Home Blog Pagina 84

Joe Biden: grazia a Hunter, ma chi grazierà la sua credibilità?

Nelle ultime settimane prima del passaggio di consegne alla Casa Bianca, il presidente uscente Joe Biden ha sentito l’impellente necessità di concedere l’uso di mine antiuomo all’Ucraina, dimenticando come gli Stati Uniti abbiano speso un miliardo di dollari per toglierle in luoghi come Iraq, Afghanistan, Vietnam, Laos e Cambogia.

Ieri Biden ha deciso di usare i suoi poteri residuali per dare la “grazia piena e incondizionata” a suo figlio Hunter, spiegando di averlo fatto per “ragioni politiche”. «Attraverso lui – ha spiegato – volevano spezzare me. Quando è troppo, è troppo».

Il figlio del presidente rischiava oltre vent’anni di carcere dopo essere stato dichiarato colpevole per possesso illegale di arma e per avere mentito all’Fbi e, in un altro processo in California, per frode finanziaria.

Hunter Biden è da tempo nel mirino della propaganda trumpiana, dipinto come connivente con la Cina e l’Ucraina (accuse che si sono rivelate infondate), nonché dedito a riti satanici e ad altre sciocchezze. Hunter Biden però è anche stato giudicato colpevole da due diversi tribunali statunitensi.

«Nessuna persona ragionevole – ha scritto il presidente Biden in una nota – che guarda ai fatti dei processi a Hunter può arrivare a una conclusione diversa da quella che sia stato preso di mira perché è mio figlio, e questo è sbagliato». Il presidente, quindi, ha ritenuto che il suo ruolo politico valesse come ultimo grado di giudizio, confondendo la giustizia con la politica.

Biden, quindi, ha fatto ciò che si teme possa fare Trump. L’indelebile ricordo lo pagheranno i Dem.

Buon lunedì.

Nella foto: Hunter e Joe Biden, 2009

Storia di Chiara, single che vuole diventare madre. Un libro sull’Italia dei divieti

Difficile immaginare una risposta più violenta rispetto al desiderio di avere una figlia/o di quella offerta dalla classe politica dominante in Italia, in Europa e nel mondo. Sotto le insegne di tradizione o natura, si denuncia tutto ciò che l’essere umano è riuscito a escogitare per superare alcuni impedimenti biologici o biografici, e si finisce per ridurre il tutto all’atto della riproduzione dentro a un corpo femminile subordinato a ruoli di genere prostranti.
Si parla spesso di “fare un figlio”, come se si trattasse di una produzione industriale; e con questa categoria, si finisce per assimilare davvero le tecniche medicalmente assistite o di gravidanza solidale a qualche cosa di squallido e mercantile. Si stenta ad accedere all’idea che una nuova vita non la si “fa”, ma la si accoglie: c’è chi si prepara a lungo e attivamente, chi la cerca, ci sono quelli a cui una nuova vita capita, c’è chi, tutto sommato, non si sente di poterla accogliere nelle condizioni in cui è. Ma la questione non è quella della produzione, ma dell’accoglienza, così per le vite nasciture, così per le vite umane già presenti su questo pianeta, che spesso preferiamo negare alzando muri e confini.

Si è istituito il reato universale della gravidanza per altri, meschinamente definita “utero in affitto”. Si guardano con sospetto le tecniche con cui persone sterili, coppie omosessuali, single e altri si preparano attivamente ad accogliere un bambino/a. Riducendo tutto questo all’atto della produzione, sfugge il significato che una nuova vita umana ha per chi la cerca: un sentimento di sovrabbondanza, qualche cosa che esonda dagli argini, sia esso amore, sia esso il senso della propria esistenza, qualche cosa che non si contiene più. Quanta povertà in chi degrada a mero egoismo un desiderio capace di oltrepassare limiti biologici.
In Come arcipelaghi, di Caterina Perali si racconta una storia che riguarda tutto ciò.

