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Le tele parlanti di Antonino Saggio raccontate da Franco Purini

S. Caterina di Antonino Saggio

Antonino Saggio è un teorico dell’architettura, il che rende solo in parte la cifra di un lavoro posizionato in una terra di confine tra information technology e architettura. Da questo osservatorio propone e sperimenta, in quanto coltiva una dimensione laboratoriale che da anni si estrinseca nell’attività della sua cattedra a Sapienza e nel Sicily Lab, modelli teorici tesi ad affrontare quelle che definisce “crisi”, faglie aperte nello spazio sociale. Possono riguardare gli Urban voids romani o un intervento fondato sul recupero del Tevere e della sua infrastruttura viaria o la ricucitura del legame tra un antico insediamento greco (Gioiosa Guardia) e uno contemporaneo (Gioiosa Marea).

Dona e Lele di Antonino Saggio

Il metodo coincide con la ricognizione sulle stratificazioni, dal digitale, alla storia dell’architettura (ove prevale la predilezione per l’organicismo e il razionalismo del suo maestro Zevi), allo scandaglio di tutto ciò che di nuovo si muove sulla scena dell’architettura, con un occhio particolarmente attento anche a quel che si muove Oltreoceano.

Osservando dall’esterno il suo lavoro, mi sembra che il concetto prevalente sia quello di connessione/intersezione. L’architettura come una delle attività attraverso cui sviluppare relazioni, non limitate agli umani, il cui scopo è il contributo alla creazione di forme di vita nuove; gli architetti partecipano, come gli artisti, i poeti, i filosofi, all’edificazione di quest’opera collettiva dell’umanità. Di qui la sua predilezione per il flusso che è estensione della piega del barocco, allegoria di un mondo che si dilata, multidirezionale, contaminato (centrale il concetto di mixité). Per questo una delle sue opere predilette è il Maxxi, un vero e proprio inno alla tessitura, così come i “suoi” architetti non possono essere che i maestri della decostruzione: Eisenman, Hadid, Gehry.

“paesaggio” di Antonino Saggio

Al che si pone una questione. La pittura di Antonino Saggio in che relazione è con la sua idea di architettura? A prima vista, si potrebbe pensare alla scissione tra una dimensione raziocinante, l’architettura, ed un’altra, l’arte, dominata da una sorta di slancio vitale volto a celebrare la natura nel colore; impressione suggerita sia dalla predilezione per l’en plein air, sia dal timbro deciso del colore che nel corso degli anni, si vedano le opere a tema siciliano, trova conferma ulteriore. Il punto di partenza è quasi sempre il paesaggio, su cui si staglia una luce abbagliate connessa a tre colori dominanti: blu, giallo, verde. Il blu, utilizzato in una tonalità chiara, non ha nulla di introspettivo rimanda piuttosto alla forza visiva del mare e del cielo siciliani, il verde è ancora più intenso tanto da non corrispondere né ad un effetto moderatore tra colori caldi e freddi né ad un generico richiamo alla natura come sfondo pacificante. Sull’esempio di Matisse, in queste tele prevale la volontà di vivere con pienezza la relazione con il vivente, fonte di gioia e potenza generatrice. A differenza dell’architettura, la pittura di Antonino Saggio non si inscrive nel flusso, sceglie uno spazio e lo trasforma, ma si muove dentro un come se posto al di fuori dei confini immediati della nostra coscienza quotidiana. Una pittura che scommette sulla vita a partire da un rapporto creativo con quanto ci circonda, poiché grazie all’immaginazione possiamo produrre milioni di paesaggi possibili. Ed è qui che il lavoro di Antonino Saggio sull’architettura e quello sulla tela si incontrano.

