloniana Augusta Montaruli, che ospite nello studio di Tagadà su La7, ha pensato di silenziare il Dem Marco Furfaro abbaiando. Quello faceva notare che Fratelli d’Italia mandasse in televisione a discutere di giustizia una pregiudicata e la pregiudicata rispondeva ripetendo ossessivamente “bau bau”, con la faccia anche piuttosto divertita. La conduttrice è dovuta intervenire per ricordare che la situazione era seria. Invece è tragica, ma non seria.

Buon giovedì.

Trump e l’illusione del protezionismo

Le guerre commerciali di solito non finisco bene, tantomeno per chi le inizia. È ormai cronaca che lo scorso 1 febbraio il neo-presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto un aumento delle tariffe doganali per i prodotti che vengono dai tre principali partner commerciali, ovvero dal Canada, dal Messico e dalla Cina. Gli importatori americani saranno costretti a pagare il 25% di tasse su tutte le merci provenienti dal Canada e dal Messico, legati agli Stati Uniti, è bene ricordarlo, da un accordo di libero scambio noto come NAFTA (Accordo nordamericano per il libero scambio). Per quanto riguarda la Cina, ad oggi si parla dell’imposizione di tariffe dell’ordine del 10%. Chi impone le tariffe, di solito, si deve aspettare delle ritorsioni di egual misura, se non di ordine di grandezza più grande.

Trump gioca sulla convinzione dell’importanza del mercato interno americano (quello dei consumi e dei capitali, per intenderci) per tutte le economie export-led, ovvero quelle che fanno delle esportazioni delle proprie merci un fattore determinante per la propria ricchezza nazionale (come lo è di fatto anche l’Italia). Dati alla mano, la ricchezza pro-capite degli Stati Uniti (dati 2023) è di 74,600 dollari a testa (cifra media che non tiene ovviamente conto delle enormi diseguaglianze tra ricchi e poveri), rispetto a quella della Cina e del Messico che è di soli 22,100 dollari. Limitare l’accesso al mercato statunitense, secondo Trump, vorrebbe dire mettere in difficoltà i partner commerciali più di quanto non metterebbe in difficoltà gli Stati Uniti. È una politica dell’azzardo, rischiosa per i suoi effetti destabilizzanti non solo sull’economia globale ma anche sull’ordine geopolitico.
Bisogna infatti considerare che molte aziende americane usano il mercato cinese, canadese e messicano per produrre i propri prodotti beneficiando dei costi del lavoro più bassi e di regolamentazioni ambientali light. Parte così delle importazioni americane da questi Paesi sono a marchio Made in USA, specialmente prodotti tecnologici, automobili, abbigliamento, etc. I primi a beneficiare di questo rapporto commerciale tra USA e “resto del mondo” sono le stesse aziende americane (ed europee, anche italiane) che, per tutelare i propri scopi di profitto risparmiando sui costi del lavoro, causano un deficit della bilancia commerciale del proprio paese. Chi soffre sono quelle imprese ed aziende americane (ma anche quelle italiane) che lavorano e producono esclusivamente sul suolo nazionale (e che non possono delocalizzare) e che risentono così della concorrenza estera. Trump di fatto ha ottenuto una valanga di voti proprio da questa fascia di popolazione “indebolita” da siffatto sistema di scambi. Non deve infatti meravigliare che una delle sue prime mosse politiche si concentra nel dare un segnale forte ai suoi elettori scatenando una guerra commerciale su vasta scala. Paradossalmente però, tali scontri commerciali causeranno crescenti costi a tutta la popolazione americana, almeno nel breve periodo.

