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Uno sguardo nuovo sul Pakistan

Il Pakistan è un Paese che è tornato alle cronache europee purtroppo solo in relazione ai gruppi fondamentalisti Isis K che hanno compiuto attentati in Afghanistan in competizione per la supremazia con i talebani. Ma il Pakistan è una nazione complessa, attraversata da molti fenomeni e che ci riguardano da vicino anche per quelli migratori, il libro di Francesco Valacchi ci aiuta ad approfondire. 

 A nord dell’India Storia e attualità politica del Pakistan offre un contributo prezioso alla letteratura divulgativa e accademica italiana su un Paese spesso percepito attraverso stereotipi o conoscenze frammentarie. Il libro di Francesco Valacchi offre un lavoro di grande approfondimento storico e analisi geopolitica, esplora in maniera critica ma equilibrata le complesse dinamiche politiche, sociali ed economiche che hanno plasmato il Pakistan dal 1947 a oggi. La premessa stessa del libro sottolinea l’importanza di colmare un vuoto nel panorama accademico italiano. Il Pakistan politico, nonostante la sua rilevanza e il peso della sua popolazione di oltre 200 milioni di abitanti, è spesso relegato a una visione marginale, ridotta a questioni di sicurezza o migrazione. In italiano si è scritto in ambito di Storia delle relazioni internazionali del Paese o in tema di sicurezza, ma non tanto in ambito squisitamente politico. Valacchi affronta il tema con un approccio multidisciplinare che coniuga storia, politica, sztoria delle relazioni e antropologia, rendendo il libro non solo informativo ma anche stimolante.

Il libro si articola in cinque capitoli principali, che delineano un percorso storico-politico ben costruito. Il primo capitolo, dedicato alle tre dittature militari che hanno segnato il Pakistan tra il 1947 e il 2008 e al primo governo post dittatura, è particolarmente efficace nel contestualizzare la centralità del potere militare nel paese. Valacchi evidenzia come l’eredità coloniale britannica, la frammentazione etnica e le rivalità con l’India abbiano contribuito a una struttura politica instabile, dove i governi civili faticavano e faticano a consolidarsi.

La narrazione prosegue con un’analisi del periodo successivo al 2013, dando spazio a figure politiche come Benazir Bhutto e Nawaz Sharif, fino ad arrivare al ruolo trasformativo del Pakistan Tehrik-e-Insaf (PTI). L’approfondimento dedicato ai partiti islamici, nel quarto capitolo, è un altro punto di forza del testo: Valacchi riesce a trattare un tema complesso con obiettività, mostrando come la religione sia stata spesso strumentalizzata per consolidare potere politico.
Ciò che rende il lavoro di Valacchi particolarmente apprezzabile è la sua capacità di fornire un ritratto sfaccettato del Pakistan, un paese in bilico tra tradizione e modernità, tra potere religioso e autoritarismo militare. L’autore non si limita a descrivere gli eventi, ma ne analizza le cause profonde, attingendo a un’ampia gamma di fonti: documenti archivistici, interviste con esperti locali e testi accademici. La sua esperienza diretta sul campo, in particolare nelle regioni del Punjab e della capitale, conferisce al libro un’autenticità rara.

Pur trattando una materia complessa, Valacchi adotta uno stile chiaro e coinvolgente. Intrecciando storie individuali e dinamiche globali. La narrazione è arricchita da mappe e dati statistici, che aiutano a contestualizzare gli eventi e a comprendere le dinamiche economiche e sociali che influenzano il Pakistan.
A Nord dell’India non è solo un libro per specialisti, ma un’opera che può interessare chiunque voglia comprendere meglio le dinamiche di una regione cruciale per gli equilibri internazionali. Valacchi riesce nell’intento di offrire una visione equilibrata e profonda del Pakistan, sfatando stereotipi e mettendo in luce le contraddizioni ma anche le potenzialità di questo Paese.
In un panorama editoriale dove il Pakistan è spesso trattato come una nota a margine, il libro di Francesco Valacchi emerge come un contributo fondamentale. Con rigore accademico e uno stile narrativo efficace, l’autore traccia un quadro esaustivo e avvincente della storia e dell’attualità politica del paese. A Nord dell’India è un’opera che non solo arricchisce la comprensione del Pakistan, ma invita il lettore a riflettere sul complesso rapporto tra politica, religione e modernità in un mondo sempre più interconnesso.