Laicità, l’unica garanzia di libertà, giustizia e uguaglianza

L’etica si occupa dell’agire umano. È scienza dell’agire. E come tale permette di giudicare la fondatezza morale delle azioni, perché dà i presupposti formali dell’agire bene. Non è quindi un elenco di norme, ma riflessione sulle condizioni e possibilità che garantiscono l’esercizio della libertà di scelta. L’etica, quindi ci dà i fondamenti (επιστήμη – epistème) che ci permettono di dire se un’azione è buona e giusta.
Ma come facciamo a capire se quel che scegliamo sia più o meno giusto? Ed è questa la questione centrale della complessità e difficoltà della scelta; delle scelte che determinano la nostra esistenza e caratterizzano quel che siamo e diventiamo. In un modo o in un altro… o in tanti altri ancora! Ecco allora che l’etica è davvero una cosa seria.
Ogni azione implica una intenzionalità in vista di un risultato ipotizzato e necessita della volontà per cercare di conseguirlo. L’azione è quindi messa in opera della individuale libertà di scelta. Una libertà che ci fa pronunciare ogni volta un sì, o un no.
Pertanto, anche nelle situazioni in cui magari non vorremmo mai trovarci, comunque scegliamo. Siamo sempre noi i padroni di quella scelta. Scegliere in un modo o in un altro è sempre e comunque un fatto. Un fatto nostro. Ineludibile. E se troviamo più semplice adattarci alla consuetudine, non possiamo rifugiarci nel mantra “del così fan tutti” di cui restiamo in ogni caso complici.
Poiché ogni scelta determina risultati, essa è un atto creativo, con cui strutturiamo il nostro individuale particolare esser-ci nel mondo. Nella successione delle scelte e nelle loro interrelazioni, si determina la realtà esistenziale di ogni persona.
La scelta è il nostro peso e la nostra leggerezza!
Nasciamo per caso. Dobbiamo morire. Tra la casualità della nascita e la certezza della morte, c’è la gestione della vita: in spazi e tempi finiti.
È la mia esistenza a tempo, che non permettendomi di vivere di là del tempo storico-biologico, mi fa assumere la responsabilità del mio particolare esser-ci nel mondo.
La mia individualità diventa così consapevolezza proprio nella responsabilità della mia esistenza, a cui dò forma attraverso la successione delle mie scelte.
Ma poiché nessuno è un’isola, le mie scelte non determinano soltanto chi io sono, ma incidono anche su quanto e quanti mi circondano. E non solo nell’immediato.
Noi viviamo infatti nel mondo. È questa condizione di fatto che implica interazione reciproca di condotte. Ecco allora che scegliendo ho anche la responsabilità per il tipo di società che contribuisco a determinare con le mie azioni.
Poiché la responsabilità non è mai comoda, c’è chi spera forse di potervisi sottrarre ponendosi sotto la cappa consolatoria di modelli già dati. Crede insomma di potersi salvare dalla fatica di scegliere e dalla responsabilità di quello che fa o che non fa, affidandosi alla consuetudine.
È pura illusione! Costui infatti sceglie e come! Sceglie di adeguarsi a una precettistica. E ha la responsabilità di essere portatore di un pacchetto morale che esige conformismo per sé e per gli altri nell’adeguamento a un modello precostituito, assoluto e totalitario a cui fideisticamente aderire.
E lì dove questo accade, c’è il circolo tutto concluso dei replicanti in nome di un qualche supremo Essere. Dove prevale l’Essere dilegua l’esser-ci, perché la pluralità dei possibili dilegua, perché la vita presupposta come “virtuosa” è già tutta sigillata in norme indiscutibili.
Si pensi a quelle stabilite nei così detti libri sacri, di cui per altro si arrogano l’interpretazione i così detti “detentori del sacro”, che hanno cercato e cercano di esercitare un potere di controllo sociale.
Per parlare di casa nostra dove, di fronte alla sempre maggiore riduzione dell’ortodossia degli stessi credenti, l’ecumenismo non demorde: «la Chiesa si interessa agli aspetti temporali del bene comune in quanto sono ordinati al Bene supremo, nostro ultimo fine.» (Catechismo della Chiesa cattolica, canone 2420). Tutto blindato, stabilito, indiscutibile! Così la scelta è risolta nella docilità dell’obbedienza.
Non a caso il religiosissimo Kierkegaard affermava in Timore e tremore che «la fede comincia dove il pensiero finisce», e affogava la singolarità dell’autonomia morale nell’afasia di Abramo pronto a eseguire il “divino ordine” con «infinita rassegnazione».
Abramo è la negazione dell’etica, perché non si interroga su quell’ordine di uccidere suo figlio. La sua fede è il paradosso logico che vanifica l’etica in sé e per sé: «Egli ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo telos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa».
Al contrario, per il laico l’azione non ha la sua giustificazione in un ordine posto sulle ginocchia di un qualche dio, né in un’abitudine e neppure in un capriccio.
La garanzia della bontà dell’azione, ciò che la rende eticamente fondata, è la scelta dell’azione per il fine che ha in sé stessa. È questo che fa buona la scelta. Ed è proprio questo a costituirne il fondamento etico.
Ad esempio: se scelgo di aiutare una persona in difficoltà, la mia azione non può avere scopo altro, fine altro, al di fuori del fatto che ritengo positivo portare aiuto. Lì ed ora.
Del tutto differente è se quell’aiuto io lo elargisco in funzione di un tornaconto, perché magari la persona che aiuto mi potrebbe garantire un premio, o essermi utile in futuro.
Sarebbe allora il premio che ne riceverei, a determinare la mia volontà di agire. E se per avere quel premio dovessi fare l’esatto contrario, lo farei.
È questo utilitarismo il regno dell’eteronomia morale, che proprio nell’uso strumentale dell’azione, ne vanifica la moralità ponendo il fine (telos) al di fuori dell’azione stessa.
Ma non solo! Agendo così, uso strumentalmente anche me stesso, assoggettando la mia scelta ad altro/altri. A un potere esterno, la cui assolutizzazione è proporzionale alla povertà della mia autonomia morale.
La fondatezza della scelta non può allora risiedere nella obbedienza/adeguamento a una autorità infallibile e indiscutibile, dispensatrice di ricompense finanche differite in un qualche immaginifico cielo dopo la morte. Ed è questo il massimo dell’eteronomia, nella subordinazione a precetti codificati da un qualche potere clericale che pretende di averne il sigillo morale.
In nome di assoluti, nell’esaltazione del «Dio lo vuole» l’umanità ha commesso e continua a commettere le peggiori atrocità.
Ed è la stessa logica dissennata di chi eleva un qualche “libro sacro” a legge universale farneticando scontri di civiltà e seminando terrorismo: per imporre al mondo il suo totalitario ordine politico-sociale.
Un mondo dominato dal narcotico di un pensiero unico e di un’univoca morale. Un mondo dove ognuno, in una sorta di automatismo psichico, obbedisce a chi ha stabilito per lui cosa è bene e cosa è male. Una volta per tutte e universalmente.
Così che ogni alterità va eliminata, fagocitata, schiacciata in un totalitario replicante assoluto identitario io, che tarpa e ingabbia ogni esistente.
Al contrario, se si assume come strategia etica il principio laico della verificabilità, è chiaro che ogni segmento della praxis obbliga a continue rivisitazioni nell’io, e alla comunicazione dialogica con ciascun altro io. In una correlazione in cui anche l’io si oggettiva e si vede come un tu.
Solo così l’egoità si apre alla visione degli esistenti possibili. È l’occhio che guarda l’altro occhio di memoria socratica (Platone, Alcibiade I), e specchiandovisi vede sé stesso non per cercare replicanti, ma per rendere realistico quel conosci te stesso (γνῶθι σαυτόν – gnōthi sautón), che non a caso nel mondo greco era anche augurale saluto a cercare di conseguire comune saggezza e serenità: nel sistematico esercizio di dubbio e scelta: radici laiche della democrazia. Nel reciproco riconoscimento che, come Kant affermava nella Fondazione della metafisica dei costumi: «non possiamo essere costretti da altri a nulla più di ciò a cui possiamo reciprocamente costringerli».
Su queste basi lo stato liberal-democratico, al controllo sulle coscienze ha sostituito il diritto umano all’autodeterminazione nell’individuazione solidale delle libertà, che divengono accrescimento della comunità dove ogni singolarità si riconosce nel bene comune della laicità, per promuovere prospettive multiple e plurali di esistenza nella pari dignità.
E non a caso il riconoscimento della pari dignità è l’incipit della Dichiarazione universale dei diritti umani che in essa individua il fondamento su cui edificare libertà, giustizia, pace: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
E vale appena ricordare che la Costituzione della Repubblica italiana, promulgata un anno prima (27 dicembre del 1947), pone la pari dignità in corrispondenza dell’uguaglianza in quel formidabile articolo 3 che di essa è pilastro e disegno: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Un articolo questo che è nel contempo di denuncia per quanto c’è da costruire, e di chiamata all’azione nell’individuare le disuguaglianze e all’impegno a spazzarle via.
Si chiama giustizia e uguaglianza, senza le quali la libertà è parola vana. Chi non dispone delle stesse possibilità di sviluppo, non ha infatti lo stesso potere. Infatti, chi si vede negate le pari opportunità per la sua emancipazione individuale e sociale, si vede negata anche la pari dignità.
E contro tutto questo, la nostra Costituzione fonda la parità di cittadinanza democratica, vincolando alla rimozione degli ostacoli che ne siano d’impedimento. Solo così la pari dignità si fa strada nel dovere sociale della realizzazione della paritetica ed equipollente uguaglianza.
È in questa prospettiva che la dignità di ciascuno diviene bene irrinunciabile per la società, e su questo bene comune si diventa costruttori di democrazia.
La giustizia sociale, la lotta ai pregiudizi, agli stereotipi, al conservatorismo reazionario di chi sogna mondi patriarcali e società gerarchizzate e razziste, è incardinata in questo caposaldo costituzionale per far sì che ognuno sia pienamente padrone della propria vita.
È infatti l’individuo storico concreto a essere portatore di dignità. Perché ricongiunto alla sua corporalità. E in questa si pensa sceglie agisce.
È il suo habeas corpus che riporta l’attenzione sull’individuo nella sua fisicità: proprietario del proprio corpo: unicità storico-biologica della singolarità contro assolutistici moduli cui adeguarsi.
Un habeas corpus che implica il diritto all’autodeterminazione e con esso il riconoscimento giuridico di individualità uniche e diversificate come legittimazione stessa della democrazia di cui la laicità diviene anima e motore.
Infatti, se l’astrazione di individuo ha costituito il presupposto del principio giuridico dell’uguaglianza tra gli individui, è nella riappropriazione della propria corporalità che si è fatta strada la consapevolezza del diritto di ognuno di sviluppare autonomia esistenziale nel principio laicità.
Allora, se da una parte possiamo e dobbiamo dialogare per edificare la civile e pacifica convivenza democratica; dall’altra, dobbiamo avere il coraggio dell’intransigenza contro la pretesa totalitaria di chi vorrebbe far coincidere i diritti umani con i doveri confessionali con relativa imposizione di usi e costumi incompatibili con la democrazia.
Laicità quindi non è neutralità, ma forza e garanzia per un’organizzazione sociale a vantaggio di tutti. È qui che oggi si gioca la partita fondamentale nel creare l’appartenenza nella cittadinanza. E la si vince quando lo Stato diviene luogo dell’incremento dei diritti umani sul cui maggiore o minore ampliamento si giudica l’affermazione di quella dignità individuale e sociale, che oggi si declina anche in termini di accesso alle nuove dimensioni biologico-sanitarie e a quelle scoperte scientifiche e applicazioni tecnologiche che permettono sempre più di essere padroni della propria esistenza senza arrecare danno ad altri.
Pertanto, fondare all’insegna della laicità l’interrelazione umana è quanto mai urgente per contrastare chi, col proibizionismo della norma ad una dimensione, impedisce di sottrarre all’inferno sulla terra sempre più spicchi di esistenza: più libera e giusta.
A conclusione di Le città invisibili, Italo Calvino ci lascia questo ammonimento: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Del resto, come scriveva J. S. Mill in On Liberty (Sulla libertà) preoccupandosi dei danni del conformismo: «Gli individui umani traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio, che dal costringerlo a vivere come sembra meglio ad altri».
Potrebbe essere una buona bussola di orientamento laico. Soprattutto quando il confessionalismo suona costantemente le proprie campane per affermare una omologazione a tutto vantaggio della identitaria cittadella della sua fede.
Qualora questo accadesse, il rapporto tra individuo e Stato sarebbe di discriminazione e non di inclusione nella cittadinanza. Qualche esempio per riflettere insieme.
La castità per il cattolico è sempre viatico di grazia per la conquista del cielo, e il rapporto sessuale è giustificato solo al fine di procreare (Catechismo, titolo II). Il credente faccia pure. Anzi è proprio la laicità dello Stato a tutelarlo in questo.
Ma sarebbe accettabile se si vietasse o boicottasse l’uso degli anticoncezionali in omaggio al canone 2370: «É intrinsecamente cattiva ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo e come mezzo, di impedire la procreazione»?
E, visto che secondo il catechismo ogni donna sarebbe strutturata nell’ontologia del modello del fiat mariano, dobbiamo eliminare le leggi sull’interruzione volontaria di gravidanza? Già per altro minata – in ossequio al Vaticano – dall’introduzione dei medici obbiettori. E ancora, se il catechismo cattolico continua a definire l’omosessualità oggettivo disordine morale (canone 2357), e invita gli omosessuali a vivere nel «sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (canone 2358), cosa dovrebbe fare lo Stato democratico? Aiutarli ad espiare escludendoli dall’accesso ai diritti?
E se il confessionalismo dominante diventasse quello di un altro gruppo che impone l’escissione ai genitali delle bambine? Fornire un servizio medico che garantisca questa barbarie? Oppure continuare a chiudere occhi e cervello di fronte al fatto che indossare il velo – bandiera dell’islam politico – è segno patente della sottomissione delle donne? E non è falsità continuare col mantra che hijab, burka, chador – o come altro si vuole chiamare il velo islamico – sono le stesse donne a indossarli?
Ma dopo secoli e secoli che una tale abitudine è inculcata fin dall’infanzia, ce la sentiamo onestamente di poter affermare che non è il risultato ancora più subdolo con cui si maschera l’indottrinamento per scelta personale?
Usi e costumi non sono eterni e non possono essere utilizzati come ipocrita accondiscendenza verso i Paesi islamici, per il fatto che abbiamo con loro interessi commerciali. Paesi dove oggi c’è un grande fermento, in particolare delle donne, per conquistare libertà e autodeterminazione, opponendosi alla tirannide della sharia che identifica norma religiosa con legge statale.
Ecco allora che tenere la barra ferma sulla laicità, garanzia di libertà giustizia uguaglianza e quindi motore di emancipazione dalla soggezione, non solo serve a contrastare il patriarcato di casa nostra, ma aiutare l’accesso alla parità di quelle “immigrate” che cercano di uscire dalla “segregazione amichevole” in cui sono tenute dal clan religioso-familiare.
I detentori degli Assoluti ci accusano di relativismo morale. Ma, a pensarci bene: rinserrarsi in gabbie di enunciati, sottratti ad ogni dimostrabilità e riscontro, ma spacciati come veri per fede, non è il massimo del relativismo?
A chi ancora oggi pretende di porre come essenze immutabili una costruzione di modelli comportamentali ancorandoli alle idee assolute di Dio – Anima – Mondo, bisogna ricordare che il fondamento di tutto questo è solo mera concatenazione di supposizioni, che per il fatto di essere pensate e assolutizzate non possono avere automaticamente garanzia di essere vere. Si tratta di enunciati, di connessioni linguistiche sigillate nella fede.
Ma i paladini del confessionalismo morale non vogliono accettare che sempre più individui possano prendere coscienza, che attraverso gli assoluti morali si perpetuano i rapporti di potere dominanti!
Una presa di coscienza che nella modernità, inizia a imporsi con la rivoluzione di quel Sapere aude: «Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!» con cui Kant sintetizzava l’importanza dell’Illuminismo. Che alla consuetudine dell’ordine costituito sulla cieca obbedienza contrapponeva l’uso pubblico della ragione per affermare in un’Europa ancora imbrigliata di medioevo il coraggio della ragione.
Iniziava, come si suol dire la separazione tra leggi umane e leggi divine, sottraendo così al precetto il ruolo di ordinatore del mondo. Mentre in parallelo secolarizzazione e laicizzazione si facevano strada contro la norma a una dimensione per fare spazio alla discussione e relatività delle norme.
Relativismo e secolarizzazione non sono allora il “demoniaco” da rifuggire, ma la constatazione che proprio dalla liberazione degli assoluti si può produrre una società più giusta. Dove finalmente, potremmo riappropriarci del significato originario della parola ethos, come «posto del vivere concreto», per essere creatori di norme che garantiscano a tutta la comunità sempre migliori possibilità di convivenza democratica, nel patto laico di cittadinanza che la garantisce. Dove, nessuno può pretendere che i principi morali di una qualsivoglia chiesa vengano trasformati in precetti ispiratori del Diritto. Quando questo accade, si crea un corto circuito di tale portata che anche la democrazia ne è fulminata.
Ecco allora l’importanza della tensione dubitativa, che guarda ovunque e scopre l’inusuale: nell’esercizio alla curiositas di una mente che si affaccia sul mondo senza fini precostituiti. Nella forza di un pensiero che sa porsi di traverso contro il bieco utilitarismo che vuole servi consenzienti.
Allora si scopre il turbamento di quel pensiero che è agitazione, turbinio di idee, contrasto, contraddizione. Pensiero che diverge. Che ci spinge a intraprendere altre strade, anche quando sembra impossibile che ve ne siano, oltre quelle rassicuranti che ci tengono nell’eterna minorità mentale, invischiati e narcotizzati nella massa acquiescente.
Ora et labora, si diceva all’uomo del medioevo, così non contraddiceva il precetto e non peccava. Produci e compra, ci dice un turbocapitalismo dove tutto è merce nel meccanismo denaro-potere-denaro, mentre avanza la pulsione al livellamento del riduzionismo culturale: affinché la ragione divenga, come già denunciavano Horkeimer e Adorno «un semplice accessorio dell’apparato economico onnicomprensivo».
Eppure possiamo dire: «No. Non è così!»; «No. Voglio un’altra cosa!». Per questo occorre riappropriarsi della concretezza del pensiero.
Noi ragioniamo per idee, “vediamo” con le idee. Atto fisico di intellezione. Ricordate l’Odissea, quando Ulisse torna a Itaca ed è riconosciuto dal suo cane Argo? Il verbo greco che Omero usa è noeìn (νοεῖν Odissea, XVII, 301) ed esprime l’azione dell’intellezione.
Argo non è ingannato come tutti gli altri dal travestimento di Ulisse. Argo connette intelligentemente la realtà fisica col pensiero e nella sua mente si configura l’idea di come stanno effettivamente le cose. L’idea che ne scaturisce è risultato del nesso tra realtà e rappresentazione mentale di ciò che è. Pensare e pensarci nella nostra fisicità apre al nesso tra pensiero e azione nell’assunzione della responsabilità per quel che affermiamo e facciamo.