Come ricorda il sito Bloomberg, le nuove tariffe americane ridurranno di circa il 15% le importazioni totali e genereranno circa 100 miliardi di dollari di maggiori entrate all’anno. Tuttavia, questo genererà anche dei contraccolpi nell’economia americana. Prima di tutto può creare delle distorsioni nella catena del valore a livello internazionale, rompendo e alterando i vari collegamenti di approvvigionamento delle aziende. Di fatto l’aumento dei costi può rendere meno conveniente produrre o assemblare in un paese rispetto ad un altro, etc. Di conseguenza, un secondo contraccolpo è certamente l’aumento dei costi per chi svolge attività imprenditoriali e commerciali su scala planetaria (ma non per le compagnie high-tech o di servizio come Amazon e Meta). Di conseguenza si arriverà alla perdita di molti posti di lavoro, non è detto esclusivamente nei paesi periferici. Facciamo un esempio: se mi aumentano i costi per le mie esportazioni o importazioni (visto poi che ai dazi americani si aggiungeranno i dazi degli altri paesi) non è detto che sia conveniente per me far tornare l’intera produzione in patria. Magari è semplicemente più conveniente delocalizzare interamente tutta la mia produzione in un paese terzo per compensare l’effetto degli aumenti dei costi tariffari. Nella migliore delle ipotesi, tali aumenti causeranno un rialzo generale dei prezzi e dunque un danno per tutti i consumatori.
Per quanto ne dica Trump, l’economia americana è fatalmente interconnessa con moltissimi paesi stranieri. Tra i vari rincari previsti dai nuovi dazi, c’è quello dell’energia. Circa il 70% del petrolio grezzo lavorato nelle raffinerie americane proviene da Canada e Messico (Trump vuole aumentare lo sfruttamento del petrolio nazionale per superare questo problema ma non si conoscono ancora bene i tempi). Collegato al settore del petrolio è certamente quello dell’auto. Attualmente gli Stati Uniti importano circa la metà delle auto vendute nel proprio paese, specialmente da Canada e Messico (dove sono presenti molto aziende americane che usano i vantaggi offerti in questi paesi, come ad esempio un assai minore costo del lavoro in Messico). Il Council of Foreign Relations stima che ci sarà un aumento per veicolo di circa 3 mila dollari al momento della vendita. Anche i prezzi alimentari potrebbero subire un aumento, sia come conseguenza del rialzo del costo del petrolio che per la dipendenza americana dai prodotti agricoli messicani: questo paese fornisce agli Stati Uniti circa il 60% delle importazioni di ortaggi e verdura nonché un’enorme quantità di frutta.
Trump gioca sul fatto che Canada e Messico verranno a loro volta colpiti pesantemente dai novi dazi. I due paesi sono molti dipendenti dal commercio con gli Stati Uniti, dato che circa il 70% del loro PIL dipende da questi scambi. Basti pensare che l’80% dell’export messicano prende la via degli Stati Uniti (per Washington invece le importazioni dal Messico valgono solo il 15% della torta). La guerra commerciale con il Messico rischia di causare un calo del suo PIL dell’ordine del 16%. Questo causerebbe un aumento della povertà e dunque dell’immigrazione verso gli Stati Uniti; possibilità che Trump dovrebbe evitare, per quanto funzionale alla sua politica di strumentalizzazione politica a danno degli immigrati.
Stessa cosa per il Canada. Gli Stati Uniti acquistano circa il 70% dell’export canadese, che vale circa il 14% delle importazioni americane. Basti pensare che circa l’80% dell’export di petrolio canadese varca i confini degli Stati Uniti.

Tuttavia, il deficit americano nei confronti di questi Paesi permette a Washington di sostenere la sua valuta e di finanziarie la propria spesa pubblica a costi decisamente più bassi rispetto a quelli che il mercato imporrebbe. Di fatto, essendoci tanti dollari in giro, acquistare i titoli di Stato americani (Treasury) diventa una scelta più che ragionevole e quasi obbligata (se si punta su investimenti “sicuri”). Questa condizione mantiene il costo dell’indebitamento pubblico americano basso, sostiene il dollaro e il ruolo egemonico degli Stati Uniti nel mondo. Non è azzardato affermare che il deficit americano mantiene paradossalmente in piedi alcune architetture del potere statunitense a livello globale.

Come nel 1933, la guerra commerciale tra i vari Paesi può innescare spirali di violenza politica difficilmente controllabili, aumentare il risentimento dell’opinione pubblica così come i costi generali per i consumatori. Il problema non sono i rapporti commerciali di libero scambio in sé, ma come le risorse derivate da questi scambi vengono utilizzate e concentrate in poche mani anziché redistribuite, almeno in parte, tra chi subisce i danni più deleteri di queste aperture; specialmente coloro che lavorano e producono per il mercato domestico, ovvero coloro che generalmente, presi dalla disperazione, costituiscono la base di voto per i partiti populistico-nazionalistici alla Trump.

L’autore: Giampaolo Conte è PhD Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo Università Roma 3,Research Associate ISEM-CNR ed editorial assistant of The Journal of European Economic History

Foto Adobe stock nr. 953180160

È Minniti a essere un caso di sicurezza nazionale

Marco Minniti

Pronunci la parola Libia, la scrivi nel più minimo articolo laterale, l’ascolti nel più laterale dibattito politico e sei sicuro che da lì a breve arriverà un’intervista solenne a Marco Minniti. L’ex ministro dell’Interno. L’ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni dal 2016 al 2018, sostenuto dal Partito democratico, da Alternativa popolare di Angelino Alfano sulle macerie del governo Renzi, è considerato un maestro del genere.

Così, sul mancato arresto del torturatore libico Almasri, ecco che Minniti si schiarisce la voce e spiega a Il Foglio che le opposizioni sbagliano ad attaccare il governo: «la questione è più generale. La Libia è strategica», spiega Minniti al Corriere della Sera con un’amichevole pacca alla retorica meloniana. «La sicurezza nazionale si gioca fuori dai confini nazionali», «la Libia è la base più avanzata dei trafficanti di esseri umani» ma soprattutto è energicamente «essenziale» e «l’Africa è il principale incubatore di terrorismo nazionale», detta Minniti. Meloni prende appunti, ha l’arringa già pronta.