Foto Di Officer – United States Army:File:100919-A-0667M-113.jpg (PD-USGov-Military-Army)File:Khost children in 2010.jpg (PD-USGov-Military-Army)File:Boys from Spin Boldak in Afghanistan.jpg (PD-USGov-Military-Army)File:Afghan girls in Nangarhar.jpg (PD-USGov-Military-Army), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22679918

L’autore: Andrea Mugnai è insegnante

Poi, immagino, avrà pianto a casa

Poi, immagino, alla sera tornata a casa si sarà lasciata andare a un pianto a dirotto per essersi delusa di nuovo. Sono due anni che Giorgia Meloni si impone di essere capa di governo ma soprattutto statista. Si sforza di piacere ai salotti che contano, studia per addolcire l’irruenza che la assimila agli altri capi-macchietta del circo politico. Telefona, immagino, al suo armolinguista per correggerla quando esce dai gangheri.

Poi come ogni anno arriva Atreju e la sua inguaribile fobia di perdere presa sulla sua famiglia di Fratelli d’Italia butta via tutto il lavoro fatto. La Giorgia Meloni che piace da quelle parti è la sacerdotessa del revanscismo. Quelli la votano soprattutto per potersi togliere la soddisfazione della vendetta, per poter svelenire. Gli avversari politici sono nemici, gli elettori degli altri sono collaborazionisti del nemico e l’Italia è un trono tronfio per irridere dall’alto.

Così la presidente del Consiglio che sognava di essere uno dei maschi che la votano irrompe con un discorso politico contro Schlein, omosessuale, che «fa la battaglia partigiana sui carri allegorici del gay pride», contro Saviano «guru dell’antimafia», contro i magistrati «irragionevoli» perché non accarezzano i suoi istinti, perfino contro Romano Prodi che a 85 anni disturba ancora i suoi sogni.

Dodici mesi a coprire il livore con il fondotinta e poi basta l’odore della festa per sciogliere il trucco. Meloni si lascia andare con i suoi amici e il faticoso lavoro di mimo diventa inutile. Poi, immagino, alla sera tornata a casa si sarà lasciata andare a un pianto a dirotto per essersi delusa di nuovo.

Buon lunedì

 

Dallo Stato sociale allo Stato penale

Il 14 dicembre manifestazione nazionale a Roma contro il ddl sicurezza in discussione al Senato. Oltre 200 le adesioni alla Rete Nazionale No DDL Sicurezza – A Pieno Regime che ha promosso la manifestazione (ore 14 corteo da piazzale del Verano fino a piazza del Popolo). Sugli effetti del provvedimento, ecco l’articolo di Livio Pepino, uscito nel numero di Left/11/2024 Stato pericolante.  

Siamo di fronte all’ennesimo “pacchetto sicurezza”? Sì, anche. Ma non solo. C’è qualcosa di più. Se diventerà legge, infatti, questo provvedimento produrrà cambiamenti profondi sull’intero assetto istituzionale e nella stessa vita delle persone, di ciascuno di noi.

Manifestare diventerà un lusso o, meglio, un rischio.
Le manifestazioni, infatti, saranno oggetto di interventi repressivi tali da renderle impossibili o, comunque, da disincentivarle in modo massiccio. Manifestare implica, anzitutto, scendere in piazza. Ebbene, la previsione come reato del blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incide direttamente e immediatamente sulla possibilità di scendere in strada. Detto in parole povere, saranno criminalizzati, in caso di manifestazione spontanea e priva di preavviso (ovvero vietata dal questore), anche i dimostranti pacifici che stazionano in gruppo in strada, di fronte ai cancelli di una fabbrica o all’ingresso di una scuola. Sarà cioè punito il semplice assembramento (consentito solo con preavviso e in assenza di indicazioni contrarie dell’autorità di polizia). C’è, sul punto, una cosa che merita segnalare. Il blocco stradale è stato introdotto, con una descrizione onnicomprensiva, nel 1948, ma nel 1999 è stato depenalizzato e trasformato in semplice illecito amministrativo (pur punito con una sanzione pecuniaria non irrisoria). Quasi vent’anni dopo, con il primo decreto Salvini, è iniziato un percorso a ritroso: il blocco stradale è ridiventato reato ma si è previsto che restasse un illecito amministrativo nel caso di ostruzione stradale con la sola presenza fisica. L’attuale disegno di legge riporta alla situazione del 1948, aggravata dall’espressa previsione dell’idoneità ad integrare il reato dell’ostruzione stradale con il solo corpo. Ma non c’è solo la criminalizzazione del blocco stradale, con tutto quel che comporta. Un ulteriore insieme di norme attribuisce alle manifestazioni di piazza in quanto tali una connotazione negativa, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate, se commessi al loro interno (arrivando al paradosso di prevedere una pena fino a vent’anni di reclusione per la resistenza o violenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica»: sic!). Queste previsioni ribaltano addirittura, in termini di maggior repressione, la disciplina del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto» (pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»).