Il primo impatto con la nuova inquilina del palazzo non è dei migliori: una mattina, Jean sente una voce femminile urlare attraverso la tromba delle scale. Chiara, al telefono, grida: «Mi basta il suo sperma!». Chiara, donna single, giornalista economica, parla con la madre del suo progetto di avere un figlio. Non ha trovato una persona con cui stare, ma questo non è un motivo per non trasformare il proprio amore sovrabbondante in una nuova vita.
Jean è molto diversa da Chiara. Ha una rubrica social che definisce di “Supporto generico”, in cui, attraverso dirette e interazioni con i follower, si occupa di moltissime tematiche. Ma non sembra mai davvero grattare la superficie della realtà: la redazione preferisce non incaricarla di temi per lei difficilmente gestibili, che, con le dinamiche social, diventerebbero dei boomerang nell’entusiasmo del pubblico. Le insicurezze di Jean la costringono a far di tutto per piacere. Si vuole smaliziata, ma sono molti i pregiudizi che chiudono la sua visione del mondo in una prospettiva piuttosto tradizionalista.
Ma Jean non è superficiale; anzi, la sua curiosità è affamata e non le manca la sensibilità. Si appassiona alla storia di Chiara, ne ammira la libertà e la determinazione, si interroga circa questioni che non si era mai posta nemmeno con il suo compagno, come quella della maternità. Si informa e studia, riconoscendo ciò che non sa: le pratiche mediche che Chiara seguirà sono una completa novità per lei.

Nonostante parli di una donna single, Come arcipelaghi di Caterina Perali è un libro sulle relazioni. Su tutte le relazioni, di ogni tipo. Relazioni che non hanno un centro definito, che non ruotano attorno a un nucleo come un ammasso di polvere attorno a un buco nero. Si tratta di relazioni che arricchiscono e che si dispongono a donare ricchezza, tutt’altro che il tossico senso di rapporti che fagocitano ogni energia circolante annichilendo ora l’una ora l’altra presenza. Non siamo isole, siamo arcipelaghi. La consapevolezza che sostiene tutto il libro è che le relazioni non sono fra soggetti autonomi e indipendenti, pronti a incontrarsi: siamo lavori perennemente in corso, la nostra identità muta mentre si attraversano contesti, mentre si interagisce. Percorsi di crescita continui come sperimentazioni che arricchiscono o, comunque, non lasciano indifferenti. Chi stringe queste relazioni non smarrisce sé, ma nemmeno rimane aggrappato alla propria identità. La metafora dell’arcipelago aiuta ad abbandonare l’idea ottusa di soggetti fatti e finiti che leggono situazioni e vi inscrivono i propri fini. Siamo nodi di reti complesse e plurali; e a ogni minima tensione di un filo, l’intera configurazione muta in modi che solo il coraggio può permetterci di esplorare. E in questa matassa di relazioni e contesti da attraversare, può darsi che si accumuli tanto filo nuovo da intrecciare e far diventare vita nuova.

L’autore: Carlo Crosato è ricercatore universitario, si occupa di filosofia politica, è saggista, poeta e critico letterario

“Passing dreams”: le speranze di un ragazzino palestinese nel campo profughi

Anche quest’anno il MedFilm Festival, giunto ormai alla sua trentesima edizione, si è rivelato una preziosa vetrina per cinematografie poco note al largo pubblico, spesso confinate al circuito dei festival minori, ma che a volte riescono a stupire proprio per la loro capacità di raccontare il mondo e la realtà che ci circonda da un punto di vista diverso. Rashid Masharawi, ospite abituale della rassegna cinematografica (tanto che il MedFilm Festival compare tra i produttori del lungometraggio in questione), quest’anno, oltre al suo film, ha presentato anche From ground zero, una serie di cortometraggi realizzati con mezzi di fortuna a Gaza dopo e durante (non sono ancora cessati) gli incessanti bombardamenti israeliani che sta facendo il giro dei festival e delle rassegne di cinema di tutto il mondo.