Del resto fu proprio Minniti a firmare lo sciagurato memorandum Italia-Libia che da otto anni gocciola sangue di persone diventate prede dei sanguinari libici che ne fanno carne da macello, lautamente pagati dal governo italiano. Fu Minniti a trasformare le persone migranti in armi non convenzionali sacrificabili sull’altare di qualche bonifico internazionale.

«Lo Stato non è una ong. Dobbiamo abituarci alla guerra del bene contro il bene», spiega Minniti. Forse la vera questione di sicurezza nazionale è Minniti e noi ce lo siamo dimenticati troppo in fretta.

Buon mercoledì.

 

Al centro della foto Marco Minniti alla Leopolda scatto di Di Francesco Pierantoni – https://www.flickr.com/photos/tukulti/15009260743/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83259655

Trump va alla guerra dei dazi. L’Europa che fa?

Trump è andato, dunque, alla guerra dei dazi. Imponendo, a partire dal 4 febbraio, tariffe supplementari del 25 per cento sulle merci canadesi e messicane e del 10 sul quelle cinesi. Ha anche dovuto adottare una cautela relativa all’importazione di idrocarburi dal Canada: si tratta di prodotti utilizzati dal settore energetico Usa sui quali la nuova tassazione si ferma anch’essa al 10 per cento. Questo, nell’ovvio timore che i costi supplementari finiscano per scaricarsi sui consumatori americani. Cosa che con i dazi è piuttosto ovvio che accada.
Se lo scopo di tali imposte è quello di favorire le produzioni domestiche del Paese che le adotta, prima che ciò accada è assai probabile che siano i consumatori a vedersi addossare l’aumento dei costi delle merci sovra-tassate. Tant’è che, dopo aver promesso, fin da quando aveva espresso l’intenzione di applicare i dazi, che ciò non sarebbe accaduto, domenica ha, invece, scritto su “Truth”, il suo social media personale, “ci sarà un po’ di sofferenza? Sì, forse (e forse no!)”. Forse. Più realisticamente, sì.Larry Summers, che fu segretario al Tesoro dell’Amministrazione Clinton, prevede che la situazione provocata dai dazi di Trump sarà “uno shock dell’offerta auto-inflitto”. Ossia, una riduzione improvvisa e significativa della disponibilità di beni e servizi che porterà con sé conseguenze economiche negative. Tant’è. Vedremo presto gli effetti di questa forma di guerra commerciale che il Presidente Usa sta avviando.
Intanto, l’Europa sembra voler cominciare a reagire al brutale cambio dello scenario globale in corso e alla situazione critica nella quale è immersa la sua economia ormai da molti mesi. Senza contare l’attesa per le azioni ostili di Trump. La scorsa settimana la Commissione Europea ha presentato la sua nuova iniziativa strategica intitolata “Bussola per la Competitività”. Di cosa si tratta? Innanzitutto della prima presa d’atto fattiva del Rapporto Draghi presentato lo scorso anno. Il documento, nelle intenzioni della Commissione, che lo indirizza al Consiglio e al Parlamento, è “una bussola che guiderà il lavoro nei prossimi cinque anni e stila una lista di priorità per reinnescare il dinamismo economico in Europa”. L’indirizzo è fondato su tre pilastri. Primo, l’innovazione per colmare il divario di competitività attraverso misure che semplifichino la regolamentazione e promuovano investimenti in tecnologie avanzate; secondo, la decarbonizzazione perseguita attraverso lo sviluppo di un piano congiunto che non comprometta la crescita economica, mirando a rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero; terzo, la riduzione delle dipendenze strategiche da Paesi terzi, diversificando le catene di approvvigionamento.
Ai tre pilastri si sommano cinque fattori trasversali definiti “abilitatori di competitività” che supportano l’intero piano: semplificazione normativa, riduzione delle barriere nel Mercato Unico, finanziamento della competitività, promozione di competenze e lavoro di qualità e miglior coordinamento delle politiche nazionali tra i Paesi dell’Unione.
Si può osservare che un “non detto” sia quello di una rimodulazione della strategia di decarbonizzazione, ossia del Green Deal, che, nella sua astratta rigidità, ha avuto conseguenze sistemiche sulla manifattura, in particolare su quel settore dell’automotive messo praticamente in ginocchio. In secondo luogo, emerge come la Commissione abbia, infine, preso sul serio, in particolare, i contenuti del Rapporto Draghi. Contenuti accolti, in un primo tempo, in molti ambienti politici ed economici, con grande scetticismo.
La realtà oggi ci appare ben diversa. L’Europa è sola in tempi molto difficili. Sola e ammalata di quel sovranismo che non può far altro che condurre le “piccole patrie”, nella migliore delle ipotesi, a un misero vassallaggio in favore degli Stati Uniti o della Cina. E tra meno di venti giorni scopriremo quale sarà l’esito delle elezioni politiche in Germania. Un appuntamento che ci dirà molto sul futuro (incerto) dell’Europa.