Anche la resistenza passiva diventerà un reato.
La cosa, già implicita nel blocco stradale realizzato con il solo corpo, è formalizzata in modo esplicito dal nuovo articolo 415 bis del codice penale, che introduce il delitto di rivolta in carcere (sanzionato, per chi si limita a partecipare, con la pena della reclusione da uno a cinque anni), consistente in «atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti», con l’esplicita precisazione che «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». In concreto, dunque, se sarà approvato il disegno di legge, incorreranno nel reato di “rivolta”, per esempio, i detenuti che, in gruppo (anche piccolo) e disattendendo gli ordini, rifiuteranno, per protesta, di rientrare in cella dall’aria, o di assumere il cibo, o di recarsi alle docce, impedendo così al personale penitenziario di chiudere le celle, di liberare la mensa etc. La previsione del delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé, introduce nel sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (nell’ormai lontano 1989) per una categoria marginale come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio. Togliamo il condizionale: accade già nello stesso disegno di legge che estende la disciplina, con una lieve riduzione di pena, a tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e, dunque, non solo i Cpr, ma anche i Cara e gli hotspot).

Verrà pesantemente limitata la possibilità di azione dei movimenti attivi nei settori più delicati del conflitto sociale.
Tutto questo con interventi analoghi a quelli che negli ultimi anni hanno criminalizzato e frustrato nelle possibilità di azione le Ong impegnate nel salvataggio dei migranti in mare. Il riferimento è, in particolare, alla norma che estende il delitto di occupazione di immobili a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile» e a quella che prevede un aggravamento della pena per il delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi”«se il fatto è commesso a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute». L’attacco ai movimenti per la casa e quelli di sostegno alle persone detenute non potrebbe essere più diretto ed esplicito.

Il carcere scoppierà.
Questo sarà inevitabile in presenza di 14 nuovi reati e di altrettante nuove aggravanti, alcune delle quali di grande rilievo. E gli interventi repressivi sostituiranno sempre di più quelli sociali. Lo dimostra – quasi come un manifesto politico – l’introduzione nel codice penale di una norma (l’articolo 634 bis) in forza della quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui … è punito con la reclusione da due a sette anni», cioè esattamente la pena prevista per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche (sic!). Superfluo dire che già ora l’occupazione di case è un reato, punito con la reclusione fino a due anni e con una multa. Dunque la norma non è solo un presidio a tutela penale della proprietà privata (già ampiamente protetta); è, ancora di più, la sintesi della risposta istituzionale all’emergenza abitativa. A tale emergenza (50mila famiglie occupanti case popolari, 100mila sentenze di sfratto con richiesta di esecuzione e 40mila sentenze di sfratto emesse ogni anno) si risponde, infatti, non – come sarebbe lecito attendersi – con un “piano casa” ma con un surplus di repressione per chi cerca di risolvere il problema, sia pure indebitamente, occupando un’abitazione. Non potrebbe esserci dimostrazione più plastica, anche in termini simbolici, del passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale e del governo repressivo della povertà (a cui si aggiungono altri tasselli come il Daspo ferroviario, la trasformazione da obbligatorio in facoltativo del rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di un bambino inferiore all’anno, il divieto di vendita della Sim telefonica agli stranieri privi di permesso di soggiorno etc.).

Il rapporto tra le polizie e i cittadini sarà sempre più improntato al principio di autorità.
Si assisterà ad una definitiva chiusura della stagione (pur contraddittoria) in cui si è tentato un processo di democratizzazione (una stagione che ha visto passaggi importanti come l’introduzione della scriminante della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, la dichiarazione di incostituzionalità della necessaria autorizzazione del ministro per procedere nei confronti di operatori della polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, la sindacalizzazione e smilitarizzazione del corpo, l’abrogazione del delitto di oltraggio etc.). Questo percorso subirà ora, se sarà approvato il disegno di legge, una drastica inversione che ripristinerà, anche qui, una situazione simile a quella degli anni Cinquanta (un’epoca in cui – è bene ricordarlo – le politiche di ordine pubblico lasciarono sulle strade e nelle piazze del Paese oltre 100 morti: 157, tra il 1946 e il 1977, di cui 14 tra le forze di polizia e 143 tra i dimostranti). Ciò avverrà grazie alle disposizioni che prevedono, tra l’altro: la già ricordata tutela privilegiata degli operatori di polizia nel corso di manifestazioni; un’ulteriore tutela sul piano legale consistente nella possibilità di fruire, se indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, dell’anticipazione da parte dello Stato di una somma di 10mila euro per ogni fase di giudizio per spese di difesa (con possibilità di rivalsa nel solo caso di accertata responsabilità a titolo di dolo); l’autorizzazione agli appartenenti alle varie forze di polizia a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio; una maggior libertà di azione indotta dalla possibilità di agire, nei confronti di associazioni terroristiche (ma anche qui con evidente potenzialità espansiva), non solo a mezzo di “infiltrati” ma anche a mezzo di “agenti provocatori” e dalla dotazione, per i servizi di ordine pubblico (e non solo), di dispositivi di videosorveglianza idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento» (e, dunque, una registrazione di immagini continua e non limitata ad episodi “critici”).
No. Non è solo l’ennesimo (pur grave) pacchetto sicurezza!

