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Salvini naufrago tra i ministeri: il leader senza rotta

Che Matteo Salvini fosse stato parcheggiato al ministero dei Trasporti perché non era riuscito a ottenere il Viminale era chiaro un secondo dopo la formazione del governo Meloni.
Sì, certo, il leader della Lega ha ripetuto più volte che brigare di treni e di ponti fosse la sua grande aspirazione. Prova, con fatica, a interpretare la maschera dell’operoso lombardo nel ministero romano, ma viene sfrantato ogni giorno dai disservizi e dalla mala organizzazione. Nemmeno il cosiddetto ponte di Messina – che oggi è un’idea molle piantata su sponde incerte – riesce a dargli smalto.
L’unico capitale in mano al leader leghista era quel processo. Gli è bastato raccontarlo storto per trasformarlo in un giudizio della sua esperienza da ministro dell’Interno e la recente assoluzione dovrebbe essere la certificazione che sì, Salvini «ha protetto i confini».
Peccato che la narrazione non stia in piedi, proprio per niente. Matteo Salvini ha lasciato languire persone migranti per qualche giorno per poi farle sbarcare, quindi non c’è nessun respingimento, nessun porto chiuso. Anche i suoi sostenitori più sfegatati ammettono che l’unica utilità di quel gesto cattivo con Open Arms sia il messaggio deterrente.
Ma per Salvini la politica è solo un teatro di posa. Il suo fare mira a corroborare il personaggio. Per questo oggi chiede a Meloni di potersi esibire sull’antico palcoscenico del Viminale. Non ha più sostanza, non ha più programmi. La malinconia per il ministero dell’Interno è il suo unico messaggio politico. A pensarci bene, è un naufrago anche lui.

Buon lunedì.

In memoria della strage di Ustica. Le opere di Kuśmirowski al MAMBo

In occasione del 44°anniversario della strage di Ustica, il MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna del Settore Musei Civici Bologna) ospita fino al 6 gennaio nello spazio della Sala delle Ciminiere, la mostra Robert Kuśmirowski. PERSO[A]NOMALIA, iniziativa pensata come una sorta di prosecuzione del legame tra arte e memoria che annualmente arricchisce il palinsesto di iniziative attorno al Museo per la Memoria di Ustica per stimolare il pubblico, e specialmente i giovani, ad approfondire il loro sentire e il loro legame con vicende che non li hanno direttamente coinvolti ma che hanno segnato la storia del nostro Paese, ed è legata, per diversi aspetti, all’installazione permanente di Christian Boltanski (Parigi 1944-2021) allestita proprio al Museo per la Memoria, inaugurato nel 2007, nella quale sono conservati i resti del DC9 abbattuto il 27 giugno 1980 mentre si dirigeva verso l’aeroporto di Palermo. In questa installazione le 81 vittime della strage sono ricordate attraverso altrettante luci che dal soffitto del Museo si accendono e si spengono al ritmo di un respiro. Intorno al velivolo ricostruito 81 specchi neri riflettono l’immagine di chi percorre il ballatoio, mentre dietro ad ognuno di essi 81 altoparlanti emettono frasi sussurrate, pensieri comuni e universali, a sottolineare la casualità e l’ineluttabilità della tragedia. Nove grandi casse nere sono state disposte dall’artista intorno ai resti riassemblati del DC9: in ognuna di esse sono stati raccolti decine di oggetti personali appartenuti alle vittime. Scarpe, pinne, boccagli, occhiali e vestiti che documenterebbero la scomparsa di un corpo, rimangono così invisibili agli occhi dei visitatori. Solo le loro immagini sono state ordinatamente impaginate da Boltanski nella “Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870” una pubblicazione che, coinvolgendo lo spettatore direttamente nella memoria di quella strage, lo vede protagonista nella ricostruzione di una verità che il governo italiano ha pervicacemente occultato da quarantacinque anni (il progetto del Museo per la Memoria di Ustica è stato realizzato grazie alla determinazione dell’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica).
Allo stesso modo, intrecciando la memoria storica con la sfera artistica contemporanea, le opere di Robert Kuśmirowski esposte nel capoluogo emiliano creano un ponte suggestivo tra il passato e il presente. La personale dell’artista polacco, realizzata con il contributo dell’Istituto Polacco di Roma, fa eco al tragico evento del 27 giugno 1980 affidando al linguaggio del contemporaneo una riflessione sulla memoria collettiva in un particolare momento di ripiegamento della storia su se stessa. Nel titolo dell’esposizione, PERSO[A]NOMALIA, si rintracciano i temi dello smarrimento e della perdita accentuati nella loro gravità dall’anomalia dell’epoca che stiamo vivendo.