Il fermaglio di Cesare Damiano

L’autore:Cesare Damiano, Presidente Associazione Lavoro&Welfare, www.cesaredamiano.org
foto di The White House from Washington, DC – President Trump at Davos, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=86164607

Toh, Trump piace a Putin

Ieri è successo. «Trump, con il suo carattere e la sua determinazione, riporterà l’ordine molto rapidamente. Presto tutti si inchineranno e lo seguiranno senza esitazione», ha detto ieri Vladimir Putin al giornalista Pavel Zarubin. E in un secondo gli autocrati si allineano sulla mappa del mondo.

Il presidente Usa piace parecchio al presidente russo. Hanno del resto le stesse radici culturali: la violenza di comando come metodo, la natura predatoria, il fastidio per le minoranze, l’imperialismo come aspirazione. Putin invade per esistere e Trump promette invasioni per piacere ai suoi elettori. Putin mostrifica gli avversari per farne dei nemici, Trump pure. Per ora la differenza sta nel modo di fare la guerra: uno con le bombe l’altro con le deportazioni, i dazi, l’esclusione sociale.

Sarà interessante – ma tragico – l’imbarazzo intorno. Il ministro delle Finanze Giorgetti che in Europa siede con i Patrioti che vorrebbero distruggerla e in Italia chiede all’Europa di difendere l’Italia dai dazi Usa è un tilt esemplare. Se ti piacciono gli antidemocratici e poi rivendichi la democrazia rimani incastrato nella propaganda.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni spiega che «Trump è un negoziatore» e quindi «non bisogna attaccare». Avrebbe voluto essere la mediatrice e ora si arrabatta per salvare il prosecco ai danni dello champagne. I dazi del suo amico Trump costerebbero all’Italia tra i 4 e i 10 miliardi.

La “pace in Ucraina” sta diventando un ricatto con cui The Donald vuole arraffarsi le terre rare. Un capolavoro insomma.

Buon martedì.

In foto Trump e Putin al G20 2017 foto di Kremlin.ru, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=60731524

Al MAXXI grandi autostrade di propaganda

Ma le autostrade sono di destra o di sinistra? Ai miei tempi negli anni Settanta non c’era alcun dubbio: erano di destra. Era il regalo che il Paese democristiano faceva al capitalismo degli Agnelli. Che non solo facilitava al massimo la produzione delle sue automobili Fiat, ma soprattutto costruiva in giro per l’Italia i nastri di asfalto in cui farle scorrere. Molto smog è passato sotto i cieli, tanto è vero che ne sono passati 100 di anni da quando Mussolini inaugurò la prima autostrada italiana, quella dei laghi per il vecchio senatore Giovanni Agnelli. Con una buona dose di ineffabile distanza oggi il Maxxi ha ordinato una mostra sulle autostrade italiane (dal titolo Italia in movimento, autostrade e futuro, aperta fino 9 marzo) celebrando il centenario di quel primo ormai lontano “evento”.

La mostra è senza infamia e senza lode e raccoglie materiali eterogenei: un poco naturalmente sui grandi ingegneri che hanno contribuito alla realizzazione delle autostrade italiane e dei grandi viadotti, un poco sulle ditte costruttrici, un poco sul cosiddetto “paesaggio”che sarebbe esaltato dall’attraversamento delle autostrade. Manca però l’incredibile svincolo di Santo Stefano di Camastra in Sicilia, uno svincolo con incroci, innesti, rampe sul cielo che se non prevalesse l’horror sarebbe veramente notevole. Altrettanto ineffabilmente è presente anche in video san Renzo Piano. Con la sua ben nota ecumenica distanza dai fatti materiali dell’esistenza, ci presenta il suo misfatto a Genova. E cioè l’essere stato parte dirigente dell’abbattimento definitivo (dopo il drammatico crollo del 14 agosto 2018 in cui persero la vita 43 persone ndr) del ponte Morandi (quando era lecito avere una valutazione costo-beneficio tra altre ipotesi inclusa quella del mantenimento, come più volte su Left ho sostenuto). Il fatto che la medesima autostrade per l’Italia sia sotto inchiesta per il disastro dal costo inimmaginabile anche vite umane, naturalmente in mostra è consegnato agli omissis. Lo annotiamo senza nessun livore con Renzo Piano tanto è vero che consigliamo di soffermare l’attenzione sulla sua splendida ipotesi di stazione di servizio del futuro che invece meriterebbe posto nelle nuove autostrade italiane dopo che ancora per ragioni volgari sono stati posti in dismissione uno dopo l’altro i tanti avamposti di civiltà e di intelligenza che erano gli autogrill Pavesi “a ponte” sulla nostra rete autostradale.