Passing dreams è stato presentato in anteprima europea (l’anteprima mondiale è stata al Cairo International film festival) nel corso dell’edizione del festival che si è concluso a Roma. Questo film del cineasta palestinese Rashid Masharawi (nato nella striscia di Gaza), ambientato nella Cisgiordania e ad Haifa è stato concepito e realizzato prima del 7 ottobre; non è, quindi, in alcun modo legato ai recenti e tragici eventi che sono seguiti a quella infausta data. Il lungometraggio in questione, sceneggiato e prodotto dallo stesso regista, è un “road movie” girato tra mille difficoltà in un campo profughi, a Betlemme, a Gerusalemme e ad Haifa.
Il protagonista è Sami, un ragazzino di dodici anni che vive in un campo profughi, e che aveva ricevuto in regalo da un parente un piccione. Ma quando scopre che l’uccello è fuggito, pensando che fosse volato dai precedenti proprietari, decide di andarlo a cercare seguendo l’ipotetica rotta del suo “viaggio a ritroso”. Riesce a convincere un suo zio, che ha un piccolo laboratorio di oggetti sacri, di portarlo dal precedente proprietario, che si trova a Betlemme, dove lo zio deve andare a fare una consegna per la sua attività. La cugina del piccolo, una ragazza adolescente, convince il padre a far salire anche lei sul furgoncino e partire per questo viaggio, che si rivelerà molto più lungo del previsto.

Comincia così un lungo periplo in un territorio insidioso, su strade sterrate piene di posti di blocco, costeggiate da invalicabili muri, nel quale la tensione è palpabile e potrebbe esplodere in ogni momento. Passando da un proprietario all’altro, malgrado tutte le difficoltà, il pulmino dello zio arriva ad Haifa, città da dove proviene il piccione.
La vicenda al centro della narrazione ha una trasparente valenza simbolica (anche la famiglia dello zio proprietario del furgone proviene da Haifa), ma il regista sceglie di non accentuare gli aspetti tragici, cercando piuttosto di mettere l’accento sul “modus vivendi” dei palestinesi nella West Bank, sulle loro strategie di sopravvivenza, sui sogni e sulle speranze di un ragazzino che cresce in un campo profughi. Perché, malgrado tutto, a quanto pare, è possibile coltivare la speranza e il sogno di una vita migliore anche in circostanze così avverse (lo spettatore avverte chiaramente una senso di claustrofobia causato dal uno spazio sempre chiuso da muri e pattugliato continuamente da soldati e poliziotti).

Nel corso dell’incontro con il pubblico, il regista ha raccontato le difficoltà di girare in luoghi in cui l’accesso è reso quasi impossibile ai palestinesi da continui controlli, posti di blocco e divieti (a maggior ragione a una troupe cinematografica palestinese). È stato possibile portare a termine le riprese solo grazie a “l’arte di arrangiarsi” e di improvvisare per superare le difficoltà. Masharawi racconta che, malgrado la sceneggiatura fosse stata scritta due anni prima, durante le riprese dovevano avere sempre a disposizione un piano B e C per fronteggiare possibili imprevisti (alcune volte le riprese, non autorizzate, erano avvenute in luoghi in cui erano espressamente vietate), tutto ciò complicato dal fatto che la gran parte degli attori del cast non erano professionisti. Infatti, anche se la narrazione del film è racchiusa interamente in una giornata, le riprese sono durate due mesi e una delle maggiori difficoltà è stata proprio mantenere l’uniformità della recitazione per tutta la durata delle riprese da parte degli attori esordienti.