L’autrice: Maria Mantello è giornalista e saggista, presidente della Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno”. Tra i suoi saggi, “Sesso Chiesa Streghe (Fefé editore 2022)

Nord di Gaza. L’ospedale Kamal Adwan ridotto in cenere

Un’altra alba, un altro orrore: il nord di Gaza si è svegliato prigioniero di un incubo che si ripete ininterrottamente. L’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya, un luogo che dovrebbe incarnare speranza e guarigione, è stato trasformato in un campo di distruzione e umiliazione.

Quando il sole era appena un’idea dietro l’orizzonte, il rombo dei mezzi corazzati israeliani ha squarciato il silenzio. Accompagnati da droni che volteggiavano come predatori in cerca di prede, i soldati hanno circondato il complesso sanitario. Quattro ordigni piazzati attorno all’ospedale sono esplosi con un boato che ha piegato l’aria. Le fiamme, come serpenti, si sono insinuate tra i corridoi e le sale operatorie, divorando tutto: letti, strumenti medici, frammenti di vite.

Alle 7:15, il comando è arrivato tramite altoparlanti: evacuare. Il direttore dell’ospedale, il dottor Hussam Abu Safiya, ha avuto appena quindici minuti per svuotare ogni stanza, per convincere chi non poteva nemmeno reggersi in piedi a lasciare quel fragile rifugio. Quindici minuti, come se il tempo potesse misurare la dignità umana. Pazienti seminudi trascinati fuori al freddo, medici e infermieri umiliati, i loro volti schiacciati da una forza che sembra dimenticare cos’è l’umanità.

È difficile immaginare un livello più profondo di disumanità. Video e immagini, che già inondano i social come grida disperate, mostrano malati inermi spogliati anche della loro dignità, trascinati via verso un ignoto che profuma di paura. Ma l’orrore non è iniziato oggi. Per settimane, il Kamal Adwan era già stato ridotto a un simbolo di resistenza morente. Le scorte di medicinali erano finite, e anche l’acqua potabile si era trasformata in un miraggio. Ogni giorno era una battaglia per strappare alla morte chi si aggrappava a un filo di speranza.

Il giorno precedente, un assalto preliminare aveva già incendiato parte della struttura, ma il personale aveva continuato a lavorare. Una lotta contro l’impossibile, spinta da un senso del dovere che nessuna bomba era riuscita a cancellare. Fino a questa mattina. Le ambulanze inviate sul posto non sono più tornate, e i contatti con l’ospedale sono stati interrotti. L’unico messaggio è il silenzio. Un silenzio che urla.

Il Kamal Adwan, ora ridotto a cenere, è un simbolo tragico di una terra assediata, un luogo dove la sopravvivenza stessa è un atto di ribellione. Non si combatte solo contro le bombe, ma contro l’assenza di tutto ciò che rende la vita possibile: cibo, acqua, cure mediche, sicurezza.

Hani Mahmoud, giornalista palestinese, racconta che il dottor Abu Safiya è stato minacciato di arresto, mentre osservava impotente il suo ospedale bruciare. Le fiamme erano visibili da chilometri di distanza, come un monito macabro. Ogni mattone distrutto è un colpo inferto non solo a Gaza, ma all’intero corpo lacerato dell’umanità.

Eppure, ciò che resta impresso è l’immagine di quei volti, sbiaditi e sofferenti, che la nostra mente è costretta a immaginare. Camici bianchi di medici che, fino all’ultimo respiro, hanno cercato di salvare vite. Persone reali che probabilmente dimenticheremo troppo in fretta, inghiottiti dalla voracità della nostra indignazione momentanea. Scrolliamo un video, scriviamo un commento, e poi torniamo alle nostre vite. Ma Gaza brucia ancora.

Questo è il paradosso del nostro tempo: un mondo connesso eppure distante, dove la sofferenza può essere osservata in diretta, ma è sempre qualcun altro a doverla vivere. Mentre leggiamo, mentre guardiamo, mentre ci indigniamo per un istante, una parte del mondo continua a bruciare sotto le bombe.

l’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce

Il neoliberismo globale, che fallimento: solo nuovi conflitti

Gli anni Novanta del secolo videro la piena affermazione dell’ideologia neoliberale. L’Unione Sovietica si era dissolta e i governi di ogni colore, dall’Europa agli Stati Uniti ai Paesi in via di sviluppo, liberalizzavano, privatizzavano e riducevano le protezioni sociali. In questa ideologia non vi era solo una concezione dell’efficienza economica, ma anche un’idea di socializzazione: contrapposto al potere dei governi e delle istituzioni, il mercato era visto come il terreno privilegiato per lo sviluppo delle libertà individuali, peraltro in linea con un’antropologia, priva di riscontri oggettivi, che fa risalire al “selvaggio barattante” dell’alba dell’umanità il comportamento finalizzato all’utile economico. Realizzando l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani nella democrazia e nell’ordine di mercato, si sarebbe raggiunta nientedimeno che la “fine della storia”. Ciò non significa, sottolineava Fukuyama nel suo saggio del 1989, che non ci sarebbero più stati fatti storici, ma non ci sarebbe più stata contrapposizione tra diverse forme di convivenza umana. All’insegna dei valori dell’Occidente, la mercificazione delle relazioni umane avrebbe avuto una valenza universale, scongiurando così il rischio di conflitti su larga scala tra le nazioni.

Nel 2001 la Cina entrò nell’Organizzazione mondiale per il commercio. Oltre a favorire la delocalizzazione e a mettere i lavoratori dei Paesi avanzati in competizione con quelli mal pagati e privi di protezioni sociali della Cina, l’idea era che anch’essa, come la Russia, avrebbe aderito al modello sociale dell’Occidente. Ma la storia non si è sviluppata secondo questa direttrice.

Tra il 2007 e il 2011 l’Occidente è stato investito da una gravissima crisi finanziaria, le cui cause risiedono proprio nell’idea dell’autoregolazione dei mercati. Stati e governi, che secondo l’ideologia neoliberale dovevano restare fuori dall’economia, sono pesantemente intervenuti, e non già per sostenere quelle fasce sociali impoverite dalla globalizzazione e dalla crisi stessa, ma a vantaggio di quelle oligarchie che dalla finanziarizzazione e dalla globalizzazione avevano ricevuto i maggiori benefici. La crisi dell’ordine neoliberale, negli anni, ha prodotto proteste e instabilità politica in importanti Paesi occidentali quali Grecia, Regno Unito, Italia, Francia, Germania e Stati Uniti.

Accanto a questa crisi interna all’Occidente, la Cina ha sfruttato l’accesso ai mercati mondiali non solo per far uscire dalla miseria centinaia di milioni di cittadini, ma anche per competere con l’Occidente in settori innovativi quali i chip ad elevata capacità di calcolo, l’intelligenza artificiale, l’energia solare ecc. La Cina possiede inoltre posizioni decisive nel campo dell’estrazione di numerosissimi materiali indispensabili per le tecnologie più avanzate. Gli Stati Uniti e i Paesi occidentali, pur avendo delocalizzato molte fasi della produzione, al momento mantengono il controllo di alcuni passaggi chiave delle catene del valore più innovative. Ad esempio la Nvidia è all’avanguardia nella progettazione dei processori grafici, ma lascia la loro realizzazione ad imprese collocate a Taiwan, Singapore e nella Corea del Sud. I prodotti finiti, come gli iphone della Apple, sono assemblati in Cina e infine venduti in tutto il mondo. Per portare un altro esempio, l’Asml, società olandese che vende attrezzature indispensabili per produrre i chip più sofisticati, realizza i suoi prodotti assemblando macchinari che acquista dalle più avanzate imprese del mondo. Ma questa globalizzazione dei processi produttivi rende precario per i Paesi di più vecchia industrializzazione il mantenimento del loro predominio tecnologico. Sulla scena mondiale si stanno pertanto delineando due centri di potere: Stati Uniti e loro alleati da un lato; Cina e Russia dall’altro. Ciascuno di essi cerca di consolidare le alleanze con i propri partner e di sfruttare gli strumenti di cui dispone. Gli Stati Uniti hanno dalla loro il controllo di alcune delle tecnologie più avanzate, una potenza militare senza eguali e il dollaro, moneta chiave per gli scambi internazionali. Essi inoltre, tramite le grandi imprese tecnologiche, controllano le reti globali di comunicazione. Seguendo una linea di politica economica che ormai prescinde da chi guida il Paese, gli Stati Uniti cercano di difendere la propria supremazia usando per questa finalità anche regole e istituzioni comuni. Dazi, sanzioni, friendshoaring (cioè spostamento delle produzioni delocalizzate in Paesi amici) sono gli strumenti utilizzati per raggiungere questo obiettivo. La Cina dal canto suo ha sviluppato una capacità industriale che non ha eguali e della quale anche gli Stati Uniti non possono fare a meno. Memore della colonizzazione e delle umiliazioni subite nel passato, essa si è data come obiettivo quello di colmare il gap tecnologico che la divide dall’Occidente. Oggi però essa vede colpiti i propri interessi con dazi commerciali che alterano le regole del gioco, quasi che il libero commercio fosse un valore quando il dominio globale restava saldamente nelle mani dell’Occidente, e possa essere manipolato per mantenere i vecchi equilibri di potere.

Va anche ricordato che la Cina, assieme ad altri Paesi quali Russia e Arabia Saudita, possiede una parte consistente del debito estero degli Stati Uniti, debito accumulato grazie agli attivi commerciali. Essa cerca di usare il suo potere d’acquisto anche per comprare imprese e tecnologie nei Paesi avanzati, incontrando veti e ostilità da parte di americani ed europei. In un sistema di mercato il creditore dovrebbe essere libero di disporre a proprio piacimento dei propri fondi, ma gli Stati Uniti, come si è detto, pongono veti alla presenza cinese cercando di ostacolare in ogni modo l’ascesa del Paese.

Anche la Russia vede l’Occidente usare come arma di guerra i meccanismi economici e finanziari internazionali. Essa, infatti, dopo l’invasione dell’Ucraina si è vista esclusa dai circuiti finanziari ed è stata privata dei fondi accumulati grazie alla vendita delle proprie materie prime energetiche. La potenza atomica della Russia e la potenza industriale della Cina si trovano dunque affiancate nel tentativo di contestare il dominio degli Stati Uniti su meccanismi e istituzioni che dovrebbero definire le regole della convivenza comune.