L’autore: Antonino Saggio è un teorico e storico dell’architettura, saggista ed editore

in foto: autostrade_IwanBaan, Courtesy MAXXI

Sanità a pezzi? Colpa dei comunisti, parola di Fratelli d’Italia

Il partito della presidente del Consiglio, Fratelli d’Italia, ha passato la domenica a impallinare il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta. Il senatore Franco Zaffini, presidente della Commissione Sanità e Lavoro, ha parlato di “fake news” e “strumentalizzazioni dei comunisti e dei loro cavalier serventi”.

In un Paese serio un senatore che attacca i “comunisti” andrebbe rinchiuso nel museo delle macchiette, appena sotto la statua di cera di Silvio Berlusconi. Da noi invece la polemica è stata inasprita dal presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che si chiede: “Chi c’è dietro questa fondazione? Chi è Cartabellotta? Perché agisce in questa maniera? Quali interessi intende tutelare?”.

Ma che ha combinato di così grave Cartabellotta? Ha semplicemente ricordato che il cosiddetto Decreto liste, che avrebbe dovuto ridurre le liste d’attesa nella sanità pubblica, è senza decreto attuativo sui criteri di funzionamento e interoperabilità tra la Piattaforma nazionale e le piattaforme regionali (scadenza 30 settembre 2024); senza quello sulle modalità di esercizio dei poteri sostitutivi dell’Organismo di verifica e controllo (scadenza 31 agosto 2024); senza il decreto attuativo sul Piano d’azione per il rafforzamento della capacità di erogazione dei servizi sanitari (scadenza 30 settembre 2024); senza due decreti sulle Linee di indirizzo per la gestione delle prenotazioni e delle disdette presso il CUP e su quello che riguarda la metodologia per la definizione del fabbisogno di personale del SSN, entrambi privi di una scadenza definita.

Nel merito non gli ha risposto nessuno. Gli hanno dato del comunista.

Buon lunedì.

Così Carbellotta scrive su X: A 6 mesi dalla conversione in legge del DL liste di attesa questa è la verità. Il resto sono chiacchiere #SalviamoSSN

Foto di apertura AdobeStock_1046317677.j

Dai primi vagiti al linguaggio

L’identità senza parola. Origine e sviluppo del linguaggio è il nuovo libro di Federico Masini, sinologo e professore di lingua e letteratura cinese alla Sapienza di Roma, uscito per i tipi de L’Asino d’oro. Già dal titolo il volume si prospetta come un’opera di rottura nell’ambito degli studi linguistici, paleoantropologici, filosofici e psicologici in quanto propone che le origini e gli sviluppi del linguaggio (parlato e scritto) non possano essere studiati e capiti se non si considerano, si studiano e si mettono a fuoco i primi due – tre anni di vita del bambino, quando non parla e si muove nel mondo soltanto con il corpo, la sensibilità e un “pensiero per immagini”. Masini decide dunque con quest’opera di rompere un tabù, un diktat che fin dalla metà dell’Ottocento ha dominato in modo più o meno silente nel mondo della linguistica: studiare e comprendere le origini del linguaggio, avvolte da una tale nebbia che avvicinarsi significava varcare le “Colonne d’Ercole” della conoscenza e oltraggiare ciò che soltanto i religiosi potevano credere di sapere. E il sinologo lo fa consapevole di avere tra le proprie mani uno “strumento” speciale, la teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, una sorta di caravella, che lo farà navigare in un mare fino ad ora inesplorato. Possiamo affermare che Identità senza parola rappresenta il primo tentativo di estendere la teoria della nascita dall’ambito della psichiatria a un altro ambito di ricerca: quello della linguistica.  «Il mio tentativo di trovare nella teoria della nascita, elaborata da Fagioli oltre cinquant’anni fa, risposte nuove sull’origine del linguaggio e della scrittura potrà suscitare critiche o obiezioni… me ne prendo la responsabilità» scrive Masini nella sua Introduzione. Affermazione coraggiosa che rivela la consapevolezza di andare a scardinare secoli di certezze accumulate nell’ambito della filogenesi e della ontogenesi che hanno sempre considerato l’essere umano tale perché in grado di parlare e di possedere il pensiero razionale, escludendo tutti coloro che razionali non lo sono ancora o che lo saranno meno di altri.

L’innatismo e il comportamentismo – le due teorie che si sono fronteggiate con ipotesi opposte sull’origine del linguaggio – vengono spazzate via da Masini. Chomsky – esponente principale della prima – ipotizza la nascita del linguaggio all’improvviso, 50 – 100 mila anni fa, senza però che sia mai stata trovata una funzione precipua del cervello addetta alla disposizione linguistica; Wittgenstein, d’altronde, aveva relegato l’apprendimento del linguaggio al solo uso e alle sue regole. Entrambi gli studiosi, però, definiscono il bambino come tavoletta di cera, del tutto inattivo, e considerano i suoi primi tre anni di vita soltanto come una lunghissima fase silente pre-verbale e pre-razionale non del tutto ancora umana. Al contrario, la teoria di Fagioli assegna al bambino fin dalla nascita un’attività psichica, nata quando il piccolo, venendo alla luce, fa sparire, con la chiusura degli occhi, il mondo intorno a sé ed elabora quella prima immagine che sarà all’origine del pensiero, del linguaggio e, aggiunge l’autore nel quinto e dirimente ultimo capitolo del volume, della scrittura.