Sul filo di questa evocazione, Kuśmirowski esplora la complessità del ricordo e dell’oblio attraverso grandi installazioni, ideate per la Sala delle Ciminiere del MAMbo, in cui si combinano elementi visivi, sonori e sensoriali. La serie di ambienti, di diversa natura e per la maggior parte inediti, dialogano tra loro creando un ponte tra passato e presente che genera nello spazio museale un’atmosfera sospesa ed enigmatica.
Le installazioni sono state costruite manualmente dall’artista utilizzando elementi e arredi in parte provenienti dal suo archivio e in parte scelti presso Freak Andò antiquariato modernariato design, partner tecnico della mostra.
Un lungo lavoro di ricerca ha preceduto la selezione degli oggetti, trasformati in simboli carichi di significato. Assemblati in situ in ambientazioni rammemoranti ed elusive, ricordano reticolati archivistici segreti nell’opera inedita Portier, oppure un ufficio dell’aviazione civile tedesca degli anni Trenta in Lusthansa o ancora un antico cinematografo in DUSTribute o una scatola delle meraviglie nell’installazione Cosmorama, qui ripresentata dopo la sua prima esposizione italiana del 2010.
Visitando la mostra il pubblico penetra in un limbo senza tempo dove la fusione tra memoria collettiva e intima immaginazione porta a una sospensione spazio-temporale che si fa portavoce delle complesse dinamiche tra vita, storia, potere e verità.
L’arte di Robert Kuśmirowski si distingue per la sua singolarità nell’esplorare il potenziale non completamente liberato o espresso degli oggetti che abitano le nostre vite, restituendo loro la possibilità di rilasciare quell’eccedenza di senso che l’assuefazione, l’incuria e la denutrizione intellettuale delle persone non ha del tutto sottratto loro. Si tratta di oggetti che hanno perduto la loro posizione nella storia, che sono scivolati in non-luoghi sfumati tra la dimenticanza e l’oblio, spesso relegati in soffitte, depositi, mangiati dalla polvere e dal tempo.
Sono cose che sembrano contare ormai poco o nulla nella scala valoriale di una società che predilige la novità e la compiacenza tecnica, se non fosse per il loro coefficiente di ricordo o perché emanano un effluvio di passato. Possono essere effetti della memoria collettiva e frammenti di storie personali come arredi domestici, libri, articoli professionali e strumenti di vario genere, componenti industriali prodotti in serie o pezzi unici, costruiti artigianalmente quando ancora il pensiero tecnico-scientifico non riduceva la comprensione della cosa. Scomparsi dalla nostra visuale, sono diventati oggetti ovvi, logorati dall’abitudine e dallo sguardo oggettivizzante. Dietro a questa apparente banalità si cela il reale con il suo vuoto di relazioni e il disegno storico delle forze produttive e sociali che hanno contribuito alla loro reificazione in prodotti con una data di scadenza. Ma è proprio questa loro ovvietà a diventare il soggetto di un processo culturale di riabilitazione, poiché il senso degli eventi importanti della vita rimane sempre attaccato alle cose.
Robert Kuśmirowski lo sa bene, la sua storia umana e artistica è stata animata dal rapporto con gli oggetti: ha imparato a conoscerli da vicino, a studiarli, a costruirli e ricostruirli meticolosamente trasformando la sua energia fisica in grande sapienza manuale. Un’esperienza che si è tramutata artisticamente nella fabbricazione di ambienti e spazi che appaiono come repliche perfette di luoghi e oggetti del passato. Una fedeltà visiva tesa a ricontestualizzare la loro posizione nella memoria collettiva, liberandoli dal riduttivismo, e a riattivare la nostra coscienza della storia. Nella ricostruzione minuziosa di immagini e di luoghi esistiti in un lungo periodo storico particolarmente sentito nella Polonia (e nell’Europa) pre e postcomunista, lo spettatore può osservare se stesso riflesso in un racconto della storia in cui la presenza di qualche indizio fittizio tradisce volutamente la simulazione. Un’azione continua di costruzione, distruzione e ricostruzione che permette all’artista di creare delle soglie temporali.
In una area geografica, come l’Europa centro-orientale, investita da un radicale e rapido cambiamento col crollo del Muro di Berlino, l’artista polacco ri-costruisce il legame con oggetti di uso comune e quotidiano nel passato e che inevitabilmente assumono un significato nuovo ed enigmatico nel presente, ricordandoci fatti “dimenticati”, ma che possono tornare, come un fantasma di un fatto non ancora pienamente compreso o chiarito, proprio come l’incidente avvenuto nei cieli di Ustica quel fatidico 27 giugno del 1980.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e docente universitario. È appena uscito il suo nuovo testo teatrale “La caduta di Gomerosol” con la premessa di Marco Belocchi