L’autore: Livio Pepino, magistrato fino al 2010, già segretario e presidente di Magistratura democratica e condirettore della rivista Questione Giustizia, dirige le Edizioni del gruppo Abele. Tra i suoi libri: Forti con i deboli (Rizzoli, 2012) e Come si reprime un movimento: il caso Tav (Intra Moenia, 2014).

Questo articolo è stato pubblicato nel numero di Left di novembre 2024 Stato pericolante, dedicato al “pacchetto sicurezza” del governo Meloni. Con interventi di giuristi, attivisti e parlamentari. Per leggere qui

La guerra di tutti contro tutti scatenata da Israele in Medio Oriente

In una intervista a Channel 14 News il primo ministro israeliano aveva affermato che l’accordo con il Libano era stato firmato proprio perché lui aveva ottenuto esattamente ciò che voleva ottenere. Aveva aggiunto che in Libano Israele avrebbe colpito Hezbollah a morte e, soprattutto, avrebbe creato le condizioni per il ritorno degli israeliani nel Nord. Così è stato: nella guerra contro tutti che Israele ha scatenato in Medio Oriente dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre prosegue il massacro pianificato di Gaza e non cessano i bombardamenti pressoché giornalieri contro vari obiettivi in Libano.

Le parole di Benjamin Nethanyahu non erano solo parole programmatiche tese a riscuotere un sostegno politico interno dai propri elettori in un panorama che pare sempre più scivolare verso la destra più oltranzista, purtroppo erano anche la presa di coscienza del fatto che i Paesi musulmani in Medio Oriente sono definitivamente frammentati e incapaci di arginare l’aggressività dimostrata da Israele negli ultimi due anni.

Fra le monarchie del Golfo, nonostante alcune dimostrino un’opposizione sulla carta intransigente alla guerra di Israele, la priorità sembra essere quella di mantenere una relazione con il governo di Tel Aviv.

Riad ha ufficialmente congelato i dialoghi per giungere a una normalizzazione dei rapporti con lo Stato israeliano, come ribadito in ottobre (e riportato ad esempio da Middle East Monitor) ma continuano trattative e tavoli di aggiornamento informali specialmente nel campo della sicurezza e i seppur minimi progressi che si fanno sono ben visti soprattutto in Arabia. In questi ultimi giorni tra l’altro Riad ha dichiarato che per ottenere un patto per la cooperazione nella difesa con gli Usa la sua posizione potrebbe ammorbidirsi sulla questione della soluzione a due Stati, avvicinandosi a Israele. Questo dimostra che l’intransigenza saudita è solo una posizione da esibire nell’ambito diplomatico internazionale mentre la realtà dei fatti è ben diversa.

A Dubai al contempo si guarda piuttosto a perseguire alcuni succulenti accordi con Israele, come quelli sullo sviluppo congiunto di nuove tecnologie e magari ad approfondire il Comprehensive Economic Partnership già in vigore da aprile 2023. La comunanza di interessi economici scoraggia gli Emirati a prendere posizioni realmente radicali di appoggio alla causa palestinese.

La posizione del Qatar era forse quella diplomaticamente più difficile, dal momento che sul suo territorio trovano asilo alcuni dirigenti di Hamas ma, come riporta anche CNN, il Paese sta mettendo alla porta anche i portavoce del gruppo palestinese.

Anche il Consiglio di cooperazione del Golfo (che raccoglie l’adesione di Arabia, Bahrein, emirati Arabi Uniti, Kuwait Oman e Qatar) va poco oltre compunte prese di posizione che chiedono una modifica del comportamento di Israele

L’Iran dal canto suo è isolato nel campo opposto (quello sciita) ma soprattutto si sente isolato, come dimostrano non solo il comportamento ai limiti del remissivo di fronte agli scontri di ottobre ma anche l’appello del presidente iraniano a difendere il legittimo governo siriano (suo alleato), lanciato in extremis come un grido di aiuto a tutti i Paesi musulmani Agenzia stampa ufficiale del governo di Teheran).

L’appello di Teheran inquadra parzialmente il problema della ulteriore frammentazione dei Paesi musulmani dell’area del Golfo, (ben al di là della tradizionale contrapposizione fra sciiti e sunniti) anche per ragioni geopolitiche ed economiche, riguardo alla guerra che Israele sta conducendo con il beneplacito Usa. Si tratta di un solco che ormai confina e divide ogni singolo Paese in Medio oriente e che più si approfondisce e più consente ad Israele di esercitare un’influenza profonda che lega a doppio filo i vari Paesi al fatto di dover subire le sue politiche internazionali.