«Il pensiero nasce come immagine prima della parola»: l’esergo dell’introduzione del volume è il vascello su cui iniziare a navigare lungo tutti e cinque i capitoli che, attraverso una scrittura fluida e limpida, ci trasportano lungo un pensiero che si fa ricerca e che ci conduce al termine rendendoci protagonisti di una deduzione che l’autore sembra fare con i lettori. La scrittura nasce per fermare e fissare il suono della voce che svanirebbe nel momento in cui viene pronunciata, ma non solo: essa nasce anche per evocare nella mente di chi parla e di chi ascolta delle immagini, le quali poi andranno a posarsi sulle cose significate. Ma da dove viene quella linea che è alla base di tutte le scritture del mondo? Si chiede l’autore e, per rispondere, attinge alla scoperta di Fagioli che lega la “fantasia di sparizione”, che il bambino compie alla nascita contro il mondo, con la reazione biologica che il cervello attua nel contatto con la luce, e vi connette la formazione della linea. «La linea trarrebbe la sua origine da quella prima reazione al mondo inanimato e precede di qualche secondo il vagito umano», linea che, successivamente, verrà riprodotta dal bambino quando impugnerà la matita prima per scarabocchiare e disegnare e poi per scrivere. Un’immagine rivoluzionaria che mette in crisi e spodesta quella iniziale del noto film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e che ci fa dire che l’umano nasce non quando afferra un oggetto contundente per uccidere un altro essere vivente, ma quando, con un bastoncino, un pezzo di selce… disegna sé stesso e i propri simili sulle pareti di una grotta o su manufatti di argilla.

«intendiamo qui suggerire che lo sviluppo delle capacità della mano trovi nella “possibilità di fare la linea” da parte della specie sapiens un impiego esclusivo, che ha contribuito a caratterizzarci rispetto a tutte le altre specie». Come i primi due anni di vita del bambino, fatti di suoni e voci udite, rappresentano il tessuto con cui ciascuno di noi trasformerà il vagito della nascita in voce e linguaggio parlato, così i primi tre anni di linee e scarabocchi, costituiscono le “prove tecniche” di quella che diverrà la scrittura, quel tratto assolutamente originale che indicherà l’identità di ciascuno di noi e che non potrà mai essere sostituita o emulata da alcuna Intelligenza artificiale, utile solo per comunicare significati nel rapporto dell’uomo con il mondo, ma non per esprimere il senso nel rapporto degli esseri umani fra di loro.  Questi tre anni sì silenziosi ma ben attivi del bambino preparano alle fasi successive del parlare, del disegnare e infine dello scrivere. Così come mai nessun bambino ha scritto prima dei 5-6 anni di vita, così i nostri antenati hanno atteso un tempo lunghissimo per trasformare le proprie culture dalla sola oralità alla scrittura e passare quindi alla storia.

Masini sottolinea come nella storia la scrittura sia stata sempre strumento al servizio del potere e dei potenti perché con l’uso di essa si entra nel mondo degli adulti, un mondo che si è sempre pensato e raccontato come scisso e opposto al mondo delle immagini dell’infanzia, dei sogni, escludendoli come non-pensiero; ridare loro vita significa far diventare donne e bambini i “veri motori della storia”. Riconoscerli significa restituire quella specificità umana fondata sul rapporto con gli altri, sulle immagini, sulla fantasia. «Le lingue sono “umane”, non sono razziste e non fanno mai guerra, si prestano e si regalano tutto senza mai chiedere nulla in cambio», scrive l’autore … In un’epoca come quella di oggi in cui da più parti si afferma che violenza, guerre e soprusi fanno parte della nostra natura, diviene urgente e liberatorio leggere questo libro che ci parla di altre origini e ci restituisce speranza.

Verrà un giorno in cui non i filosofi ma i poeti saranno i narratori della storia degli esseri umani.

L’autrice: Elisabetta Amalfitano, docente di liceo, è autrice di saggi tra cui Controstoria della ragione. Il grande inganno del pensiero occidentale (L’Asino d’oro edizioni)

E poi Trump venne a prendere i disabili

Prima hanno tolto gli stranieri, incatenati e rispediti oltre il confine. Poi hanno puntato il dito contro chi sfugge alle categorie che garantiscono l’ordine, maschio o femmina e nulla in mezzo. Ora tocca alle persone con disabilità. Il cerchio si chiude.

Trump ha deciso che anche loro devono diventare il nemico, colpevoli di un mondo che non funziona. Un aereo di linea si scontra con un elicottero militare e il Presidente degli Stati Uniti afferma che la tragedia è figlia delle politiche di inclusione della Federal Aviation Administration. Il messaggio è chiaro: i deboli uccidono, le persone con disabilità sono un pericolo pubblico. Un disegno perfetto, architettato con la precisione di chi sa che il nemico non deve difendersi, ma solo soccombere.