In foto un’opera di  Robert Kusmirowski, Courtesy museo MamBo

Quando l’instabilità è un valore in architettura

Visitando la mostra al Maxxi di Roma a cura di Elisabeth Diller Architettura Instabile ho pensato a Alvar Aalto. Come se Aalto dopo aver creato il suo Edificio Finlandia in marmo di Carrara (un’opera che negò i presupposti naturalistici, romantici e organici della sua architettura) avesse organizzato una mostra per affermare la sua virata neoclassica. Elizabeth Diller infatti ci presenta oggi al MAXXI una mostra che è una giustificazione alla sua ultima grande opera a New York city: The Dock, un grande hangar semovente. Spieghiamoci meglio, Diller con il marito Riccardo Scofidio e Charles Renfro nel 2002, dopo un percorso all’interno del pensiero informatico in architettura, (come quello di Toyo Ito, Greg Lynn o Ben van Berkel) realizzò nel 2002 un capolavoro assoluto chiamato Thw Blur – l’edificio dell’Indeterminatezza, della nebbia, e della sfocatura. L’architettura di the Blur esprimeva una concezione rivoluzionaria che incorporava il paradigma informatico e offriva importanti linee evolutive ad una serie di relazioni come il rapporto tra informatica e natura, tra informazioni e nuovi edifici, tra mutabile e fisso. Non si trattava neanche esattamente di un edificio, ma di una continua mutazione atmosferica. Su uno piattaforma eretta come una palafitta migliaia di ugelli agganciati all’ossatura metallica nebulizzavano l’acqua del lago sottostante. L’operazione non era meccanica ma digitale e interattiva purché le variazioni delle situazioni ambientali erano catturate dai sensori che creavano algoitmicamente nebbia di diversa intensità al variare della luce del girono, della temperatura e del vento. L’architettura carica di sensori informatici e di dispositivi attuativi negli ugelli era diventava un corpo mutante e vivente in rapporto stretto con l’ambiente circostante.
Tutto l’opposto di quanto vediamo vent’anni dopo in The Dock. Si tratta di un progetto ispirato come i diceva al movimento di gru, piattaforme e carrelli lungo le banchine sullo Hudson. Un mondo che sembra uscito dai libri di Siegfried Giedion come Mechanization Takes comand del 1948 oppure Costruire in ferro, costruire in cemento del 1928 e rappresentato in innumerevoli cine giornali e in alcuni film ( come L’uomo con la macchina da presa, del 1929 di Dziga Vertov) e che ha ispirato un filone della pittura, basti pensare a Ferdinand Leger. The Dock è uno spazio spazio flessibile per performance, eventi culturali e artistici di norma tutti a pagamento. Rappresenta con l’adiacente torre The Vessel (ingabbiata oggi da una rete per evitare nuovi suicidi) quanto la città di New York abbia negoziato per consentire la costruzione dell’enorme intervento immobiliare di Hudson Yards (mezzo milione di metri quadri su quasi 6 ettari di terreno, ottenuti in parte con la realizzazione di una piattaforma sopra i binari ferroviari e in parte demolendo il quartiere storico di Hell’s Kitchen con rammarico e proteste della cittadinanza). All’interno di questo enorme progetto prendono quindi la luce due opere a destinazione “artistica” di cui una è appunto the Dock. L’architetto Diller (con Ricard Scofio + Renfro) stravolge la sua precedente ricerca per creare una sorta di macchina portuale semovente su dei binari che un poco come una scatola di fiammiferi si apre e si chiude a secondo delle circostanze. L’edificio permette di avere conformazioni estive o invernali con varie configurazioni dello spazio che sono forse un vantaggio dal punto di vista pratico, ma l’edificio risulta di rara aggressività se non di decisa bruttezza.
L’esposizione dedica a The Dock lo spazio centrale (con filmati, un plastico e l’album dei disegni esecutivi) e annulla quasi completamente anche nel resto delle opere l’idea che aveva mosso The Blur. “Architetture instabili” non ha nulla a che vedere con il paradigma informatico e con la ricerca di una architettura come sistema vivente. Infatti non è presente il lavoro di François Roche o di Philip Rahm, di Achim Menges o dei nostri Ecologic Studio. Il mostro dii acciaio su ruote di DS + R fa arretrare la ricerca su tutti i fronti compreso quello sulla sostenibilità: perché la questione non è se una architettura si muova o meno: la questione è la relazione tra la lettura dell’ambiente per via informatica e il conseguente adattamento del movimento di una architettura interattiva.
Retrocedendo la questione del movimento in architettura a un movimento puramente meccanico, Elisabeth Diller riscopre allora La villa del girasole (Angelo Invernizzi Marcialise) che si muove appunto su sistemi rotanti per seguire il sole realizzata negli anni 30, oppure l’opera di Cedric Price “The Fin Place” del 1961, progetto non realizzato ma che fu di ispirazione per il Centro Pompidou di Parigi. Alcuni modelli nella mostra sono effettivamente semoventi, come il grande parco di Ombrelli a Medina, altri modelli come lo stesso The Dock, o diaframmi che si aprono e chiudono al variare della luce del Centro della cultura araba di Jean Nouvel a Parigi sono presenti ma tristemente immobili. Elisabeth Diller negli anni Novanta dello scorso secolo fu nota per avere realizzate installazioni per esposizioni della più grande efficacia spaziale e concettuale (Vedi A. MArotta, Diller+ Scofidio Il teatro della dissolvenza, Edilstampa 2005) invece in questo caso siamo di fronte a un lavoro di installazione deludente, delegato a delle grandi tende in movimento su binari sul soffitto. Nonostante il costo e la coerenza con il tema, lasciano gli spettatori indifferenti e non emozionano più del tirare la tenda della doccia la mattina. In mostra anche opere che rappresentano poco più di una curiosità come il carrello telescopico per dormire, la struttura pneumatica come ufficio mobile, o che appartengono alla meccanizzazione industriale se non all’ingegneria, come il Salvataggio dei Templi egiziani di Nubia negli anni Sessanta. Eppure in un MAXXI pressoché deserto esso stesso, con mostre tutte in allestimento, questa esposizione rappresenta la sola occasione di rilevo aperta. Il libro che accompagna la mostra ha lo stesso titolo Architettura instabile a cura di Pippo Ciorra e Maddalena Scimemi non ne è affatto un mero catalogo ma uno strumento indipendente di riflessione.

L’autore: Antonino Saggio è un teorico e storico dell’architettura, saggista ed editore

Cassazione e Ue: la giustizia smonta i decreti “illegali” del governo

Il governo Meloni ha provato a mettere un bavaglio ai giudici e un argine alle contestazioni sul fronte migranti. Non sta andando benissimo. Le brutte notizie continuano ad arrivare, puntuali, dalla giustizia italiana e da quella europea. La prima, devastante per la narrativa del governo, arriva dalla Cassazione, che smonta pezzo per pezzo la teoria dell’intoccabilità delle liste dei “Paesi sicuri”.  

“Non spetta ai giudici decidere se un Paese è sicuro”, è stata la linea della maggioranza. Eppure, con una sentenza che non lascia spazio a interpretazioni, la Suprema Corte chiarisce che il potere di verifica dei magistrati non può essere soffocato da decisioni governative. La nozione di “Paese sicuro” è giuridica, non politica: una distinzione che il governo ha cercato di manipolare per blindare le proprie scelte. La Cassazione, citando anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, ribadisce che il giudice può e deve disapplicare un decreto che contrasti con i criteri europei.  