La poetica neorealista, più che una scelta, è stata quindi una necessità dettata dalle circostanze. Ma il risultato è un film assolutamente godibile, a tratti persino divertente, sempre e comunque comprensibile a un pubblico di tutte le generazioni.
«Io provo sempre a rappresentare fedelmente i caratteri delle persone. Chi non conosce il contesto, scopre solo i grandi eventi che arrivano ai telegiornali. Ma i palestinesi in realtà hanno un grande senso dell’ironia, scherzano spesso e lo fanno anche su sé stessi. E fare un film con questo tono, è un atto di resistenza. Spesso viviamo situazioni assurde e quindi ci comportiamo in maniera assurda. Quando scrivo, mi piace lasciare spazio alla nostra cultura, alla nostra attitudine. Il cinema può portare avanti la storia, presentare un’identità. Io voglio mostrare la nostra, per proteggerla» – ha dichiarato il regista in una recente intervista.

Il lungometraggio in questione racconta la realtà di tutti i giorni di persone, uomini, donne e bambini, costretti a fare i conti con una entità statale che promuove in ogni modo e con ogni mezzo la loro segregazione (e, se necessario e/o più conveniente, anche la loro eliminazione fisica). Certamente un film da solo non può risolvere, nemmeno in minima parte, la questione israelo-palestinese (sempre che sia possibile farlo). Ma, nella sua apparente innocenza, questo film può aiutarci a capire come e quanto, in verità, la Storia con la maiuscola sia solo un intricato intreccio di storie private, di azioni e reazioni personali, di singole scelte e che quindi, almeno in teoria, una scelta diversa è sempre possibile.

Anche se può sembrare un paradosso, raccontare il nostro presente nell’epoca dei social, in cui l’accesso a qualsiasi informazione in tempo reale appare scontato, non è affatto facile. Vedendo un film come questo ci si accorge molto semplicemente di quanto ne sappiamo poco di quello che effettivamente succede in Medio Oriente, malgrado i notiziari negli ultimi due anni non manchino di riportare notizie provenienti da quella martoriata regione. Ma è proprio questa grande quantità delle informazioni, a cui presto l’opinione pubblica si assuefà, che quasi subito non sortisce più alcun effetto (e proprio questo è il caso del Medio Oriente o dell’Ucraina). Ma questi coraggiosi cineasti palestinesi ci hanno dimostrato che è possibile realizzare una narrazione filmica anche con mezzi tecnici di fortuna e malgrado i divieti, capovolgendo così il paradigma quantitativo dell’informazione con la qualità di singole storie, attraverso le quali possiamo vedere con i nostri occhi quello che succede dietro un muro (come quello che divide i territori palestinesi). Così, attraverso il dramma di un ragazzino che ha smarrito il suo piccione, riusciamo comprendere quello di un intero popolo, di una terra contesa e martoriata e di un conflitto che va avanti da oltre settant’anni.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e docente universitario. È appena uscito il suo nuovo testo teatrale “La caduta di Gomerosol” con la premessa di Marco Belocchi

L’ennesima storia dal Mediterraneo

Le onde del Mediterraneo non smettono mai di restituire storie di orrore. Questa volta, a testimoniare l’inaccettabile è stata la Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici senza frontiere. È successo tutto troppo velocemente: un gommone in difficoltà, uomini armati su una barca veloce, colpi sparati in aria. Risultato? Oltre 70 persone in acqua, 29 donne e bambini portati via con la forza, e 83 uomini e minori non accompagnati lasciati soli, a galleggiare sull’ennesimo crinale tra la vita e la morte.  

Oggi restano gli 83 superstiti, caricati sulla Geo Barents e avvolti dalla disperazione di chi è stato strappato dai propri familiari. Restano, come sempre, i racconti agghiaccianti: minacce con le armi, l’acqua che inghiotte vite, i bambini che spariscono. Resta, soprattutto, l’ipocrisia di un’Unione europea che si proclama custode dei diritti umani mentre sigilla accordi con una Libia trasformata in guardiana armata del nostro egoismo.  