Venendo all’Europa, è possibile scorgere una similitudine tra i problemi del continente e quelli che attualmente attanagliano l’ordine economico globale. A seguito delle terribili guerre dei primi decenni del Novecento, si è pensato che la colpa di quelle distruzioni fosse nella volontà di dominio degli Stati nazionali. Dunque, per assicurare la pace, sarebbe stato necessario limitare il loro potere costruendo un ordine e delle istituzioni sovranazionali basati sulle libertà economiche. La crisi del progetto europeo è il frutto del fallimento di un’idea di integrazione la quale, piuttosto che far leva su quel “modello sociale europeo” che aveva garantito democrazia e benessere proprio tramite i poteri statali, ha mirato alla sua distruzione. L’idea che l’Europa possa superare le proprie difficoltà e svolgere un ruolo nel mondo aumentando le sue capacità militari – idea espressa da Gentiloni in un’intervista al Foglio del 16.12.2024 – è la lampante espressione del fallimento di quel progetto.

Per concludere, la globalizzazione neoliberista ha prodotto un mondo dove, piuttosto che superare i conflitti, ne sono stati generati di nuovi e di più pericolosi. È fallito non solo un insieme di prescrizioni di politica economica, ma è fallita soprattutto un’idea di uguaglianza che avrebbe dovuto unire tutti i popoli della terra. Oggi non è proponibile né un ordine mondiale basato sulla contrapposizione militare, né è auspicabile il ritorno ad un precario equilibrio fondato sulla minaccia della totale distruzione reciproca, come quello della guerra fredda. L’utopia da perseguire è quella di un mondo rispettoso delle diversità di culture e ordinamenti, ma governato da principi universalmente riconosciuti. Questi principi, certo, devono comprendere la regolazione delle dispute e degli squilibri commerciali, ma devono presupporre un’idea di umanità che vada oltre quel “selvaggio barattante” su cui sono fondati la teoria economica e le prescrizioni politiche neoliberali.

L’autore: Già docente di economia politica, Andrea Ventura è autore di numerosi saggi, fra i quali “Il flagello del neoliberismo” (L’Asino d’oro edizioni). Per la stessa casa editrice ha curato il saggio “Pensiero umano e intelligenza artificiale”.

Il Parlamento come buffet: la manovra è servita

La manovra approda al Senato. 30 miliardi di euro previsti per il 2025, che potrebbero essere già licenziati domani, giusto in tempo per preparare le valigie e spedire i nostri valorosi parlamentari alle mete turistiche dove trascorrere il Capodanno.

La pantomima è iniziata il 23 ottobre, perfino in linea con i tempi. Questi due mesi sono trascorsi tra i bambineschi litigi della maggioranza per rivederne insignificanti particolari utili solo per la propaganda. Una discussione grave, ma mai seria. Sugli ordini del giorno, i partiti di governo si sono sfidati sulle mance di contorno, come gli affamati invitati quando si buttano sul buffet.

Nessuna discussione sulla reale efficacia delle misure è stata messa in discussione da diversi analisti, vaghe risposte sulla mancanza di misure a sostegno della povertà, nessuna spiegazione sulla prevista “bastonata” al ceto medio, e soprattutto l’intoccabile privilegio degli straricchi.

In commissione al Senato si è discusso della manovra per quindici minuti, poi si è deciso di portarla in Aula. Ovviamente la votazione sarà blindata: nessuna modifica è consentita, e all’opposizione verrà lasciato giusto il tempo di fotografare le proteste per offrirle ai giornali.

Il governo Meloni è l’ennesimo a trattare il Parlamento come un’appendice burocratica da cui si pretende solo sveltezza per ratificare decisioni già prese. Giorgia Meloni, quand’era all’opposizione, lamentava la “mancanza di democrazia” e lo “svilimento del Parlamento”. Sono solo ruoli in commedia. Anche quest’anno la manovra finanziaria è un capolavoro di ragioneria passato sopra le teste della politica.

Buon venerdì.

Pablo Picasso, genialità senza confini

Sebbene avesse anni 30 nel 1914, non ha prestato servizio militare nel nostro Paese durante il conflitto…  Si è fatto una posizione che gli ha consentito in qualità di “pittore sedicente moderno” di guadagnare milioni  e di acquisire la piena proprietà di un castello nei pressi di Gisors, ma ha continuato a coltivare idee estremiste pur orientandosi verso il comunismo». Così la polizia francese “schedava” e teneva d’occhio Picasso. E non si trattò di un solo episodio.

Con uno sguardo nuovo, attento alla storia sociale dell’arte, la mostra Picasso, lo straniero, fino al 2 febbraio a Milano, offre molti spunti inediti per rileggere l’opera del genio malagueño che per tutta la sua vita, nonostante la fama, visse da straniero in Francia, sempre sotto lo sguardo coercitivo della polizia francese e quello negante dell’accademia. Picasso tre volte outsider, perché spagnolo senza cittadinanza in Francia, perché artista di avanguardia, perché fondamentalmente anarchico e poi comunista. Ma che al contempo seppe fare del suo essere straniero una personale identità di ricerca.

Su questo ci dice molto la mostra in Palazzo Reale. Un luogo scelto non a caso poiché nel 1953 ospitò Guernica per volontà dello stesso Picasso come auspicio di pace duratura.

Pablo Picasso (1881 – 1973). La Baie de Cannes Cannes, 19 aprile 1958 – 9 giugno 1958 (C) Succession Picasso by SIAE 2024

Curata da Annie Cohen-Solal e Cécile Debray, Picasso, lo straniero intreccia storia e arte e ci interroga riguardo al presente e alla xenofobia di un’Europa che respinge i migranti e di una Italia che nega anche la cittadinanza a molti giovani con background straniero, nati e cresciuti qui.

Ne abbiamo parlato con Annie Cohen Solal, autrice dell’appassionata e innovativa biografia Picasso, una vita da straniero (Marsilio) – 500 pagine che si leggono come un romanzo storico – e curatrice della mostra di Milano: una mostra davvero importante e che, pregiudizialmente, prima ancora che aprisse, è stata attaccata da destra su Libero proprio perché coglie nel segno riguardo al tema dell’arte, della relazione con l’altro e dei diritti umani. «Ho contestato quel servizio di Libero inviando loro una lettera. E mi fa piacere poter rispondere anche qui su Left perché io non posso concepire il mio lavoro senza un impegno politico», ci dice Annie Cohen Solal al telefono.

«Come storica faccio ricerca per far emergere questioni che hanno a che fare con il presente. E il tema dei diritti umani dei migranti ci riguarda da vicino, oggi più che mai», dice la studiosa stigmatizzando come inaccettabili le esternazioni di Salvini e di Vannacci, a cominciare da quelle del generale sulla pallavolista della squadra nazionale Paola Egonu. Ma al contempo bisogna essere attenti a «non sovrapporre passato e presente». E allora torniamo alla storia e in particolare a quella di Picasso e all’immagine inedita che di lui esce da questa esposizione che si apre con la potente rappresentazione di emigrati catalani, rappresentati dal pittore spagnolo come apparivano allo sguardo sospettoso della polizia francese e con il drammatico ritratto dell’amico Carlos Casagemas che si era suicidato a Parigi nel 1901.

Ricevuta per la richiesta per la carta d_identità di Pablo Picasso_archivio prefettura

Annie Cohen Solal dal suo lavoro emerge un’immagine di Picasso molto diversa da quella mitografica, cosa ci può raccontare di più della sua ricerca?

Quello che ho voluto raccontare, documentandolo, è che Picasso non è quel personaggio stravagante, onnipotente e mitico che ci è stato tramandato. Cominciò il suo percorso nell’arte a 19 anni cercando di fare bene il proprio lavoro. Come molti prima di lui (a cominciare da Pietro Vannucci, il Perugino, che si recò a Firenze per farsi strada, di cui racconta Vasari) Picasso giovanissimo si trasferì a Parigi. Il suo fu un viaggio professionale. È un classico: il pittore che lascia la città natale per sviluppare il proprio talento. Picasso, nato a Malaga, sapeva di essere un genio. Pensò che Parigi fosse l’unico posto dove avrebbe potuto far crescere la propria arte. E vi andò per cercare migliori condizioni di lavoro, come fanno tanti migranti.

Il suo approccio da storica come cambia la lettura del percorso picassiano?

Io mi occupo di storia e sono entrata nella materia da un altro punto di vista rispetto a quello dei critici e degli storici dell’arte che perlopiù si occupano solo di estetica. Io penso che l’opera d’arte sia il frutto di una intera vita, non un fatto estemporaneo che compare improvvisamente. L’opera ha che fare con il vissuto profondo dell’artista ma anche con l’ambiente sociale. A questa conclusione sono arrivata affinando strumenti da storica, sociologa, antropologa.

Ed è così che, approcciando Picasso in questo modo nuovo, ha scoperto cose su di lui che altri non avevano visto?

Molti storici dell’arte si sono fossilizzati su questioni per me astratte, come per esempio la datazione del cubismo analitico. A me non importava molto di questi dettagli.

Cosa l’ha incuriosita rispetto alla storia di Picasso, cittadino francese senza cittadinanza?

Mi interessava proprio questo suo status. Picasso all’inizio era uno straniero, schedato come anarchico fin dal 1906; era leader dell’avanguardia cubista ed era attaccato per questo. Era un artista mercuriale che temeva lo Stato francese che aveva confiscato le sue tele cubiste durante la prima guerra mondiale. Si era sentito amputato perché la Francia era xenofoba. Molte ondate di xenofobia attraversarono la Francia dal 1900 fino al 1944. Lui ne fu uno dei bersagli. Ma a ben vedere Picasso non fu mai vittima, navigò brillantemente, perché accanto al suo genio artistico si può scorgere una strategia politica. È questo che ho voluto raccontare.

Copertina del fascicolo di Ruiz-Picasso_archivio prefettura

La sua ricerca di archivio, tradotta nel suo libro inchiesta, Picasso, una vita da straniero, ci ha permesso di conoscere l’odissea che l’artista visse in Francia da giovane immigrato, schedato, guardato con sospetto, costretto a vivere in condizioni di precarietà. Tutto ciò per il solo “crimine di essere straniero”?

È vero che lui visse un’odissea in Francia da giovane immigrato, guardato con sospetto dalla polizia che lo obbligava ogni anno ad andare a rinnovare la carta di soggiorno. Una odissea continuata anche molti anni dopo. Nonostante il successo, Picasso non fu mai del tutto accettato e integrato. I musei francesi rifiutarono a lungo le sue opere.

Lei ha scoperto il rapporto della polizia per il quale fu rigettata la richiesta di naturalizzazione che Picasso aveva avanzato nel 1940 quando rischiava la vita in quanto repubblicano e anarchico. Un misto di xenofobia e invidia o cosa altro spinse il poliziotto Emile Chevalier a stilarlo? Ci mise del suo o rappresentava un diffuso modo di pensare?

Direi entrambe le cose. Il fatto più scandaloso è che fosse un poliziotto qualunque ad avere un potere così esorbitante nel contestare a Picasso il fatto di aver vissuto “tranquillamente” durante gli anni di guerra. Chevalier lo addita come «questo straniero». E lo fa quando era già il più grande pittore del Novecento. Sei mesi prima era stato indicato dal direttore del Moma di New York come il genio del secolo. Ma questo è lo sguardo annullante della polizia: ti trasforma in ciò che tu non sei. Jean-Paul Sartre parlava dell’altro che ti impone un’immagine che non è la tua. È una forma di essenzialismo, perché tu devi diventare ciò che vuole lo sguardo altrui. Non ha nome mai lo straniero! È questo è inaccettabile, sia che si chiami Picasso o con altro nome.