L’America di Trump non contempla spazi per chi non rientra nella razza eletta dei vincenti, per chi non incarna il mito della perfezione, per chi esiste come prova dell’imperfezione della specie. Il passo successivo è facile da immaginare: la selezione degli uomini forti, delle intelligenze superiori, l’epurazione di chi non serve, di chi non contribuisce alla grandezza della nazione. Le ombre di un passato mai sepolto tornano a stagliarsi sulla storia.

E mentre Trump alza il braccio e indica la prossima minoranza da sacrificare, un altro esaltato raccoglie l’eco delle sue parole e le trasforma in un’altra legge, un’altra esclusione, un’altra violenza. Il boia si è già messo al lavoro.

Buon venerdì.

Tutti d’accordo in Europa per fare la guerra

L’Europa, con Trump alla Casa Bianca, si prepara a un’economia di guerra. Durante la conferenza annuale dell’Agenzia Europea della Difesa a Bruxelles, l’Alta Rappresentante Kaja Kallas ha definito ragionevole da parte di Trump aspettarsi un maggiore investimento nella difesa. Per far mandare giù questo boccone ha fatto un confronto con la Russia, che investe nella difesa il 9% del proprio Pil.

Sottovalutando un aspetto e cioè che la Russia, ad oggi, è un Paese in guerra.

Ai confini dell’Europa la paura di un’espansione russa si fa sempre più forte, così tanto da fare da pretesto per una proliferazione militare su vasta scala di tutto il continente. La Lituania, ad esempio, ha già accettato la sfida trumpiana, destinando alla difesa tra il 5 e il 6% del Pil. E lituano, non a caso, è il nuovo Commissario per la Sicurezza e la Difesa dell’Ue, Andrius Kubilius, al quale spetterà il compito di armare l’Europa e che giustifica questa imminente economia di guerra proprio con il pretesto del pericolo russo. L’idea dell’esercito europeo, pure a lungo paventata durante la precedente amministrazione, ora lascia il posto al potenziamento di 27 eserciti nazionali, dove ogni paese Ue deve raggiungere, secondo il tycoon, l’obiettivo di destinare alla NATO il 5% del Pil.

Il ruolo delle banche 

Sono molti i think tank e i gruppi di pressione mossi da interessi atlantisti ad aver chiesto, già prima dell’elezione di Trump, una revisione della regolamentazione bancaria europea che allentasse un po’ le maglie dei vincoli sugli armamenti. In un dossier di ottobre 2024 che detta l’Agenda 2025 dei rapporti UE-Usa, ad esempio, l’Atlantic Council chiedeva l’istituzione di una banca con meno vincoli che agisca esclusivamente nel settore della difesa tramite obbligazioni, una Banca della Difesa europea al posto della Banca Europea degli Investimenti. Proprio in seguito a pressioni di questo tipo ad aprile scorso la Bei ha annunciato di aver modificato la policy che impediva di concedere prestiti alle aziende che operano nella difesa in cui la vendita di equipaggiamento militare rappresentava il 50% o più dei loro ricavi. «Il Gruppo BEI si conformerà quindi alla pratica delle istituzioni finanziarie pubbliche limitando i propri finanziamenti alle attrezzature e infrastrutture funzionali a esigenze difensive, militari o di polizia, oltre che civili, come ad esempio la ricognizione, la sorveglianza, la protezione e il controllo dello spettro, la decontaminazione, le attività di ricerca e sviluppo, l’equipaggiamento, la mobilità militare, il controllo delle frontiere, la tutela di altre infrastrutture critiche e i droni».

A queste regole si aggiunge l’apertura di linee di credito alle PMI per i progetti su difesa e sicurezza. Si è trattato di una decisione approvata da 14 dei 27 Paesi Ue, i più ricchi, e che ha causato una levata di scudi da parte di società che lavorano nel campo della finanza etica, attivisti e Ong che a febbraio 2024 mettevano in guardia sui rischi di una decisione del genere in una lettera aperta alla presidente della Banca Europea, Nadia Calviño. Counter Balance, prima firmataria della lettera, chiedeva di resistere alle pressioni dei produttori di armi e di non investire gli 8 miliardi di euro destinati dalla Strategic European Security Initiative all’innovazione dei prodotti a duplice uso (militari e civili) ma di utilizzarli piuttosto a favore della pace con progetti di ricostruzione o di contrasto al cambiamento climatico. «Tenete la Banca europea fuori dal settore della difesa”, perché, recita “la riduzione dei rischi del settore della difesa rischia di alimentare i conflitti con la proliferazione della produzione di armi a livello globale». Un appello inascoltato.