Quanto sta avvenendo in Siria, dove estremisti sunniti hanno rimosso la dittatura alauita supportati dalla Turchia e con ogni probabilità dai servizi segreti Usa è probabilmente l’inizio di una guerra ancora più devastante di quella che ha coinvolto la Russia dal 2015. In questo scenario, con buona pace di quanto raccontato da molta stampa italiana, i veri problemi potrebbero essere appena iniziati, come dimostra l’attacco portato dagli Usa in Siria con circa 80 obiettivi colpiti come riporta Jane’s Military e la contemporanea aggressione di Israele, pronto a infilarsi in ogni angolo di instabilità per iniziare una nuova guerra. La situazione, dalla quale a ben vedere esce vincitrice solamente la Turchia, è sintomo anch’essa della frammentazione del mondo musulmano e figlia della guerra di Israele. Si tratta peraltro di uno sviluppo sinistro e che sta già portando ad una riedizione dell’incubo vissuto con l’epopea del sedicente Stato islamico.

L’autore: Francesco Valacchi è cultore della materia, ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze politiche all’università di Pisa. Si occupa di geopolitica, con particolare riguardo all’area asiatica. E’ appena uscito il suo libro A nord dell’India, storia e attualità politica del Pakistan (edizioni Aracne)

In foto: IDF soldier using a thermal scope in gaza 2024. E’ stata scattata da  IDF Spokesperson’s Unit photographer – Questa immagine è stata scattata dalle Israel Defense Forces ed è rilasciata con licenza Creative Commons dall’unità portavoce delle I.D.F.  https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=155069129

Aggrappata al buio del mare, affondata dalla crudeltà

La masnada di razzisti accarezzati dalla compagine di governo che passeggiano timidamente nel mondo reale e gaglioffamente nel mondo virtuale ieri ha passato l’intera giornata a cercare le parole per disinnescare la compassione verso Yasmine, bambina di undici anni trovata aggrappata in mezzo al mare.

Non potendo usare il vocabolario già pronto se i naufraghi sono maschi maschi adulti – quello che punta dritto alla criminalizzazione futura come insegna il grand visir della Lega – sono rimasti spiazzati dalla bambina per di più femmina brancolante nel buio del mare.

Frugando tutto il giovedì nel cassonetto delle loro obiezioni si sono aggrappati quindi al fatto che secondo i medici Yasmine non avrebbe potuto resistere nel Mediterraneo così freddo e così ondoso per tutto quel tempo. Qualche medico – che ne sa più di noi – ha spiegato che Yasmine potrebbe avere avuto una dilatazione del tempo dovuta dallo shock di avere visto suo fratello insieme a una quarantina di persone colare a picco. 

È iniziata così una cagnesca discussione sul tempo di aggrappamento di Yasmine con lo schema tipico degli spaventosi analfabeti funzionali (e quindi anche sentimentali) già certificati dall’Ocse. «Se un particolare della narrazione è discutibile allora tutto è falso anzi è un complotto», è la sofisticata cretineria della ciurma.

D’accordo, è vero: qualcuno ha messo una bambina in mezzo al mare dopo averla istruita sulla sceneggiatura per svelare la politica assassina del governo in carica. Mi pare così evidente e logico. Ecco svelato il complotto. 

Buon venerdì. 

v. anche il buongiorno del 12 dicembre Il piano di destabilizzazione? Una bambina di 11 anni con due salvagenti

Il piano mondiale di destabilizzazione? Una bambina di 11 anni con due salvagenti

Yasmine, a 11 anni, se ne va di notte tra la Tunisia e Lampedusa, aggrappata a due salvagenti in mezzo al mare. Stava su un barchino di ferro con suo fratello, insieme a una quarantina di persone. Poi le onde e il vento si sono portati via il barchino, si sono inghiottiti suo fratello e hanno spazzato via tutti gli altri. Tranne lei.

Yasmine si è salvata perché una di quelle maledette Ong, la Trotamar III, ha sentito le urla nonostante i motori accesi della sua imbarcazione. Quegli operatori umanitari che qualcuno al governo definisce “trafficanti di uomini” hanno l’empia abitudine di tenere le orecchie dritte in un pezzo di mare in cui l’Italia e l’Europa ordinano il silenzio e la cecità.
Yasmine, con suo fratello maggiore – che ora non c’è più – ha percorso 6.700 chilometri. È scampata agli allibratori del Sahara Occidentale, non è stata accalappiata dai bruti del presidente tunisino Kaïs Saïed, che l’Ue e l’Italia pagano profumatamente per fermare le Yasmine che arrivano fin lì.