La seconda stangata arriva direttamente dalla Corte di giustizia Ue, che dichiara inefficace la sospensione unilaterale dell’Italia sui trasferimenti di richiedenti asilo previsti dal trattato di Dublino. La manovra, vestita di motivazioni tecniche, è stata smascherata per quello che è: una violazione delle regole comuni.  

Il governo continua a distinguersi per una non invidiabile capacità di scrivere leggi illegali. Vengono promesse, date in pasto ai loro elettori e irrimediabilmente poi si sfaldano. Un capolavoro. 

Buon venerdì. 

La censura di Meta stronca le voci palestinesi sui social media

frame di Arab48

Le politiche di censura adottate da Meta, conglomerato tecnologico proprietario di Facebook e Instagram, stanno generando un impatto profondo sui contenuti palestinesi condivisi sulle sue piattaforme. Questa situazione, già oggetto di numerose critiche in passato, ha raggiunto un nuovo livello di attenzione internazionale con l’ultimo rapporto pubblicato dal 7amleh – Arab Center for the Advancement of Social Media. Le testimonianze raccolte da questo centro di monitoraggio rivelano inquietanti di restrizioni, chiusure di account e calo di visibilità che colpiscono influencer, giornalisti e organi di stampa palestinesi, con gravi ripercussioni non solo a livello mediatico, ma anche sociale ed economico. Lo scopo è zittire le voci critiche, manipolare il dibattito pubblico e controllare il flusso di informazioni. Un disegno pericoloso che va ben oltre la semplice censura.

Dal mese di ottobre 2023, coincidente con l’intensificarsi del conflitto israelo-palestinese e l’offensiva israeliana su Gaza, Meta è stata accusata di intervenire in modo discriminatorio contro i contenuti palestinesi. La pratica più frequentemente segnalata è quella del cosiddetto “ban ombra”, una forma di censura meno evidente ma non meno efficace, che comporta una drastica riduzione del coinvolgimento del pubblico senza notifiche o spiegazioni ufficiali. Le conseguenze di queste politiche si riflettono nelle voci di chi le subisce: sono state raccolte venti testimonianze che raccontano di pagine chiuse improvvisamente, account sospesi o limitazioni inspiegabili che hanno danneggiato la capacità di comunicare e di fare informazione.

Tra le voci più significative, spicca quella di Yahya Alsayed, responsabile del gruppo comunitario Ask Jerusalem, che si occupa di fornire informazioni ai palestinesi residenti a Gerusalemme. La pagina del gruppo è stata sospesa per la prima volta nel 2021, durante il tentativo di sfratto di famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, e da allora le restrizioni sono state una costante, influenzando negativamente il coinvolgimento e la capacità di raggiungere il pubblico. Anche dopo il ripristino dell’account, Alsayed ha denunciato il permanere di limitazioni che continuano a ostacolare il lavoro del gruppo.

Un’altra testimonianza arriva dalla redazione di Arabs48, organo di stampa che ha denunciato la cancellazione della propria pagina Facebook per ben due volte, senza alcun preavviso o spiegazione. Anche l’account Instagram risulta colpito da restrizioni che ne limitano la visibilità, con una drastica riduzione del pubblico raggiunto. Dima Kabaha, redattrice del giornale, ha espresso preoccupazione per il futuro della testata, sottolineando come questa situazione impedisca di svolgere un ruolo essenziale nell’informazione. Quando, come in questo caso, le piattaforme digitali rappresentano l’unico mezzo per raccontare la realtà, togliere la parola a chi vive in zone di guerra è come negare loro il diritto di esistere. La censura diventa una nuova forma di violenza, che silenzia le storie e le speranze di un intero popolo.

La situazione non è diversa per molti influencer, i quali hanno subito pesanti limitazioni che hanno compromesso la loro capacità di creare contenuti. Adnan Barq, uno dei volti più seguiti sui social palestinesi, ha raccontato di come il numero di visualizzazioni delle sue storie su Instagram sia passato da una media di 20.000-30.000 a poche migliaia dopo l’inizio della guerra. Il suo collega Ali Obeidat ha subito addirittura la cancellazione dei suoi account per ben 83 volte, perdendo ogni volta l’accesso alle sue piattaforme di comunicazione.

Ancora più allarmante è ciò che emerge da un’altra sezione del rapporto di 7amleh: mentre i contenuti palestinesi vengono limitati o censurati, si registra una diffusione massiva di post in ebraico che incitano all’odio contro i palestinesi. Sono stati contati oltre 15 milioni di post di questo tipo dall’ottobre 2023, svelando un’ingiustizia che rafforza le critiche mosse a Meta per le sue pratiche discriminatorie. Di fronte a questa situazione, Meta si è difesa sostenendo che alcune delle misure adottate, come il declassamento dei contenuti, sono temporanee e volte a ridurre i rischi durante il conflitto. Tuttavia, questa spiegazione non convince chi subisce le conseguenze delle politiche aziendali, accusate di violare i principi fondamentali della libertà di espressione.

Le ripercussioni di queste pratiche non si limitano alla sfera della comunicazione, ma si estendono anche alla sfera personale ed economica. Secondo 7amleh, molti giornalisti e influencer palestinesi stanno vivendo una crescente pressione emotiva e un clima di autocensura per timore di ulteriori restrizioni. Meta è chiamata a rispondere non solo alle critiche, ma anche alle richieste di riforma delle sue politiche. Jalal Abukhater, responsabile dell’advocacy presso 7amleh, ha dichiarato che le pratiche discriminatorie del gigante tecnologico costituiscono una violazione degli standard internazionali e ha sollecitato interventi urgenti per garantire che i palestinesi possano accedere alle piattaforme digitali senza subire repressioni o limitazioni ingiustificate.