Intanto nonostante il clima di ostilità Picasso continuava a fare ricerca?

Non smise mai. Penso però che il periodo più bello della sua vita per quanto riguarda la ricerca sia stato quello del cubismo, dal 1907 al 1914, quando collaborò con Georges Braque reinventando il vocabolario della pittura e della scultura, superando i limiti accademici. Picasso sentiva tutto, capiva tutto. Sapeva di Einstein e della relatività, sapeva di Bergson e della sua concezione del tempo in relazione al vissuto, sapeva delle novità del cinema, della letteratura, per non dire dell’arte. Ma avvertiva anche il precipizio della vecchia Europa che stava crollando.

Troppo perché fosse accettato?

Se parliamo della Francia, al fondo, a mio avviso, è sempre rimasta una monarchia. All’epoca di Picasso dominavano due istituzioni fortissime: la polizia anti stranieri che controllava i confini e l’accademia delle belle arti che difendeva la purezza del gusto francese contro l’avanguardia. Da questo punto di vista Picasso era senza appello, perché non solo era uno straniero, ma anche un artista di avanguardia. Quando non aveva alle costole la polizia, incontrava il muro dell’accademia. Perciò gli fu negato l’ingresso nei musei francesi. Basti dire che solo due musei prima del 1950 avevano un paio di sue opere, che lui gli aveva regalato. I musei francesi perlopiù estremamente tradizionali si erano rifiutati di integrare l’arte di Picasso nelle loro collezioni.

Come ha smascherato il poliziotto Chevalier?

Intanto mi lasci dire che sono stata molto contenta di esserci riuscita. Su un documento che sbarrava la strada a Picasso c’era una firma, ma non si leggeva. Grazie all’aiuto di un amico specialista di storia amministrativa della polizia siamo risaliti al suo nome. Rivelatore è il dossier a carico di Chevalier: era così razzista, così petenista che fu epurato. Ma ho scoperto anche che era un pittore mediocre, tradizionalista, che vendette le sue tele ai nazisti.

In questo scoop l’ha aiutata la sua formazione in sociologia della vita quotidiana?

Ho studiato storia con percorsi tradizionali, ma poi mi sono formata anche in America con Erving Goffman che si occupava anche di micro sociologia della vita quotidiana. Mi interessano i segni deboli, che in realtà dicono molto. Un po’ come Carlo Ginzburg con il suo paradigma indiziario.

Pablo Picasso, La Mort de Casagemas (C) Succession Picasso by SIAE 2024

E il primo indizio è stato il ritratto picassiano dei catalani ora incipit della mostra?

Li rappresenta come tipi poco raccomandabili, che non inviteresti a casa. Picasso ci restituisce creativamente lo sguardo che posava su di loro la polizia. I catalani emigrati gli dettero le chiavi di Parigi ma furono anche coloro che involontariamente accesero gli sguardi della polizia su di lui, perché ne condivideva il destino. Uno straniero non ha scelta, dove va se non conosce nessuno? Va dagli amici e loro vivono in un quartiere periferico, molto povero. E all’inizio della sua carriera Picasso visse con loro in condizioni molto dure, ma senza mai lamentarsi. Non fece mai sapere a nessuno nemmeno della richiesta di naturalizzazione. È un insegnamento fortissimo. Per questo mi piace Picasso. Una persona non deve mai diventare vittima, mai. Deve rimanere sempre soggetto agens della propria vita, deve continuare la ricerca. È una lezione di vita, una lezione politica.

La particolare sensibilità con cui Picasso scelse come soggetti della sua pittura saltimbanchi, poveri zingari, prostitute deriva anche dall’elaborazione della propria esperienza di vita e in che modo?

La prima parte della vita di Picasso a Parigi è determinata e definita dai suoi incontri. Dopo quello con i catalani tentò strategie di integrazione. La prima cosa che fa? Cambia cognome. Il suo nome di battesimo era Ruiz Picasso Pablo. Sceglie Picasso, il cognomedi origine genovese di sua madre. In Francia c’erano molti Ruiz spagnoli ma erano marchiati come anarchici. Molti di loro erano stati cacciati dalla polizia di Barcellona e si erano rifugiati a Parigi. Gli anarchici erano additati come molto pericolosi perché proprio un anarchico, Sante Caserio, aveva ucciso il presidente della Repubblica francese nel 1894. Per questo Picasso cominciò ad allontanarsi da loro ma continuò a frequentare poeti, emarginati, gente che condivideva la sua posizione sociale. C’è un interessante filone dei Subaltern Studies in particolare consiglierei di leggere ciò che ha scritto Dipesh Chakrabarty proprio su Picasso.

Dora Maar (1907-1997). Pablo Picasso dipinge Guernica – Parigi, 1937 Succession Picasso by SIAE 2024 – Dora Maar by Siae 2024 (high)

Cosa ne emerge in particolare?

Che la prima protagonista della vita di Picasso fu la città di Parigi che si apriva ai creatori, che ne aveva bisogno, ma li controllava attraverso la polizia. C’era questo doppio movimento di cui Picasso era consapevole. In questo quadro divenne amico di Max Jacob e di tanti altri coetanei che condividevano la stessa condizione di marginalità. A Montmartre andavano al circo per vedere i saltimbanchi. Nel 1905 Picasso ne fece il soggetto principe della sua pittura. Ne racconta la bellezza, ma anche la verità, la fatica, la stanchezza, basta pensare al celebre quadro La famiglia dei saltimbanchi conservato alla National Gallery di Londra. A mio parere Picasso è un pittore filosofico. Non rappresenta i saltimbanchi di per sé, rappresenta la xenofobia, è questo il tema del mio libro. Ci rivedo la storia di don Chisciotte, di Ulisse, dei migranti fuggiti, dei profughi che hanno fatto la nostra storia. Siamo noi i loro eredi, di contro ai perbenisti. Picasso nutriva una profonda empatia verso di loro.

La dimensione del nomade, dello straniero che non si sente mai a casa, divenne poi, una volta superati i problemi materiali, una dimensione interna, una identità rivendicata, una scelta di libertà, una dimensione di ricerca nella vita e nell’arte?

È proprio così. E poi senza dire nulla a nessuno decise di lasciare Parigi nel 1955 per andare a vivere nel Sud e non tornare più nella capitale. La Francia è un Paese iper centralizzato, a lui non interessava. Decise di andare a vivere con gli artigiani, fu sempre loro amico e sodale, come lo era stato con i saltimbanchi e altra gente emarginata. Andò a scuola dagli artigiani e divenne il più grande ceramista del mondo. Si tuffò in uno spazio di cultura molteplice, scelse il sud invece della capitale, gli artigiani e non gli accademici, il multiculturalismo contro la rigidità. Così si è reinventato fino a 92 anni.

Il suo interesse verso lo straniero fu una marcia in più che gli permise di rivoluzionare l’arte, per esempio aprendosi all’estetica “antigraziosa” e “irrazionale” dell’arte africana e di altre civiltà?

Ma sì, totalmente, perché lui era curiosissimo. Mise insieme una collezione incredibile di arte africana che ora si trova al museo Picasso a Parigi. Era curioso di tutto, era come una spugna. C’era un aspetto sciamanico nell’arte africana che gli piaceva moltissimo.

La sua continua ricerca del rapporto con il diverso da sé e sconosciuto come si dipanò nella dialettica, talora sanguinosa, con l’immagine e l’identità femminile?

Non possiamo dimenticare che Picasso era un maschio nato venti anni prima del Novecento in una provincia del sud dell’Europa. Aveva la cultura dei maschi del suo tempo e del suo Paese di nascita, niente di meglio niente di peggio. È stato detto da qualcuno che era il Weinstein dell’arte, (mi riferisco al produttore contro il quale si è scatenato il movimento femminista #MeToo). Io non penso che il paragone sia calzante. Picasso non era un violentatore di ragazze. Era ed è una persona che ha avuto molteplici relazioni, ha avuto una moglie tradizionalissima, Olga, e un’amante Marie Therese, con cui ebbe una figlia, di cui si occupò molto. Poi l’incontro con Dora Maar con cui ha fatto Guernica. Ha sempre riconosciuto i figli.

Picasso era attratto dalla poesia in quanto – come la sua pittura – rompe la gabbia della razionalità cercando l’invisibile, ciò che più profondo. Il suo amico Apollinaire, come lei ricorda, profetizzava: «I poeti avranno una libertà finora sconosciuta”. La mostra di Mantova Picasso, poesia e salvezza come declina il rapporto di Picasso con la poesia?

Intorno a Picasso ci sono sempre stati poeti in ondate diverse: prima Jacob e Apollinaire. Poi nella seconda onda, dal 1917, Cocteau, con la terza onda i surrealisti Breton, Éluard e altri. Nella mostra di Mantova risuona la poesia di Prévert “La passeggiata di Picasso”. La facciamo ascoltare con la voce di Yves Montand. E ci sono poesie dappertutto. Nel 1935 Picasso si trovò ad affrontare una crisi enorme e divenne a suo modo poeta: uno che non parlava bene francese, che non l’aveva mai studiato si buttò nella poesia come uno si tuffa nel mare, perché era una nuova forma di espressione in un momento in cui si sentiva bloccato come persona e professionalmente. Allora diventò poeta dada e si può seguire come avvenne questa trasformazione. A questo proposito c’è un suo verso potente che recita «sta nevicando al sole». Si può vedere come cambiò la sua grafia e come nacquero i suoi libri illustrati, a cominciare da quello potentissimo dedicato al Capolavoro sconosciuto di Balzac.

Infine riguardo all’allestimento di Milano, diverso dai precedenti di Parigi e soprattutto da quello di New York alla galleria Gagosian, come lo ha immaginato?

La mostra milanese intreccia opere e storia come a Parigi. Nella galleria Gagosian hanno voluto lasciare fuori la storia, le tele erano presentate su pareti bianche. Qui invece ci sono film, documenti, fotografie, voci. L’ho costruita come un’opera alla Scala, in cui risuona anche la voce della madre di Picasso. Sono orgogliosa di aver trovato le sue lettere. Vorrei che la mostra fosse un’emozione, in certo senso una metamorfosi per ognuno, un percorso da cui uno esce dicendo “ho capito, devo farmi rispettare, devo lottare, devo trovare soluzioni”. Vorrei che fosse una iniezione di vita.

Dal 27 febbraio – 29 giugno  la mostra approda al Museo del Corso a Roma . Con oltre 100 opere con un nucleo inedito dedicato alla primavera romana del 1917

Il nuovo disco di Antonio Faraò per un Natale nel segno della musica del diavolo

Antonio Faraò

L’uscita del nuovo disco del pianista jazz Antonio Faraò ci fornisce l’occasione per fare con lui il punto sul suo attuale momento artistico. Il suo “Christmas Album” si iscrive nella tradizione di riletture inedite di classici (come l’inaspettato disco natalizio di Bob Dylan di qualche anno fa ma che non fu altrettanto memorabile).