La Geo Barents naviga ora verso Brindisi, ma le famiglie spezzate non arriveranno mai a terra. Loro, quelle donne e quei bambini, sono già finiti nella rete di un sistema che chiamiamo “gestione delle migrazioni”, ma che somiglia sempre più a una guerra condotta senza divise, senza proclami, ma con tutto il cinismo possibile.  

Noi intanto continuiamo a guardare altrove, finché il mare non ce lo sbatte in faccia. Perché, alla fine, è sempre il Mediterraneo che ci restituisce il conto.

Buon venerdì. 

Nella foto: frame video salvataggio Geo Barents

“La trappola identitaria”. Yascha Mounk indaga la “filosofia woke”

Un mutamento epocale. Una svolta paradigmatica nelle strutture del pensiero, della società e della politica a cui, ancora oggi, tocca dare un senso e una forma. Questo, in molti saggi, sembra il lascito più cospicuo degli anni Sessanta e Settanta al nostro presente. È con tale assunto, ad esempio, che Michel Benaysag e Gerardt Schmidt esordiscono nel celebre L’epoca delle passioni tristi, e simile è il punto di partenza di Michael Sandel nel suo recente La tirannia del merito. Molti, tuttavia, restano gli interrogativi in sospeso. Quali le cause, quali le radici di una tale svolta? Raramente le analisi politologiche e sociali si soffermano sull’analisi dei processi storici; e, come un sasso che, lanciato sul mare, ne increspa la superficie senza tuttavia scendere sul fondo, l’impressione è che il nocciolo della questione non sia stato ancora colto.
È su questo silenzio che si sofferma meritoriamente l’ultimo saggio di Yascha Mounk, La trappola identitaria. Una storia di potere e idee del nostro tempo (Milano, Feltrinelli, 30 euro). Qual è l’argomento? Il titolo – fedele trasposizione, bisogna dirlo, di quello originale – lo preannuncia: è la storia di come gli ambienti liberal statunitensi abbiano progressivamente abbandonato gli ideali e gli scopi universalistici che fino agli anni Sessanta-Settanta avevano permeato la politica dei partiti di “sinistra” e di come l’abbiano sostituita con quella che l’autore, nel voler evitare il termine ormai ideologicamente connotato di “filosofia woke”, preferisce definire come “sintesi identitaria”.
È un processo le cui radici non sono prossime: e infatti Mounk le rintraccia nelle aule della Parigi pre-sessantottina, dove un giovane Michel Foucault, nel rigettare “le grandi narrazioni” della scienza, ne sottolineava i legami con l’autorità governative e con tutte quelle “micropolitiche” che impedivano agli individui di sviluppare compiutamente la propria identità. Le segue quindi negli Stati Uniti: e qui le formulazioni foucaultiane ispirano, in un primo tempo, l’analisi post-coloniale di Edward Said, e, in un secondo, il concetto di “essenzialismo strategico” con cui Gayarti Chakravorty Spivak giustificava l’assunzione in chiave identitaria dei propri tradizionali marcatori fisici e culturali da parte degli intellettuali membri di minoranze oppresse. L’autore arriva, infine, ai primi decenni del XXI secolo, quando i principi cardine della “sintesi identitaria”, una volta elaborati e diffusi nei campus universitari, hanno raggiunto un pubblico più vasto grazie all’azione dei social network.
Quella qui delineata, ovviamente, non è una concatenazione deterministica di cause ed effetti. Né Foucault, né Said e né tanto meno Chakravorty Spivak potevano antivedere l’esito delle loro elaborazioni. Ma nemmeno noi possiamo disconoscere le esigenze e i bisogni che hanno condotto alla diffusione delle cosiddette “politiche identitarie”: quelle di gruppi sociali che, ancora oggi, sono oggetto di discriminazioni implicite ed esplicite, più o meno avallate dall’opinione pubblica e dalla comunità sociale. Non dobbiamo spingerci fino agli Stati Uniti per incontrare degli esempi. Basta restare in Italia: e basta pensare alla questione femminile. Conosciamo tutti i dati sui femminicidi. Ma è solo la punta di un iceberg di una minorità ben più radicata, e persistente. Era il 2023 quando in Italia il 43,3% delle donne tra i 19 e i 34 si dichiarava inattiva – cioè non iscritta a nessun corso di studio, e non interessata a cercare un lavoro. Adesso siamo alla fine del 2024, ma non c’è ragione di credere che la situazione sia cambiata.