Il ruolo delle piattaforme digitali in questa crisi è cruciale, soprattutto considerando le limitazioni imposte ai media internazionali che hanno reso difficile, se non impossibile, l’accesso alla Striscia di Gaza. I social media sono diventati non solo uno strumento di informazione, ma anche un mezzo per chiedere aiuto e mantenere i contatti con i propri cari in una situazione di isolamento estremo. La censura rischia di spegnere queste voci, aggravando ulteriormente la sensazione di abbandono e invisibilità di chi vive in una delle aree più martoriate del mondo.

La richiesta di una maggiore trasparenza e imparzialità nella gestione dei contenuti online non è più rinviabile. Meta si trova ora di fronte a una scelta fondamentale: ascoltare le richieste di chi chiede giustizia o rischiare di perdere la fiducia di milioni di utenti. La libertà di espressione, soprattutto in situazioni di conflitto, non può essere trattata come una questione secondaria o sacrificabile.

l’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce

in foto frame da Arabs48

Daniele Biacchessi: «Fronte zero è un giallo politico, un atto di denuncia»

Daniele Biacchessi, giornalista d’inchiesta, scrittore, attualmente direttore editoriale di Giornale Radio e responsabile della collana editoriale “Contastorie” della casaeditrice Jaca Book, aggiunge alla sua intensa produzione letteraria, teatrale e cinematografica il suo primo libro noir, dal titolo Fronte Zero (Delos Digital) scritto insieme a Edy Giraldi, scrittrice ed esperta di romanzi gialli. La lunga carriera di Biacchessi comincia quando, giovanissimo, indaga sullo scandalo Seveso e sulla fuoriuscita dalla fabbrica di diossina Icmesa che contaminò una vasta area di territori e le persone che vi abitavano. Continua con passione la sua attivitàdescrivendo personaggi dal forte impegno civile e morale nella lotta contro la mafia, come Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Piero Borsellino, o contro il terrorismo anche per tenere viva la memoria di fatti destinati, per il trascorrere del tempo e le tante difficoltà a portare avanti le indagini, ad essere dimenticati come l’assassinio dei due diciottenni Iaio e Fausto, i cui veri nomi erano Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli, a Milano nel 1978, i cui mandanti sono rimasti sconosciuti oppure per tenere in vita la Resistenza e i troppi depistaggi che hanno impedito al nostro Paese di prendere consapevolezza degli anni della dittatura fascista. Il giornalista ha anche esplorato le dinamiche che negli Stati Uniti d’America hanno portato al movimento Black lives Matter, analizzandone le radici storiche ivi compresa la cultura di personaggi come Woody Guthrie, cantore della musica popolare. Libri importanti,
da consultare per comprendere le radici del mondo di oggi. Fronte zero è un breve, sorprendente libro la cui scrittura scorrevole suddivisa insintetici capitoli dai titoli bellissimi, come rapidi flash cinematografici, partendo da un passato che sembra ostinatamente che non voglia passare, rappresentato da unpiccolissimo gruppo di irriducibili brigatisti arriva alla situazione di oggi, in cui la violenza sembra ormai la strada sulla quale dobbiamo incamminarci e che tutti dovremmo accettare. In vista della presentazione del libro il 20 dicembre a Montefiascone abbiamo rivolto alcune domande all’autore.

Due coppie di fratelli progettano l’assassinio di un diplomatico americano apparendoci come irriducibili brigatisti. Biacchessi è un caso che il progetto solleciti qualche ricordo con il rapimento del generale James Lee Dozier, nel 1981, a Verona, che fu in effetti l’atto violento che segnò l’inizio della fine e il fallimento del Brigate Rosse?

No, non è un caso. Mi sono chiesto cosa potrebbe accadere se un gruppo di terroristi colpisse una alta autorità degli Stati Uniti in Italia? Gli investigatori italiani sarebbero liberi di indagare oppure gli apparati dello Stato americani sovrasterebbero la sovranità del nostro Paese? Nel caso Dozier si vide chiaramente che gli americani, nei fatti, diressero le operazioni e altri eseguirono la liberazione del generale: i Nocs, le teste di cuoio. Dozier era sottocapo di stato maggiore addetto alla logistica del Comando delle forze terrestri della Nato nell’Europa meridionale. Quindi un ruolo apicale. Ai responsabili del rapimento vennero inflitte torture pesantissime. La squadra di poliziotti si faceva chiamare “Quelli dell’Ave Maria”: il capo era chiamato professor De Tormentis, soprannome che gli aveva dato Umberto Improta, dirigente dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali) prendendo spunto dalla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Il vero nome del professor De Tormentis venne svelato solo anni più tardi. Nel mio romanzo, quelli del “Fronte Zero” non hanno un’organizzazione che li copre, agiscono da soli. Non rapiscono, ma uccidono. Non chiedono riscatti. Ma i meccanismi del potere che si innestano dopo l’attentato sono quelli di un Paese a sovranità limitata, anzi controllata.

Le protagoniste al femminile, sia le donne del gruppo di brigatisti sia la moglie del diplomatico americano sembrano percepire la verità di quello che sta succedendo. Ce lo può spiegare?

I presagi. Le terroriste e la moglie dell’ambasciatore sentono che qualcosa è andato storto ben prima dello svolgimento dei fatti che le coinvolgono. Sono ovviamente punti di vista opposti, però simmetrici. Capiscono di essere rimaste imprigionate da un identico meccanismo di poteri più forti di loro.

Il poliziotto incaricato delle indagini si trova stretto dalle imposizioni dei Servizi americani mentre le cariche istituzionali, attente al compromesso, stanno bene attente a non urtare l’equilibrio dei rapporti internazionali. E’ possibile per il commissario Martini salvare la sua formazione riconducibile ai principi della Costituzione e all’esperienza di magistrati e colleghi coraggiosi da lui conosciuti?