Anche nel Jazz, (che i nazisti bollarono come “Musica del diavolo”) anche se meno frequentemente, molti artisti e soprattutto vocalist del passato, si sono cimentati nel genere con risultati alterni. Antonio Faraò, classe 1965, romano di nascita ma milanese di adozione, è un brillante pianista Jazz ben noto soprattutto all’estero e con alle spalle una ormai lunga carriera discografica iniziata negli anni Novanta. Ora si presenta con il nuovo lavoro Christmas Time (Azzurra Music) che vede la partecipazione del cantante Mario Rosini, con la sua calda voce da “crooner” consumato, con Federico Malaman al basso e Max Furian alla batteria. Il disco presenta dieci brani di con nove standard e un brano inedito, in una selezione di grandi classici, rivisitati in chiave Jazz con calde atmosfere e raffinati arrangiamenti.
Come nasce l’idea di questo disco con la partecipazione del cantante e musicista Mario Rosini?

In realtà già qualche anno fa avevo preparato un arrangiamento particolare per “Jingle Bells” in chiave Jazz, inoltre, avevo buttato giù questo pezzo strumentale in chiave gospel e lo stavo suonando durante un soundcheck con il gruppo del grande Benny Golson (parliamo di diverso tempo prima della sua scomparsa), in quell’occasione il batterista Sangoma Everett ne rimase fortemente colpito. Tempo dopo, grazie alla collaborazione con Mario Rosini che ha scritto le liriche, l’album ha preso forma con l’idea di mettere insieme una serie di altri brani alcuni piuttosto noti e tratti dal classico “american songbook” come “Santa Claus is Coming To Town”, “Let it Snow”, “Have Yourself a Little Christamas”, tutti rivisitati e riarrangiati in chiave Jazz.

“Chistmas Time” in particolare si conclude con un tuo spettacolare assolo finale al pianoforte. Come è nato?
Nella parte pianistica di “Christmas Time” mi sono ispirato al grande Kenny Kirkland (il pianista che collaborò a lungo con Sting) con il quale all’epoca avevo stretto una forte amicizia legata alla nostra stima reciproca. In realtà questo è un album basato su un classico un trio Jazz, insieme a me al pianoforte ci sono Federico Malaman al contrabbasso e Max Furian alla batteria, a cui si aggiunge in tutti i brani la voce di Mario Rosini.
Quindi nell’arrangiamento di quasi tutti i pezzi dell’album è venuto naturale riservare un ampio spazio solistico al pianoforte.

E’ la prima volta che incidi un intero album con un cantante?
In realtà, oltre alle numerose occasioni dal vivo, recentemente anche con la cantante Roberta Gentile, non è la prima volta che collaboro in studio con dei cantanti, mi è capitato abbastanza spesso ed in particolare nel mio album “Eklectik”, che si apre a nuove atmosfere funk ed elettroniche, ove, accanto a musicisti come Marcus Miller, Bireli Lagrène e Lenny White, compaiono diverse voci, tra cui quella del rapper Snoop Dog.

“Quando Nascette Ninno” è invece una famosa melodia popolare.
Si tratta di brano popolare antichissimo, quasi il canto natalizio per antonomasia, ben noto come “Tu scendi dalle stelle”. In questo caso è stato Mario a curare l’arrangiamento con il testo ed il canto in lingua napoletana. Penso che ci troviamo di fronte ad un “esemplare unico”, non credo che ci siano stati dei precedenti di rielaborazione di questa canzone in forma jazzistica.

Come pianista ha una solida fama internazionale, hai avuto modo di suonare con grandi musicisti, parliamo un po’ dei tuoi progetti attuali?
Si, ho avuto nella mia ormai lunga carriera l’opportunità di collaborare, sia in studio che in concerto con alcuni grandi musicisti, tra questi alcuni “mostri sacri” come Joe Lovano, Al Jarreau, Marcus Miller, Ivan Lins, Toots Thielemans, Jack Dejohnette, e anche Wayne Shorter, da sempre mio riferimento artistico, con cui ho suonato, purtroppo una sola volta, a Parigi nel 2015.
In particolare tra i pianisti ho un rapporto particolare con Herbie Hancock, che per ben tre volte mi ha invitato come ospite all’International Jazz Day organizzato dall’Unesco il 30 aprile di ogni anno, con la All Star Global Concert nelle edizioni nel 2015, 2018 e 2024, rispettivamente a Parigi, San Pietroburgo e Tangeri.
In queste occasioni ho suonato accanto a grandi artisti come lo stesso Herbie Hancock, Kurt Elling, Branford Marsalis, Richard Bona e Terri Lyne Carrington.

Il tuo recente album “Tributes”, realizzato con illustrissimi ospiti, vuole essere una sorta di omaggio a tutti questi musicisti?
Esattamente, si tratta di un lavoro inciso per la prestigiosa Criss Cross ed uscito nel luglio scorso, con il classico “Piano Trio” rigorosamente Jazzistico, insieme a me ci sono John Patitucci al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria, ed è un autentico tributo a quegli artisti con cui ho avuto uno scambio o un rapporto umano e professionale particolare, e che sono stati e continuano ad essere incessante fonte di ispirazione per il mio lavoro, tra questi senz’altro Benny Golson, con cui sono stato a lungo in tour, McCoy Tyner, Chick Corea e lo stesso Wayne Shorter. C’è anche un brano particolare, dedicato ai bambini siriani, e per traslato a tutti i bambini del mondo che soffrono per la guerra.

Come ti sei trovato insieme a John Patitucci e Jeff Ballard?
John Patitucci e Jeff Ballard costituiscono senza ombra di dubbio il massimo livello che un pianista Jazz possa desiderare come interlocutori privilegiati all’interno del trio.
La scelta di questi musicisti è legata ovviamente al progetto in quanto, sia Jeff che John hanno collaborato per diversi anni con Chick Corea, e John in particolare con l’ultimo quartetto di Wayne Shorter. Non dimentichiamo inoltre che Jeff Ballard è stato per lungo tempo il batterista di riferimento per Brad Mehldau.

Ed il gruppo “McCoy Tyner Legends”?
E’ stato proprio il figlio di McCoy Tyner, a chiamarmi a far parte di questo prestigioso progetto che riunisce alcuni dei musicisti che hanno collaborato a lungo con il grande pianista con cui ho avuto la ventura di suonare stabilmente con una certa continuità.
In questo gruppo ho condiviso il palco on artisti di livello internazionale come il sassofonista Chico Freeman, il trombonista Steve Turre ed il contrabbassista Avery Sharpe.
Siamo stati in Tour in Europa la scorsa estate e recentemente – a novembre scorso – anche in Italia e torneremo senz’altro anche l’anno prossimo.
Infine una domanda “tendenziosa”: come mai un musicista ormai affermato a livello internazionale come te non ha raggiunto ancora la meritata visibilità in Italia?
Difficile rispondere, soprattutto essendo parte in causa in prima persona. Forse a monte c’è un problema per così dire “politico” in senso lato? Da giovane e negli anni passati questo certamente era un problema, ma oggi, arrivato alla soglia dei sessant’anni e con quarant’anni di professione, vado avanti per la mia strada senza curarmi più di tanto della questione. Posso cavarmela con una battuta: “nemo propheta in patria!”.

In tour: Il  16 gennaio Antonio Faraò Trio  suona all’ Alexanderplatz a Roma. Il 19 gennaio sarà a Milano: Antonio Faraò & Guest – 60° Birthday Celebration Concert – Blue Note

 

L’autore: Roberto Biasco è critico musicale e collaboratore di Left

A proposito del “capolavoro” politico di Macron

Mathilde Panot La France insoumise) racconta chi è François Bayrou

Il governo Bayrou è l’ultimo, patetico atto di un teatro politico che non incanta più nessuno. Nato per sopravvivere e non per governare, l’esecutivo porta la firma indelebile di Emmanuel Macron, ormai intrappolato nella sua stessa arroganza. Macron ha scelto la strada più comoda: non una soluzione, ma un maquillage politico, affidando la Francia a François Bayrou, volto già consumato, incapace di raccogliere una sfida che richiede coraggio e visione.

È un governo senza maggioranza e senza idee, pensato per durare qualche mese, non per risolvere le profonde fratture sociali ed economiche del Paese. La destra del Rassemblement National e la sinistra del Nuovo Fronte Popolare, forti della maggioranza parlamentare, hanno già preparato il terreno per bloccare ogni proposta. Eppure, la vera opposizione a Bayrou non è in Parlamento: è nelle piazze, nei quartieri dimenticati, in una Francia che si sente abbandonata.

Macron, al suo secondo mandato, si rivela incapace di evolvere. Prometteva riforme strutturali, ma si è ridotto a difendere un centrismo vuoto, che ormai non rappresenta nessuno. Il governo Bayrou non è solo un fallimento annunciato: è il riflesso della crisi di una presidenza che non ha più nulla da offrire. 

Quando il presidente francese convocò nuove elezioni usando la sinistra per sconfiggere la destra e poi virare a destra per un governo contro i voti presi a sinistra alcuni lo chiamarono “capolavoro politico”. Il capolavoro oggi è l’agonia politica organizzata per tirare a campare. Eccolo il riformismo: trasformismo sempre perdente. 

In foto:La deputata Mathilde Panot (La France insoumise) racconta chi è François Bayrou