E nemmeno Mounk, ovviamente, disconosce queste esigenze e questi bisogni. È un altro il punto su cui dissente: sulla capacità della “sintesi identitaria” di saper offrire a tali problemi una soluzione valida. Molti, elenca l’autore, possono essere invece i pericoli che cela. Quello di alimentare una maggiore disuguaglianza, innanzitutto. Le “politiche sensibili alla razza” aiutano i gruppi afroamericani in condizioni di disagio economico. Ma aiutano anche quei gruppi che nel disagio non vivono più da anni, tralasciando tutta quella fascia di popolazione che necessiterebbe comunque di un sostegno statale – e qui il pensiero corre agli hillbilly dei Monti Appalachi, resi celebri anche in Europa dall’autobiografia di J. D. Vance. E inoltre: le “politiche sensibili alla razza” potrebbero, secondo l’autore, essere profondamente controproducenti. Esempio di ciò è la gestione statunitense della pandemia da Covid-19, quando il Center for Disease Control incoraggiò gli Stati a vaccinare in primo luogo i lavoratori essenziali. Perché loro, e non le persone con più di 65 anni? Perché, mentre i lavoratori essenziali erano composti per la maggior parte da gruppi etnici storicamente oppressi, la popolazione anziana era, per lo più, bianca. La decisione era teoricamente equa. Aumentò tuttavia il numero dei morti: non solo tra gli anziani bianchi, ma anche e soprattutto tra quelli di colore, che, privi della copertura sanitaria, non poterono usufruire nemmeno del vaccino.
Quale la soluzione? Mounk prova a prospettarla verso la conclusione del libro. Fulcro di quest’ultima è un sentito elogio del social-liberalismo e dei suoi valori universalistici – in primo luogo, quelli di autodeterminazione collettiva e di libertà politica. Sono prospettive, argomenta l’autore, che lungo tutta l’età contemporanea hanno garantito il progresso dell’umanità; se hanno fallito, ciò è successo non per alcune loro falle intrinseche, ma perché non sono state applicate con l’universalità necessaria.
Alcune domande, tuttavia, restano sul piatto. Se questi principi sono stati così efficaci, perché sono stati abbandonati? Non è un processo che possa essere unicamente ricondotto alle pieghe di una pur densa storia delle idee. Mounk – e di questo gliene va dato atto – connette il successo della “sintesi identitaria” non solo a un processo intellettuale, ma anche a un processo politico e sociale: quello della decolonializzazione, e della formazione di élites politiche bisognose di ideologie inedite, capaci di caratterizzarne lo scopo e l’azione. E ciò potrebbe spiegarne la diffusione in Asia e in Africa. Ma in Occidente?
Mounk non ha mai mostrato, negli altri suoi libri, grande fiducia nel progresso. Ne La trappola identitaria sembra cambiare rotta: è vero, la storia dell’umanità è una storia di catastrofi continue, ma ciò che ha caratterizzato la prima fase dell’età contemporanea è stato il progresso delle collettività occidentali. Ma proprio la sfiducia in quest’ultimo sembra caratterizzare la maggior parte degli intellettuali da lui citati. Lo sono Chakravorty Spivak, Said, Foucault; ma si potrebbe anche provare a risalire controcorrente, e contro la foce, e allora troveremmo Marcuse, Adorno, Heidegger. È sfiducia nelle capacità del potere politico di garantire a tutti il libero sviluppo delle proprie capacità, sicuramente. Ed è anche e soprattutto sfiducia nelle capacità del potere politico di utilizzare a fin di bene lo sviluppo tecnologico. Le carneficine della Grande Guerra, lo scoppio della bomba atomica, sono i punti più eclatanti di un cambiamento di mentalità lungo e tortuoso, che molti decenni ha impiegato prima di risalire a galla. Su questo c’è ancora molto da scrivere. Ma è appunto questo il pregio dei buoni saggi: quello di porre sulle questioni affrontate non punti, ma virgole, per consentire a chi verrà nuovi sviluppi e nuovi discorsi – e questo, a La trappola identitaria, gliene va dato atto.