Daniele Martini è un commissario all’antica, ligio al dovere, fedele alla Costituzione, che pensa con la propria testa. Non è uno dei soliti commissari guasconi e donnaioli che vengono proposti dal mercato del noir. E’ uno che crede in ideali impossibili da realizzare e viene sconfitto. In “Fronte Zero” non c’è uno Stato buono e onesto e un gruppo di macellai violenti e cattivi. Qui ci sono sfumature di grigi e di altri colori tra il bianco e nero. E’ un giallo politico, un atto di denuncia.

Il libro è un susseguirsi di fatti violenti che – come avviene nella realtà attuale- una volta avvenuti, vengono accettati come “normale realtà degli esseri umani”. Dove trovare il modo per reagire, rifiutare, ritrovare gli anticorpi verso una violenza di fronte alla quale sembra ci sia solo la possibilità di soccombere, come di fronte ad un attacco di una malattia pestilenziale nel Medioevo?

In Italia, il passato non passa mai perché non si sono comprese fino in fondo le origini da cui nasce la violenza politica. E’ l’unico paese europeo dove sono state eseguite contro civili stragi con matrice di destra eversiva sui treni, nelle banche, nelle piazze, nelle stazioni: piazza Fontana e Questura a Milano, piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus, stazione di Bologna. E l’unico luogo in Europa dove decine di sigle riconducibili alla lotta armata di sinistra hanno eseguito 131 omicidi, oltre 2000 ferimenti contro magistrati, poliziotti, carabinieri, generali, guardie carcerarie, giornalisti, dirigenti di imprese, e politici come Aldo Moro. L’Italia è dunque un paese dove si sono sperimentate operazioni coperte, tentativi di colpi di Stato. Molte cose sono accadute perché non si sono comprese le ragioni della malapianta della violenza non solo quella dei terroristi che hanno creduto di cambiare lo stato delle cose con le armi, ma anche la violenza di uno Stato che poteva arrestarli, ma li ha lasciati fare fino poi a sopprimerli con ogni mezzo quando non erano più funzionali al sistema.

Quanto la paura del potere come possibilità di infettarsi ha allontanato generazioni di cittadini e cittadine nel prendere più attivamente parte alla vita politica? Ritiene sia stato un errore? La cultura come ricerca continua è politica?

Si, la cultura, la letteratura, l’arte nel senso più alto della sua potenza, restano le uniche vie possibili per il miglioramento umano e per l’elevazione collettiva dell’intera società. C’è ancora molto da fare. Ci vorrebbero meno giallisti civili, scrittori, attori,registi, giornalisti civili, e più panettieri civili, ingegneri, operai, impiegati, pensionati civili. Insomma ognuno dovrebbe mettere in campo un’inversione di rotta, un moto di ribellione e disobbedienza civile. Se le cose vanno in un certo modo è anche colpa nostra.

L’Intelligenza artificiale consente al commissario, attraverso l’analisi e il confronto letterale dei testi molto vecchi di brigatisti, di trovare il bandolo della matassa. Come se lei volesse evidenziare che anche la mancata evoluzione de linguaggio, che si trova a ripetere parole e rituali, sia essa stessa violenza?

I documenti di rivendicazione dei terroristi sanno di vecchio, obsoleto, il linguaggio scelto è burocratico. Devono giustificare un atto tremendo come la morte, allora al loro obiettivo calzano la maschera della sua funzione, così l’uomo che colpiscono diventa un magistrato, un poliziotto, un carabiniere, un giornalista, o come in questo caso un ambasciatore, senza la sua storia, la sua famiglia, i suoi pensieri, le speranze, le delusioni. Però qualcuno del “Fronte Zero” inizia a porsi il problema della disumanizzazione, anche se è ormai stritolato nel suo stesso nichilismo. Il libro è uno strumento per comprendere quelli che erroneamente chiamiamo con superficialità “anni di piombo”.

L’autrice: Già dirigente Rai, Sonia Marzetti  è coordinatrice del Gruppo Storia e collaboratrice di Left

In foto Il cupolone visto da Villa Pamphili. Foto di Notafly – self-made Own photo August 2007 Ricoh Caplio 5, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2861145

La resa degli ipocriti: quando la pace diventa una comoda scusa per il fallimento

«Io mi auguro che la pace si avvicini. Sono valutazioni della situazione militare sul terreno. Mi sembrava ovvio che l’Ucraina non avesse le forze per riconquistare la Crimea. Adesso l’importante è che la guerra finisca perché ci sono ancora conflitti in corso, abbiamo visto cos’è successo a Mosca, vediamo cosa succede nel Donbass, in territorio russo, in territorio ucraino. Noi lavoriamo per la pace, che sia una pace giusta, sapendo bene che la pace non può essere la resa dell’Ucraina, perché c’è stato un invasore e un Paese che è stato attaccato, però bisogna lavorare per la pace». 

Non sono le parole di un sinistro pacifista. A pronunciarle ieri è stato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, membro della schiera che all’inizio del conflitto riteneva la guerra elemento risolutivo dell’invasione russa in Ucraina. La dichiarazione è la ricaduta locale di ciò che ha lasciato intendere, sempre ieri, Zelensky: per come stanno le cose il Donbass e la Crimea son definitivamente perdute. 

La svolta era fin troppo facile da prevedere. Che l’Ucraina avesse davvero la possibilità di vincere la guerra contando su un sostegno reale dell’Ue e dell’Occidente era la pillola indorata dei signori delle armi che delle vite ucraine – così come delle altre sparse nel mondo – hanno pochissimo interesse. 