Yasmine è approdata in Italia, dove si dice che lei – come suo fratello, anche se scomparso – sia un pericolo per la sicurezza nazionale. Ora sta qui, dove c’è un ministro dell’Interno che il 28 febbraio dell’anno scorso ha detto che lui, al posto di Yasmine, non prenderebbe il mare neanche se disperato, perché «educato alla responsabilità verso quello che si può dare al proprio Paese».

Yasmine, dicono qui, sarebbe l’indizio di un piano mondiale di destabilizzazione, la miccia della sostituzione etnica, la testimonianza di «un attacco alla sovranità italiana».
Ditemi voi come fanno a non vergognarsi.

Buon giovedì.

Foto di CompassCollective ” we are activists who support the rescue of refugees in the Mediterranean. Our sailing boat is TROTAMAR III”

La fabbrica degli ignoranti. L’Italia nell’analisi del Censis

La parola “competenze” è una di quelle che si sentono più spesso nel discorso pubblico legato alla competitività del Paese, alla qualità del lavoro e alla crescita sociale. Nella “cassetta degli attrezzi” di un Paese contemporaneo essa rappresenta uno degli “utensili” più necessari.
Il cinquantottesimo Rapporto annuale Censis, anno 2024, descrive lapidariamente l’Italia come la “fabbrica degli ignoranti”.
Qualche esempio sui risultati della formazione scolastica e sul livello di cultura generale: “per quanto riguarda il sistema scolastico, non raggiungono i traguardi di apprendimento in italiano: il 24,5% degli alunni al termine delle primarie, il 39,9% al termine delle medie, il 43,5% al termine delle superiori (negli istituti professionali il dato sale vertiginosamente all’80,0%). In matematica: il 31,8% alle primarie, il 44,0% alle medie e il 47,5% alle superiori (il picco si registra ancora negli istituti professionali, con l’81,0%). Il 49,7% degli italiani non sa indicare correttamente l’anno della Rivoluzione francese, il 30,3% non sa chi è Giuseppe Mazzini (per il 19,3% è stato un politico della prima Repubblica), per il 32,4% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo, per il 6,1% il sommo poeta Dante Alighieri non è l’autore delle cantiche della Divina Commedia”.
Le carenze formative si traducono, inevitabilmente, nel rapporto con la realtà: “mentre si discute di egemonia culturale, per molti italiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire (del resto, per il 5,8% il ‘culturista’ è una ‘persona di cultura’). Nel limbo dell’ignoranza possono attecchire stereotipi e pregiudizi: il 20,9% degli italiani asserisce che gli ebrei dominano il mondo tramite la finanza, il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia, per il 9,2% la propensione a delinquere avrebbe una origine genetica (si nasce criminali, insomma).” Ancora: “il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato” e “il 38,3% si sente minacciato da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti”.
Competenze scarse e formazione deficitaria, inevitabilmente, si traducono in un Paese declinante e ne sono, a un tempo, lo specchio: “negli ultimi vent’anni (2003-2023) il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%. E nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. La sindrome italiana nasconde non poche insidie. L’85,5% degli italiani ormai è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale”. D’altronde, è già ben noto che l’ascensore sociale, per gli italiani, nel Paese post boom economico, si è fermato ai nati nel 1971. La fuga dei giovani più preparati verso altri Paesi che assicurano un futuro più stabile e prospero è, allo stato dei fatti, inevitabile.
Tutto questo in un quadro contingente, lo abbiamo già sottolineato molte volte, di crisi generale del tessuto produttivo europeo: la manifattura arretra, in Italia le ore lavorate si spostano dall’industria ai servizi, ossia da settori che offrono i contratti nazionali di lavoro di maggior qualità, a quelli, come turismo e ristorazione nei quali le retribuzioni e l’insieme delle condizioni lavorative sono tra le peggiori. Con le ovvie conseguenze, in un Paese che invecchia rapidamente, sul sistema del welfare.
La fragilità sociale è il dato di sintesi dello stato delle cose nel Paese. Nella complessità globale dei rapporti di forza economici e politici del pianeta in questo scorcio del XXI Secolo, una presa di coscienza collettiva è difficile quanto essenziale. Ai decisori politici spetterebbe la responsabilità di smettere di rincorrere il consenso attraverso la lettura dei sondaggi settimanali. Con gli slogan non si governa.
Non esistono risposte semplici alla realtà contemporanea. E la politica ha il dovere di studiare e ricostruirsi una cultura capace di incrociare le immense sfide che si deve fronteggiare. Difficile. Assolutamente necessario.