Fracturae di Sandro Visca nel segno di Alberto Burri

Una selezione di oltre cento opere presenta la produzione più recente dell’artista abruzzese Sandro Visca (è nato a L’Aquila nel 1944 e attualmente risiede a Pescara). Nella mostra Fracturae, curata da Generoso Bruno e aperta fino al 12 gennaio al Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese grandi tele, opere installative e un’ampia selezione su carta documentano i sessant’anni di attività dell’allievo di Giuseppe Desiato (figura storica della Performance art in Italia, scomparso a 89 anni a luglio di quest’anno a Napoli) il quale nel 1961 aveva promosso la creazione a L’Aquila, del “gruppo 5”, una compagine di cinque artisti (tra cui anche il nostro) che si proponeva di rinnovare in modo radicale il concetto stesso di arte attraverso l’apertura a nuove modalità di produzione e fruizione dell’arte, come la performance e l’happening. L’allora giovanissimo artista abruzzese, che aveva mostrato un talento precocissimo per il disegno (già a cinque anni passava le giornate a dipingere paesaggi e a disegnare personaggi immaginari), nel corso di un settantennio di attività, a differenza del suo maestro, mise al centro della sua produzione artistica l’artefatto e solo occasionalmente diede vita a performance artistiche (lo fece nel 1975, dedicando alla sua performance il film Un cuore rosso sul Gran Sasso, corredato da un volume serigrafico presentato dall’etnomusicologo Diego Carpitella). Ma una cosa da sempre lo ha accomunato al suo maestro napoletano: il rifiuto più completo delle dinamiche del mercato dell’arte.
La mostra Fracturae copre un arco temporale vastissimo (la prima opera risale al 1962 e l’ultima al 2024) e rappresenta quindi un’opportunità unica per conoscere l’intera parabola di un grande artista negli oltre settant’anni della sua attività. Si passa dalle prime opere su carta e cartoncino degli anni Sessanta, nei quali il giovane Visca appare in cerca di un proprio mondo figurativo, alle prove più mature, nelle quali si possono intravedere i contorni di una figurazione personale.
Quando nel 1961 visita la mostra di Rothko a Roma ebbe modo di vedere da vicino alla Galleria Nazionale d’arte moderna le opere di Alberto Burri, allora al centro di una feroce polemica (l’acquisto di alcune opere dell’artista umbro voluto dalla direttrice Palma Bucarelli nel 1959 aveva scatenato una feroce campagna di stampa). L’incontro con Burri (che qualche anno dopo il nostro conobbe personalmente) fu decisivo per orientare il giovane abruzzese verso l’uso di materiali cartacei di recupero, stoffe, stracci, vinavil, smalti, ferri saldati ed altri elementi tratti delle sfere più disparate della vita quotidiana. Nel 1964 la sua mostra personale al Salone del “Grand Hotel et du Parc” dell’Aquila suscita una forte disapprovazione da parte del pubblico locale. Anche a causa di una crescente incompatibilità con l’ambiente aquilano, si trasferisce in seguito a Roma, pur continuando a partecipare a mostre e iniziative artistiche in Abruzzo. Fu notato dal critico Enrico Crispolti, curatore di tre edizioni di “Alternative Attuali” (una manifestazione d’arte internazionale che si svolse a L’Aquila) nel 1962, 1965 e 1968 e della mostra Aspetti dell’arte contemporanea, iniziative che contribuirono a rendere il capoluogo abruzzese un importante punto di riferimento per il panorama artistico nazionale e internazionale in quegli anni (il critico, scomparso nel 2018, ha scritto su Visca in molti cataloghi).
Nel 1968 l’artista abruzzese decide di lasciare Roma e i rapporti operativi con Milano e si trasferisce a Pescara dove nella Sezione Accademia del Liceo Artistico gli viene assegnata la cattedra di Discipline pittoriche. Qui, lontano dai meccanismi del potere della critica e del mercato dell’arte, trova la misura operativa consona alla sua esigenza di essere e di esistere fuori da tutti gli schemi, lontano dai meccanismi del potere della critica e del mercato dell’arte. L’anno successivo diventa collaboratore artistico del Teatro Stabile dell’Aquila e, in occasione della XXIV Festa del Teatro a San Miniato, realizza le scene di Alberto Burri per lo spettacolo L’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone con la regia di Valerio Zurlini. In questa circostanza l’incontro con Burri si tramuta in una vera amicizia. Nonostante questi fosse un uomo notoriamente schivo, spesso invita Visca a Casenove nella sua casa studio di montagna immersa tra secolari boschi di castagni dove i due trascorrono molti pomeriggi a parlare di pittura. Qualche volta l’artista umbro si fa aiutare da Visca a stendere fondi di vernice su alcune sue opere in corso di esecuzione e a preparare i pannelli di cellotex.
Se da una parte molti sono gli elementi che uniscono l’opera di Visca a quella del più fortunato maestro di Città di Castello, dall’altra l’abruzzese mostra di possedere un mondo figurativo personale, che nulla ha a che vedere con quello di Alberto Burri e che sicuramente merita di essere (ri)scoperto. A mio avviso la chiave per (ri)comprendere il mondo di Visca è la “messa in scena”. Mentre le opere dell’artista umbro sono concepite e realizzate “in assenza” di uno spettatore, al contrario, quelle di Visca, specialmente quelle degli ultimi decenni, in modo più o meno implicito, richiedono la sua complicità. A dimostrazione di ciò, l’ossessione per il teatro, che torna in moltissime opere esposte in questa mostra sotto diverse forme: stoffe cucite sulla tela che ricordano costumi teatrali, composizioni di immagini che ricordano quelle di un teatro anche nei titoli (Meccanismi teatrali del 2020, Teatrino invisibile, del 2020, Spectaculum del 2022, Theatre-Z6 del 2020, Residui del grande apparato scenico, del 2020, Teatrino delle nuvole del 2006, Teatrini, del 2016). Anche nel ciclo di opere Segnale la “messa in scena” è uno degli elementi fondamentali (le opere su tela non sono appese al muro ma montate su delle cornici di ferro fissate su delle basi al centro della sala). Sulle tele di questa serie compaiono spesso singole parole (la più frequente è “fragile”) che mettono in risalto, quindi, la domanda di una complicità da parte dello spettatore. Quelle di Visca sono opere concepite e realizzate per mettere in atto un dialogo con lo spettatore e per innescare una riflessione su quei miti del nostro tempo che costituiscono, a loro volta, il tessuto della vita sociale, assurta a fondamento della condizione umana, segnata inevitabilmente dalla fragilità (come testimonia la ricorrente parola “fragile”). “In un mondo frammentato Visca invita a ricostruire una dimensione umana più condivisibile, superando l’indifferenza e la distruzione dei valori contemporanei. Il maestro, simile a uno sciamano, cuce parole, colori e forme, guardando al futuro attraverso le pieghe della storia” scrive giustamente il presidente della fondazione Pescarabruzzo Nicola Mattoscio.
Chi non avesse avuto la possibilità di andare alla mostra (tra l’altro a ingresso gratuito), avrà la possibilità di leggere il catalogo completo corredato da un intervento critico del curatore e un’ampia biografia dell’artista.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore, docente universitario

Tensione tra Israele e Irlanda. Il presidente Higgins: «Una calunnia l’accusa di antisemitismo»

Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar ha comunicato la decisione di chiudere l’ambasciata israeliana a Dublino, “a causa delle politiche anti-israeliane estreme del governo irlandese”. La decisione, il 15 dicembre scorso, ha alzato notevolmente la temperatura dei rapporti fra Israele e Irlanda, forse il Paese europeo nel quale la solidarietà con il popolo palestinese è più forte, a tutti i livelli, dalle cittadine e cittadini comuni fino ai vertici delle istituzioni.

Nel suo comunicato Gideon Saar ha insistito in particolare su tre questioni: la decisione di Dublino di aderire alla causa intentata dal Sudafrica contro Tel Aviv presso la Corte internazionale di giustizia, il riconoscimento dello “Stato palestinese”, con tanto di virgolette, annunciato dall’Irlanda lo scorso maggio, e l’accusa a Dublino di non avere adottato misure efficaci per contrastare quella che ha definito l’impennata dell’antisemitismo in Irlanda.

Nei giorni successivi il ministro degli esteri israeliano è andato oltre, definendo il Taoiseach (premier) Simon Harris “Primo ministro antisemita” ed è arrivato addirittura a bollare il presidente della Repubblica Michael D. Higgins come “bugiardo antisemita”. Va chiarito subito che la decisione comunicata il 15 dicembre non equivale alla rottura dei rapporti diplomatici, che restano formalmente in piedi, ma ovviamente è un passo molto significativo e piuttosto drammatico. E fa seguito, va ricordato, alla decisione presa lo scorso maggio dallo stesso ministro degli Esteri israeliano di richiamare in patria l’ambasciatrice Dana Erlich a seguito del formale riconoscimento da parte di Dublino dello Stato palestinese.

Di seguito qualche dettaglio sui tre punti citati dal ministro Gideon Saar nel suo comunicato. Il primo riguarda la ‘causa sudafricana’. Lo scorso 11 dicembre il gabinetto guidato da Simon Harris ha approvato la decisione di aderire a due cause in tema di genocidio depositate presso la Corte internazionale di giustizia: quella intentata dal Sudafrica contro Tel Aviv e quella del Gambia contro Myanmar per il trattamento dei Rohingya. Nel caso della prima, Dublino ha aggiunto che intende chiedere di ampliare il concetto di genocidio, perché ritiene che un’interpretazione eccessivamente ristretta della definizione favorisca una cultura dell’impunità nella quale la protezione dei civili risulta gravemente compromessa. La decisione era stata anticipata dal Tánaiste (il vicepremier) Micheál Martin lo scorso marzo. Un particolare che può avere ulteriormente irritato Tel Aviv è che la decisione è stata presa da quello che era già di fatto un governo di transizione, incaricato di gestire l’ordinaria amministrazione fino all’insediamento del prossimo esecutivo, a seguito delle elezioni generali che si sono tenute il 29 novembre.

Il secondo punto è relativo al riconoscimento dello Stato di Palestina. La decisione è stata annunciata da Dublino lo scorso 22 maggio insieme a Oslo e a Madrid. In quell’occasione il Taoiseach Simon Harris ricordò come, il 21 gennaio 1919, fu l’Irlanda a chiedere che venisse riconosciuto il proprio diritto a essere uno Stato indipendente: “Oggi usiamo le stesse parole per sostenere il riconoscimento della Palestina come Stato. Lo facciamo perché ‘crediamo nella libertà e nella giustizia come principi fondamentali del diritto internazionale’ e perché crediamo che una ‘pace permanente’ possa essere garantita solo ‘sulla base della libera volontà espressa da un popolo libero'”. Il comunicato conteneva anche una condanna esplicita del “nichilismo” di Hamas e del “barbaro massacro” del 7 ottobre 2023, invocava la liberazione immediata di tutti gli ostaggi e ribadiva, in modo “risoluto e inequivocabile”, il “pieno riconoscimento dello Stato di Israele e del suo diritto a un’esistenza in condizioni di sicurezza e di pace fra i Paesi con i quali confina”.

Il terzo punto sollevato dal ministro Gideon Saar è quello della presunta crescita dell’antisemitismo in Irlanda. A proposito di questo va sottolineato come, non solo nel caso irlandese, l’accusa di antisemitismo venga ormai usata in modo piuttosto spregiudicato da molte figure delle istituzioni e dei media israeliani. Come ha osservato il presidente irlandese Higgins due giorni dopo l’annuncio della chiusura dell’ambasciata israeliana, “insinuare che chi critica il primo ministro Netanyahu sia antisemita è clamorosamente diffamatorio e calunnioso”. Per entrare nel merito, non c’è niente di più indicato che il rapporto del Ministero degli affari della diaspora e della lotta all’antisemitismo pubblicato da Tel Aviv lo scorso novembre. Da questo rapporto emerge che i primi tre Paesi nei quali si è registrato l’aumento più marcato degli episodi di antisemitismo (sia online sia nel mondo reale), nei 12 mesi successivi al 7 ottobre 2023, sono il Regno Unito, la Germania e la Francia, con 44, 39 e 34 casi rispettivamente. Il rapporto specifica che gli episodi gravi (pur senza vittime) sono stati cinque in Francia, due rispettivamente in Germania e nel Regno Unito e uno in Svizzera. In Irlanda se ne è registrato soltanto uno, un’aggressione senza gravi conseguenze a un giovane statunitense di origine ebraica avvenuta nelle prime ore del mattino all’interno di un pub, il giorno dopo gli incidenti di Amsterdam fra tifosi dell’Ajax e del Maccabi Tel Aviv. Come ha ricostruito la polizia, chiamata dalla sicurezza del locale, il giovane, che portava al collo una piccola stella a sei punte, si è sentito chiedere “Sei ebreo?” prima di essere aggredito e percosso. Nel Regno Unito, per fare un confronto, i casi sono stati 5 volte tanti, fatte le debite proporzioni in base ai dati demografici. L’unico vero campanello d’allarme, nel rapporto, relativo all’Irlanda, è un dato estremamente alto di post online il cui contenuto viene definito antisemita. Tutto questo, è bene ricordarlo, in un rapporto che indica fra i “generatori di antisemitismo” Jean-Luc Mélenchon e Jeremy Corbyn.