La «guerra giusta», la «difesa della democrazia», il «ripristino della legalità internazionale» e gli altri altisonanti principi enunciati fin qui avevano un preciso scopo: adornare le fatture delle armi vendute e profumatamente pagate. Poi il resto – le vite e le speranze delle persone – possono essere sacrificate sull’altare di un’improvvisa voglia di pace.

Buon giovedì. 

Nella foto: il presidente ucraino Zelensky e la presidente della Commissione Ue Von der Leyen

Il Brasile fa i conti con il tentato golpe del 2022: arrestato il generale braccio destro di Bolsonaro

Il 14 dicembre 2024 è stato arrestato il generale Walter Souza Braga Netto, ex ministro della Difesa di Jair Bolsonaro, e da lui scelto come suo vice alle elezioni presidenziali del 2022. Secondo gli inquirenti, Braga Netto ha agito “con dolo” per ostacolare le indagini della Polícia Federal sul tentato golpe del 2022, del quale sarebbe stato la mente, assieme all’ex presidente. Nel mandato di arresto del generale, si legge che avrebbe tentato ad accedere alle informazioni raccolte dalla magistratura, grazie al collaboratore di giustizia, tenente-colonnello Mauro César Barbosa Cid. Braga Netto avrebbe esercitato pressione sul padre del collaboratore, anch’egli generale ed ex compagno di classe di Bolsonaro all’Accademia militare “Agulhas negras” negli anni Settanta, al fine di «controllare le informazioni fornite, alterare la realtà dei fatti accertati, oltre a consolidare l’allineamento delle versioni tra le parti indagate».
L’arresto dell’ex ministro della Difesa, avviene nell’ambito dell’Operação Contragolpe, lanciata il 19 novembre 2024, dalla Polícia Federal, con l’obiettivo di «smantellare la Centrale operativa» dell’organizzazione criminale composta, per la maggior parte, «da militari addestrati nelle Forze Speciali (Fe)», che si avvalevano di conoscenze tecniche e militari di alto livello per «pianificare, coordinare ed eseguire azioni illecite nei mesi di novembre e dicembre 2022».
Tali “azioni illecite” consistevano, in un primo momento, nell’ideazione e messa in atto di una campagna di discredito sulla sicurezza del sistema elettorale brasiliano. Orientati da militari, ora indagati, gli influencers più seguiti dall’elettorato di estrema destra, come l’argentino Fernando Cerimedo, considerato uno dei responsabili dell’espansione della destra in America Latina, nonché stratega digitale dell’attuale presidente dell’Argentina, Javier Milei, diffusero notizie false al fine di rendere poco credibile la vittoria del centrosinistra; successivamente, costatata la vittoria di Lula, l’obiettivo dell’organizzazione criminale, capeggiata da Bolsonaro e Braga Netto, cambiò: impedire l’insediamento di Lula, uccidendolo, assieme al vicepresidente Geraldo Alckmin.
Secondo il collaboratore di giustizia Mauro César Barbosa Cid, ex braccio destro di Bolsonaro, il cospicuo tesoretto per uccidere Lula, Alckmin, e il giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes, fu fornito direttamente al generale Braga Netto dagli imprenditori dell’agrobusiness (v. anche qui) che compongono tuttora la base elettorale di Bolsonaro. Odiato dalle destre, Moraes è stato spesso bersaglio degli attacchi di Elon Musk per aver condotto indagini sulle cosiddette “milizie digitali”, ovvero, la rete di influencers di estrema destra dedita a disseminare notizie false e campagne di odio contro gli oppositori e chiunque esprima idee progressiste.
Secondo quanto riportato nel rapporto di oltre 800 pagine, divulgato dalla Polícia Federal a fine novembre, un’organizzazione criminale composta da una quarantina di individui, tra militari, influencers di destra, politici, imprenditori e un sacerdote cattolico, pur di mantenere al potere l’ex presidente della Repubblica Jair Bolsonaro, pianificò il sovvertimento violento dello Stato democratico, attraverso un vero e proprio golpe. A tal fine, Braga Netto e Bolsonaro, sconfitti alle elezioni del 2022, idearono e misero in atto un piano di destabilizzazione politica e sociale, attraverso una serie di azioni violente, iniziate subito dopo la vittoria di Lula, come la fallita esplosione di un camion cisterne di carburante per aerei, nei pressi dell’aeroporto di Brasilia, la tentata invasione della sede della Polícia Federal, atti vandalici contro il sistema di trasmissione di energia elettrica del Paese, con l’abbattimento e danneggiamento di una ventina di torri, in diversi Stati, blocchi stradali indetti da camionisti pro Bolsonaro e, infine, la sedizione, con l’incitazione ad invadere e depredare i palazzi del governo e della Corte Suprema, nella capitale Brasilia, l’8 gennaio 2023. Dal rapporto, reso pubblico alla stampa, emerge che i sostenitori di Bolsonaro, rimasti per mesi accampati davanti alle caserme, ricevevano continue rassicurazioni sulla buona riuscita del golpe da parte di militari riconducibili a Braga Netto.
Dagli atti di indagine risulta che il capo di Stato maggiore della Marina sosteneva il golpe, mentre i comandanti dell’Aeronautica e dell’Esercito erano contrari. Questa situazione di contrapposizione ha portato al fallimento del piano golpista e, pertanto, alla soppressione del piano di eliminazione di Lula, Alckmin e Moraes. Alle pagine 13 e 215, si legge che per uccidere i primi due i militari avrebbero fatto uso di veleno, o elementi chimici non specificati (operazione soprannominata “Punhal verde e amarelo”). Per quanto riguarda il giudice Alexandre de Moraes, invece, i golpisti erano indecisi tra l’arresto, l’avvelenamento o l’uccisione con un attentato dinamitardo, che sarebbe dovuto avvenire il 15 dicembre 2022. La magistratura specifica che il piano si dovette arrestare «quando l’allora presidente della Repubblica, Jair Bolsonaro, non riuscì a ottenere l’appoggio del generale Freire Gomes e della maggioranza dell’Alto Comando dell’Esercito». A quel punto, ai sicari, militari appartenenti ad un reparto speciale delle Forze Armate intitolato “Kids pretos”, già posizionati nei pressi della residenza del giudice e della Corte Suprema, fu dato l’ordine di fare retromarcia. La riunione in cui fu presa la decisione di uccidere le massime cariche dello Stato e il giudice, avvenne nella casa del generale arrestato, Walter Souza Braga Netto. Copie del piano golpista, organizzato nei dettagli, furono stampate all’interno del Palácio do Planalto, la sede ufficiale della Presidenza della Repubblica, da un altro generale, Mário Fernandes, anch’egli arrestato, e portate ad una riunione presso il Palácio Alvorada, la residenza ufficiale del presidente, dove si trovava Bolsonaro. Altre copie sono state trovate nella sede del suo partito, il Partido Liberal (PL), che possiede il maggior numero di deputati e senatori eletti.
Dimesso dall’ospedale Sírio-Libanês di San Paolo, dove si trovava dallo scorso lunedì, a seguito di un ricovero d’urgenza per ridurre un ematoma cerebrale, Lula ha difeso la democrazia e il diritto alla presunzione di innocenza di Braga Netto. «Quello che non ho avuto io, voglio che lo abbiano loro», ha dichiarato, aggiungendo che, dimostrata la colpevolezza degli arrestati, la punizione sia “severa” essendo “inammissibile”, in una democrazia, che “militari di alto grado” pianifichino l’uccisione delle massime cariche dello Stato o di componenti della magistratura.