Il fermaglio di Cesare Damiano

L’autore: sindacalista, già ministro del Lavoro, è presidente di Lavoro e Welfare

Tunisia, il rapporto Onu smaschera la farsa del “luogo sicuro”

Il rapporto delle Nazioni Unite smonta le rassicurazioni dell’Unione europea e del governo italiano sulla sicurezza della Tunisia come Paese sicuro per le persone migranti. Non si tratta di opinioni, ma di fatti documentati: espulsioni forzate verso zone di conflitto, condizioni disumane nei campi di detenzione e violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. Tra gennaio e luglio 2024, si contano almeno 265 morti durante le operazioni di intercettazione in mare, senza contare le migliaia di vite sospese tra maltrattamenti e sparizioni forzate.

“Garantire il diritto alla vita significa proteggere i diritti fondamentali, oltre il mero pericolo fisico”, sottolinea il rapporto, evidenziando come la nozione di “luogo sicuro” richieda condizioni ben lontane dalla realtà tunisina. Eppure, Bruxelles insiste con il memorandum, finanziando un sistema che amplifica sofferenze e abusi, in barba ai principi di non-refoulement sanciti dal diritto internazionale.

Giorgia Meloni, che presenta la Tunisia come baluardo della stabilità nel Mediterraneo, deve confrontarsi con queste verità. Difendere un accordo del genere non è solo una scelta politica, è un fallimento morale. Ai posteri, la domanda: quante vite ancora dovranno essere spezzate prima che qualcuno ammetta l’errore? Quanto ancora dovremmo sentire negare la realtà prima che diventi storia e ci venga sbattuta in faccia? L’empietà di questo tempo ha colpevoli di cui conosciamo i nomi e i cognomi. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni incontra il presidente tunisino Kais Saied, Tunisi, 17 aprile 2024

Oggi a Calenzano come ieri a Livorno. A distanza di sei anni non è cambiato niente

Sei anni fa, nel 2018, Lorenzo Mazzoni, 25 anni, e Nunzio Viola, 53 anni, persero la vita nell’esplosione di un serbatoio all’interno del deposito costiero Neri di Livorno. Una tragedia che sconvolse le famiglie, i colleghi, l’intera comunità, lasciando ferite profonde e domande senza risposta.

Come accade troppo spesso, quelle morti divennero macabro inchiostro per scrivere volantini e comunicati. Parole che chiedevano “più sicurezza” e “basta morti sul lavoro”.

Frasi che si ripetono con un registro ormai logoro, un tono che suona sempre uguale, ma che non riesce a fermare questa strage silenziosa. Anche allora, la prima reazione fu l’annuncio dell’apertura di indagini: “Stiamo lavorando per individuare le falle nella sicurezza e i responsabili”. Parole che abbiamo ascoltato ancora, troppo spesso, dopo ogni incidente sul lavoro. Ma a distanza di sei anni, cosa è davvero cambiato? Oggi ci ritroviamo di fronte allo stesso dolore, alle stesse dinamiche, allo stesso fallimento collettivo.

Lorenzo e Nunzio non dovevano morire, e come loro non avrebbero dovuto morire le centinaia di lavoratori che ogni anno perdono la vita sul posto di lavoro. Serve più di un’indagine. Serve più di una frase ad effetto. Serve un cambiamento culturale e strutturale, che metta al centro la sicurezza come diritto inalienabile e non come opzione negoziabile.

Perché ogni vita conta, e non si può più accettare che chi va a lavorare rischi di non tornare a casa. Ricordare Lorenzo e Nunzio, e tutti i caduti sul lavoro, significa agire.

Significa pretendere controlli rigorosi, formazione adeguata, investimenti concreti e un sistema normativo che non lasci scampo alla superficialità. Fino a quel momento, saremo tutti corresponsabili di queste tragedie. La sicurezza sul lavoro non è una richiesta straordinaria, è la base di una società civile. E finché non sarà garantita, continueremo a scrivere comunicati, a contare i morti e a vivere il dolore. Intanto siamo ancora in attesa dell’esito di quelle indagini.

L’autore: Stefano Santini è segretario generale Filctem Cgil Livorno 

L’autonomia differenziata è incostituzionale. Le motivazioni della Consulta parlano chiaro

La Corte Costituzionale ha confermato, con una sentenza molto autorevole, emessa dal massimo organo di legittimità costituzionale, la tesi che da anni Left sostiene: la legge Calderoli è una attuazione “incostituzionale” della Costituzione. Essa è stata scientificamente colpita nelle fondamenta da una splendida sentenza. La Corte afferma, infatti, un tema decisivo: non possono essere trasferite alle regioni materie complessive, ma solo, ad alcune precise condizioni, singole funzioni.  E, comunque, la Regione deve concorrere agli obiettivi di finanza pubblica. I diritti costituzionali devono essere, in ogni caso, assolutamente salvaguardati. Anche, quindi, nelle cosiddette “materie NON LEP”, vanno definiti i livelli essenziali.