Parola d’ordine: flessibilità

E se la decisione della Banca Europa dovesse fare da apripista all’allentamento delle regole delle banche nazionali riguardo il mercato della difesa? Sarebbe solo un pro-forma, al momento che i più grandi istituti di credito europei concedono da anni investimenti massicci alle aziende produttrici di armi. Danske Bank, la principale banca danese, ha annunciato lo scorso ottobre che investirà in armi nucleari, giustificando futuri investimenti nel settore della difesa con «un maggiore interesse nei confronti della sicurezza e un rinnovato quadro geopolitico». Secondo l’ultimo report dell’organizzazione per la pace olandese PAX in collaborazione con ICAN (the International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), “Don’t Bank the Bomb” del 2022, anche la tedesca Deutsche Bank, le francesi BNP Paribas, Crédit Agricole, Société Générale, le italiane Banco BPM, Banca popolare di Sondrio e Unicredit finanziano frequentemente armi nucleari limitandosi a definire nelle loro policy la limitazione alle «armi soggette al trattato di non proliferazione». Secondo PAX, però, «la maggior parte dei finanziamenti delle società produttrici di armi nucleari è elencata per “scopi aziendali generali. Si tratta di fondi non stanziati, pertanto non c’è modo di garantire che non facilitino la produzione di armi nucleari» una volta investiti nelle aziende produttrici. Come dire che l’investimento non entra nel merito degli scopi per i quali l’impresa intende utilizzarlo.

Lacrime e sangue per le armi

Da dove proverranno i finanziamenti europei alla difesa comune? Molto probabilmente dal fondo di coesione, come hanno annunciato alcuni funzionari Ue al Financial Times l’11 novembre.  «Nelle prossime settimane le capitali degli Stati membri saranno informate che d’ora in poi avranno maggiore flessibilità, in base alle norme, nell’allocazione dei fondi di coesione per sostenere le loro industrie della difesa e i progetti di mobilità militare, come il rafforzamento di strade e ponti per consentire il passaggio sicuro dei carri armati».  I fondi di coesione sono effettivamente quelli meno usati dai Paesi europei, e questo, secondo il Financial Times è un buon motivo per utilizzarli in armi: in realtà sono nati per finanziare la transizione ecologica e digitale e per mantenere stabile il gap tra gli stati d’Europa più ricchi e quelli più poveri.  Il Commissario per la Difesa Kubilius confermava questa possibilità poche settimane dopo: «I fondi di coesione vengono utilizzati per lo sviluppo dell’industria nelle regioni povere, quindi non separerei troppo l’industria della difesa, che crea posti di lavoro e competitività, dagli obiettivi della politica di coesione». Il concetto comunque era già stato espresso nel rapporto di Mario Draghi sulla competitività europea dello scorso settembre che molto spazio dedica alla difesa come settore strategico per l’economia. L’urgenza è quella di diminuire l’importazione di armi e approvvigionamenti dagli Usa, che ammontano al 63% della spesa totale e incentivare sia le grandi imprese che le PMI che producono armi all’interno dei confini europei. La strategia, pertanto, è quella di deregolamentare le banche rispetto alle loro policy di responsabilità sociale, in modo che le imprese che producono armi possano godere senza intoppi di finanziamenti sia dall’Europa che dagli istituti di credito nazionali. I criteri di esclusione rispetto alle armi “limitano notevolmente la possibilità del settore della difesa di beneficiare pienamente degli strumenti finanziari dell’UE e dei finanziamenti privati”, si legge. “Inoltre gli scarsi investimenti produttivi degli elevati risparmi delle famiglie europee minano tra gli altri anche la competitività dell’industria della difesa”, sostiene il rapporto Draghi. Parole che viaggiano parallele a quelle del segretario generale NATO Mark Rutte che auspica un sacrificio dei popoli europei su pensioni e sanità per convertire lo stato sociale in produzione di armi.  Eppure pare essere un sacrificio al quale i cittadini d’Europa sono disposti: secondo un recente sondaggio di Eurobarometro, «più di tre quarti degli europei (77%) sono favorevoli a una politica di sicurezza e di difesa comune tra i paesi dell’UE, mentre oltre sette cittadini dell’UE su dieci (71%) concordano sulla necessità dell’UE di rafforzare la sua capacità di produrre attrezzature militari». L’ultimo passo di un’economia di guerra che strizza l’occhio alla politica di Donald Trump sarà infine quello di rinunciare alle politiche di contrasto al cambiamento climatico in favore degli investimenti per la difesa, considerata una priorità a breve termine. Eppure a dicembre la Direzione generale per l’energia della Commissione europea e l’Agenzia per la Difesa Europea hanno firmato un accordo per migliorare la sostenibilità energetica proprio nel settore della difesa e della sicurezza, ad oggi colpevole del 5,5% delle emissioni globali di CO2. Strano che non sia venuto in mente che basterebbe un disinvestimento per abbattere le emissioni nel settore, non il contrario, trattandosi di paesi, quelli europei, fortunatamente non in guerra.

Angela Galloro è giornalista e collaboratrice di Left

Foto: da Adobestock Bandiera europea con proiettili di Alexey Novikov