L’autrice: Esperta di diritto internazionale e scrittrice, Claudiléia Lemes Dias è autrice di vari libri, fra cui Le catene del Brasile (L’Asino d’oro edizioni)

Nella foto: Il ministro della difesa Braga Netto e il presidente Bolsonaro, 22 febbraio 2020 (Di Palácio do Planalto)

Senza nemici sono nulla

Cronaca di una giornata alla Camera dei deputati che tra qualche anno rileggeremo sorridendo amaro. 

Ieri Giorgia Meloni è intervenuta di fronte al Parlamento per le comunicazioni in vista del prossimo Consiglio europeo. A differenza delle conferenze stampa – ormai sono un vago ricordo – la presidente del Consiglio è costretta alla tappa. Dovrebbe rispondere ma non ne ha il talento, quindi, al solito, lancia strali. 

In Aula ci sono pochissimi leghisti. L’esser sparuti nelle occasioni doverose è il loro modo di lanciare segnali politici agli alleati. Roba da bisticci tra bimbi. Il fedelissimo meloniano Giovanni Donzelli ci invita alla comprensione. «È martedì mattina», dice. E questo fa il paio con i ministri che vorrebbero l’aumento. Sputare sui lavoratori è un loro innato talento.

Meloni difende il suo progetto di deportazione in Albania. Come? Accusando l’opposizione di essere invidiosa dei risultati che sarebbero potuti arrivare. La strategia è contorta perfino nella frase che la descrive.

Meloni balbetta la difesa sugli aumenti ai suoi ministri tirando fuori Beppe Grillo e gli sperperi degli altri. Il suo vice, Matteo Salvini, è un tizio che ha rateizzato 49 milioni di euro di soldi pubblici in 80 anni. È l’impunità di cui si dice nella novella della pagliuzza e la trave nell’occhio. 

Poi Meloni finge di rispondere al Pd parlando di “macumbe” e di “vodoo”. Al suo fianco c’è un ministro, Valditara, ripreso persino da Mattarella per la querela facile contro Nicola Lagioia e l’autore di questo pezzo. 

Nessuna risposta, molti nemici. Onore pochissimo. 

Buon mercoledì. 

Un congresso per dare consigli al capo

In un clima di disinteresse generale il capogruppo al Senato della Lega Massimiliano Romeo è stato eletto segretario della Lega lombarda, in vista del congresso nazionale che Matteo Salvini ha faticosamente rimandato il più possibile. 

Nella sala di un hotel in zona San Siro il rito dimesso ha rilanciato le ormai antiche obiezioni verso il ministro dei Trasporti: la Lombardia dimenticata, il federalismo ormai stanco e soprattutto le cosiddette istanze del Nord che da queste parti sembrano archeologia politica, un amarcord dei tempi che furono. 

Dei tre candidati iniziali ne è arrivato solo uno alla meta. L’ex deputato Cristian Invernizzi, più vicino alla base tradizionalista del partito, si è ritirato definendo il congresso “una farsa” e lanciando strali contro Salvini. Luca Toccabili, deputato e coordinatore federale della Lega Giovani, considerato vicino al segretario federale Matteo Salvini, ha deciso di ritirarsi per “favorire l’unità del partito”. Così alla fine è rimasto un candidato unico, come Salvini auspicava, e il passaggio è stato indolore. 

L’elemento più interessante è però l’annuncio di un congresso nazionale che avrà solo carattere “programmatico”. Detta in parole semplici Salvini sta apparecchiando un’occasione senza possibilità di mettere in discussione la sua leadership che da quelle parti veleggia indisturbata da ormai 11 anni. 

Candidamente Salvini ammette che la democrazia nel suo partito si risolve in consigli al capo. Non male.

Buon martedì.