La Consulta ribadisce, con nettezza, i principii costituzionali: unità della Repubblica e una promozione delle autonomie locali che non sia foriera di egoismo territoriale, divisivo e competitivo, ma di condivisione collaborativa. Non viene smentita solo la legge Calderoli ma l’intero percorso di contrattazione di “intese” tra governo e singole Regioni, la strada secessionistica, cioè, iniziata dal governo Gentiloni.

I sette principali profili della legge Calderoli sono stati dichiarati incostituzionali. Molto importante è anche l’altro asse ribadito da una sentenza rigorosa, di grande respiro, che va controcorrente rispetto alla prassi quotidiana oligarchica che il governo alimenta: la sentenza disegna il ruolo centrale del Parlamento, criticando aspramente una inedita architettura istituzionale che si regge oggi, contro il dettato costituzionale, sulla accentuata verticalizzazione del potere. La legge Calderoli, infatti, riduce le Camere ad organi consultivi o di mera ratifica. La Consulta restituisce al Parlamento un potere sostanziale. Sia nella determinazione dei Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP), sia per la stipula delle “intese” con le singole Regioni. Il ministro Calderoli sta, in questi giorni, procedendo ugualmente, con arroganza, nella contrattazione delle “intese”. Il suo comportamento è illegittimo. Cosa ne pensa il presidente del Consiglio? Si fermino! Non credano di essere al di sopra anche delle sentenze della Corte Costituzionale! Ritengo anche illegittimo e, per certi versi, grottesco che la cosiddetta Commissione Cassese continui ad operare, addirittura a marce forzate, come se il pronunciamento della Corte non vi fosse stato. Siamo, infatti, all’interrogativo centrale: cosa succede ora? Non ho dubbi sul fatto che il Parlamento debba intervenire con una nuova legge, radicalmente alternativa alla legge Calderoli, che non sta più in piedi. Non vi è più la sua “piena funzionalità”. La maggioranza deve rinunciare alla “devoluzione”. Se pensa di insistere nel progetto, dovrà scrivere un’altra legge, costituzionalmente legittima e corretta. Sentiamo intenti arroganti, in questi giorni, soprattutto da parte della Lega. Ma anche il presidente della Commissione prima del Senato, esponente di rilievo di Fratelli d’Italia , afferma, con disinvolta ipocrisia, «l’impianto generale della legge non è stato messo in discussione dagli specifici e puntuali aggiustamenti decisi dalla Consulta, perfettamente applicabili senza stravolgimenti». Ha torto! Un’altra legge non deve solo correggere qualche “errore” ma ribaltare l’impianto complessivo: L’articolo116 terzo comma della  Costituzione va delineato nel contesto della forma Stato, disegnata soprattutto negli articoli 2, 3, 5 della Costituzione. Occorre disegnare, cioè, per legge, un regionalismo “virtuoso”, una concezione solidale dell’autonomia. Il passaggio, indispensabile, alle Camere deve avere anche il significato di un rafforzamento della forma di governo parlamentare , di una decisionalità finalmente reale del Parlamento che sta diventando sempre più un mero orpello di un presidenzialismo plebiscitario di fatto, che si afferma nella prassi quotidiana della gestione del presidente del Consiglio. Tocca alle opposizioni parlamentari fare, ora, la propria parte, in maniera intransigente, con un aspro percorso di discussione e confronto anche in Parlamento, in dialettica con i territori, con la società. Sappiamo bene che vi è il rischio di un tentativo di mediocre mediazione per una Autonomia Differenziata che appaia meno ingiusta ed arrogante; ma, comunque, lesiva dei diritti costituzionali e del principio di eguaglianza. Non può esistere il ” meno peggio”, perché anche un secessionismo meno arrogante e iperliberista bloccherebbe il percorso necessario verso il “regionalismo solidale”. Mi rassicura il fatto che la Consulta continuerà a vigilare , come essa stessa scrive:” la Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione , qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale”. Spetta, in definitiva, a noi fare la nostra parte. L’iniziativa portata avanti da sei anni dai Comitati territoriali, la eccezionale raccolta delle firme per il referendum, il sindacalismo confederale e conflittuale , le grandi organizzazioni di massa hanno forgiato un diffuso, articolato, plurale popolo della Costituzione che si sta arricchendo, giorno dopo giorno, di collettivi studenteschi, ambientalisti, pacifisti. Forte è l’impatto del femminismo antipatriarcale  ed anticapitalista. Abbiamo rotto, mi pare, la gabbia della marginalità. Per un regionalismo solidale e sociale.

aggiornamento del 12 dicembre 2024: La Cassazione dà il via libera al referendum per l’abrogazione totale della legge Calderoli

 

L’appuntamento:

L’autore: Giovanni Russo Spena è costituzionalista e politico

Il presidente Mattarella con quindici giudici della Corte costituzionale. Foto di Quirinale.it, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=114752030