Il capo dell’opposizione alla Knesset, Yair Lapid, leader del partito di centro Yesh Atid ed ex primo ministro per una breve parentesi nel 2022, ha criticato la decisione di chiudere l’ambasciata scrivendo che il governo israeliano ha così deciso di “darla vinta all’antisemitismo e alle organizzazioni anti-israeliane. La risposta a una crisi non è scappare, ma restare e combattere”.

In Irlanda, il Taoiseach Simon Harris ha risposto al comunicato di Gideon Saar definendo la decisione di Tel Aviv “davvero spiacevole” e ha respinto le accuse, negando che l’Irlanda sia mossa da sentimenti anti-israeliani e rivendicando il diritto di essere “a favore della pace, dei diritti umani e del diritto internazionale”. Il Tánaiste Micheál Martin, che è anche ministro degli Esteri (e che con ogni probabilità sarà il prossimo presidente del Consiglio), ha aggiunto che i due Paesi manterranno rapporti diplomatici, sottolineando che in questi rapporti deve però rientrare il diritto di manifestare consenso o dissenso anche su questioni fondamentali. Mary Lou McDonald, la presidente del principale partito di opposizione al governo uscente, Sinn Féin, ha detto che per fermare il genocidio del popolo palestinese a Gaza è prima necessario mettere fine all’impunità di cui gode Israele e ha esortato il governo a proclamare al più presto la Legge sui territori occupati. Più o meno sulla stessa linea gli altri partiti di opposizione. People Before Profit, che è forse il partito più di sinistra per gli standard italiani, ha rivendicato la decisione di Israele come una vittoria di chiunque si stia impegnando per i diritti del popolo palestinese.

Qualche voce critica rispetto alla posizione del governo irlandese è arrivata dall’estrema destra. Un esempio è quella espressa dal sito di informazione Gript, che è diventato noto al grande pubblico soprattutto durante i giorni di tensione del novembre 2023, quando il centro di Dublino venne messo a ferro e fuoco da giovani accorsi dalle periferie, incitati dalla predicazione dell’estrema destra sui social, a seguito del ferimento di tre bambini e di un adulto fuori da una scuola da parte di un uomo di origine algerina. Nelle ore successive all’annuncio di Gideon Saar il direttore di Gript, John McGuirk, ha scritto un articolo nel quale sostanzialmente dava ragione al governo di Tel Aviv e definiva quanto accaduto un disastro diplomatico di cui sarebbe responsabile la politica irlandese. Rispondendo a quanti si chiedono perché Tel Aviv se la sia presa così tanto con l’Irlanda e non, ad esempio, con la Spagna (che a sua volta ha fatto sentire la sua voce in diversi modi contro l’offensiva israeliana in Palestina), John McGuirk ha detto in sostanza che la ragione è che l’Irlanda conta molto meno di altri Paesi sul piano internazionale.

Un altro fattore di tensione fra il governo irlandese e Tel Aviv è il disegno di legge sui territori occupati, un provvedimento che, se approvato, vieterebbe qualunque scambio commerciale o sostegno economico verso comunità che si trovano su territori considerati occupati dal diritto internazionale. Il disegno di legge è stato introdotto nel 2018 alla Camera alta dalla senatrice indipendente Frances Black, è passato alla Camera dei deputati, ha superato tutte le tappe necessarie ed è stato infine bloccato dal governo, con la motivazione che sarebbe in conflitto con le regole del mercato unico dell’Unione europea. Tuttavia, come ha ricordato l’europarlamentare di Sinn Féin Lynn Boylan nell’intervista rilasciata a Left lo scorso novembre, la questione è stata posta ai partiti in occasione delle politiche del 2020 e, con l’eccezione di Fine Gael, tutti i partiti si erano detti favorevoli a fare entrare in vigore la legge. Poi, però, Fianna Fáil e i Verdi hanno formato il governo di coalizione con Fine Gael e il partito del premier Simon Harris ha continuato a bloccare il disegno di legge. Nel frattempo la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegale l’occupazione dei Territori palestinesi e il governo di Dublino ha riconosciuto che il pronunciamento potrebbe aprire la strada alla legge, ma ha rimandato la decisione a dopo le elezioni generali.

La preoccupazione di Tel Aviv intorno a questo disegno di legge è stata ribadita nelle numerose interviste rilasciate a seguito dell’annuncio di domenica dall’ambasciatrice israeliana in Irlanda, Dana Erlich, la quale ha avvertito che l’entrata in vigore della legge impedirebbe alle multinazionali statunitensi di proseguire la loro attività in Irlanda. La questione non può non preoccupare il ceto politico irlandese, anche perché si aggiunge ai timori suscitati dalle misure che potrebbe prendere Donald Trump in tema di commercio estero e tassazione delle imprese statunitensi. Le politiche protezionistiche annunciate dal prossimo inquilino della Casa bianca minacciano di scatenare una guerra commerciale globale che potrebbe avere gravi ripercussioni economiche per l’Europa. Uno dei Paesi europei più esposti è proprio la Repubblica d’Irlanda, che è il terzo Paese per le esportazioni verso gli Stati uniti fra i ventisette dell’Unione europea. Nel 2023 l’Irlanda ha esportato negli Usa beni per 54 miliardi di euro, due volte e mezza quanto esportato nel Regno Unito. I due principali settori coinvolti sono quello chimico e quello farmaceutico e fanno capo in gran parte (per circa l’80 per cento) alle multinazionali statunitensi presenti nel Paese. E questo è il secondo aspetto: Trump ha espresso l’intenzione di abbassare l’aliquota dell’imposta sulle società dal 20 al 15 per cento per alcune aziende con sede negli Stati uniti. In Irlanda, l’imposta sulle aziende è pari al 15 per cento. Quindi, se il nuovo Presidente mettesse in pratica quanto adombrato, le aziende Usa sarebbero meno incentivate a investire in Irlanda invece che in patria. Anche se, occorre aggiungere, a quelle che hanno già sedi in Irlanda non converrebbe chiudere per riaprire negli Stati uniti.

Va aggiunto che preoccupazione per la possibile entrata in vigore della Legge sui territori occupati è stata espressa recentemente anche dalla Camera di commercio degli Stati Uniti. La questione è stata sollevata da funzionari dell’ente, in visita a Dublino la settimana prima dell’annuncio della chiusura dell’ambasciata israeliana, direttamente con il ministro delle Finanze irlandese Jack Chambers e con il collega all’Impresa, commercio e impiego Peter Burke. In conclusione, una piccola digressione storica: in questi giorni si è parlato molto dell’ex Taoiseach Éamon de Valera e delle sue famigerate condoglianze per la morte di Adolf Hitler nel maggio 1945. L’episodio è stato richiamato, ad esempio, in un tweet di Michal Cotler-Wunsh, ex deputata alla Knesset e attuale inviata speciale in Israele per il contrasto all’antisemitismo. Il post è stato ritwittato su X il 15 dicembre dal ministro degli esteri Gideon Saar poco dopo il tweet con il quale annunciava la decisione relativa all’ambasciata. Il tweet di Cotler-Wunsh conteneva una serie di punti che vorrebbero dimostrare la tradizione anti-israeliana delle autorità irlandesi. Il primo richiamava proprio l’episodio del 1945, una vicenda interessante che merita di essere approfondita e chiarita.

I fatti sono questi: la sera del 2 maggio 1945 l’allora capo del governo irlandese Éamon de Valera, appresa la notizia del suicidio di Adolf Hitler, si recò personalmente a casa del capo della delegazione diplomatica tedesca Eduard Hempel per presentargli le sue condoglianze. Il Taoiseach non si recò quindi presso la sede diplomatica e non firmò alcun registro di condoglianze, dettaglio che entrò più tardi nella vulgata ma che non è suffragato da alcuna evidenza storica.

Su questo episodio vanno dette in breve alcune cose. Innanzitutto, lo Stato delle 26 Contee, formalmente neutrale durante la Seconda guerra mondiale, di fatto aiutò in tutti i modi possibili le potenze alleate. Per fare un paio di esempi: i piloti della Luftwaffe che atterravano in condizioni di emergenza sul suolo dello Stato del sud venivano regolarmente internati, mentre i loro colleghi di parte alleata venivano caricati in macchina e portati al confine con l’Irlanda del Nord. Il secondo esempio è un po’ più complesso e ancora più interessante. La presenza di una delegazione diplomatica tedesca a Dublino era considerata importantissima dall’Mi5 per il successo della proprio attività di controspionaggio. Il servizio segreto britannico, infatti, aveva interpretato i codici usati dalla sede diplomatica tedesca, ne controllava la corrispondenza riservata e se ne serviva per veicolare false informazioni a Berlino. La cosa emerse nella seconda metà del 1943 quando l’Oss (l’antesignano della Cia) segnalò una possibile fuga di notizie riservate in Irlanda. I colleghi dell’Mi5 rassicurarono gli americani spiegando che la sede diplomatica di Dublino era uno strumento importantissimo per fornire informazioni false al nemico e anche per impedire che Berlino decidesse di infiltrare una spia nell’amministrazione irlandese. A quel punto, i funzionari dell’Oss conclusero che la situazione della sicurezza a Dublino era molto migliore di quanto avessero immaginato.

A quanto risulta, alla base della decisione presa da Éamon de Valera quel 2 maggio, e della quale, pare, più tardi si pentì, c’era una questione personale, cioè il rapporto burrascoso fra l’allora Taoiseach e il capo della missione diplomatica statunitense a Dublino, David Gray. I due si detestavano cordialmente: David Gray aveva cercato in tutti i modi di convincere de Valera ad abbandonare la posizione di neutralità del suo Paese e non faceva niente per nascondere la sua antipatia per il premier irlandese. Al contrario, de Valera provava rispetto e stima per Eduard Hempel, che considerava una persona corretta. Pare quindi che la famigerata visita al capo delegazione della Germania nazista sia stata banalmente una ritorsione di Éamon de Valera nei confronti dell’odiato Gray e un gesto di personale vicinanza nei confronti di Hempel.

Va ricordato infine che la Costituzione dello Stato irlandese, approvata nel 1937, conteneva un riferimento specifico alla tutela della religione ebraica. La menzione, che rendeva all’epoca unica la Costituzione irlandese, fu voluta proprio da Éamon de Valera in considerazione del trattamento che il popolo ebraico subiva in quegli anni in Europa. Tant’è che in Israele, nei pressi di Nazareth, si trova una foresta che porta proprio il nome di Éamon de Valera. Fu dedicata all’ex Taoiseach per iniziativa di una delegazione di ebrei irlandesi che nel 1966 si recò sul posto per organizzare la piantumazione di 1500 alberi su un terreno di proprietà del Fondo nazionale ebraico.

L’autore: Carlo Gianuzzi è co-autore e co-conduttore di Diario d’Irlanda, trasmissione diffusa da Radio Onda d’Urto

Nella foto: il presidente irlandese Higgins e il premier israeliano Netanyahu