L’autrice: Chiara Martinelli è ricercatrice a tempo determinato in Storia della Pedagogia all’Università di Perugia

Yoshua Mounk

Nella foto: la deputata statunitense Marcia Fudge mostra una maglietta che recita lo slogan “Stay Woke: Vote” nel 2018

L’Irlanda al voto. Lynn Boylan: Il piano Sinn Féin per il governo e la pace in Palestina

Lynn Boylan, deputata a Strasburgo nel gruppo della Sinistra al Parlamento europeo – GUE/NGL, è una delle due europarlamentari del partito repubblicano irlandese Sinn Féin, nel quale milita dal 2005. Quarantotto anni, dublinese, attiva per molti anni sul fronte dell’ambiente e del cambiamento climatico, Lynn Boylan è stata eletta alle elezioni europee dello scorso giugno nella circoscrizione di Dublino. Con lei abbiamo parlato delle imminenti elezioni generali nel suo Paese, dell’avanzata dell’estrema destra irlandese, del suo ruolo di presidente della Delegazione del Parlamento europeo per i rapporti con la Palestina e infine della politica del governo italiano in tema di immigrazione e le sue possibili ricadute a livello europeo.

Il 29 novembre, la Repubblica d’Irlanda andrà alle urne per le elezioni anticipate per il rinnovo del Dáil Éireann, la Camera dei deputati. I due principali partiti irlandesi, Fine Gael e Fianna Fáil, entrambi di centro-destra, che hanno governato in questa legislatura in coalizione con i Verdi, si presentano all’elettorato con programmi distinti, in apparente competizione l’uno con l’altro, ma è noto che aspirano a proseguire l’esperienza di governo insieme. Se, in mancanza di una possibile alternativa di centro-sinistra, avessero la possibilità di continuare a governare e la necessità di un terzo partner di coalizione, si parla di un possibile interesse per il Partito Laburista (dato al 4 per cento), che tuttavia al momento esclude una tale possibilità. Dall’altra parte Sinn Féin, il principale partito di opposizione, si avvia all’appuntamento elettorale indebolito rispetto alle elezioni generali del 2020, nelle quali era emerso come primo partito (24,5 per cento dei voti di prima preferenza rispetto al 22,2 di Fianna Fáil e al 20,9 per cento di Fine Gael). I sondaggi, che nell’estate 2022 vedevano il partito repubblicano addirittura al 36 per cento nelle intenzioni di voto, lo danno in declino quasi costante ormai da un anno. Come abbiamo visto lo scorso giugno i risultati di Sinn Féin nelle elezioni europee e amministrative hanno momentaneamente raffreddato le speranze della leader Mary Lou McDonald di essere la prima donna a ricoprire la carica di Taoiseach (Presidente del Consiglio).

I giochi, in ogni caso, sono tutt’altro che fatti. Il rischio che il tema dell’immigrazione finisse per dominare le elezioni (tema che paradossalmente minacciava di mettere in difficoltà soprattutto Sinn Féin) è stato di fatto smentito e, d’altro canto, anche per il partito del premier Simon Harris non mancano le incognite. Nonostante il buon livello di gradimento personale di Harris, in carica come segretario da pochi mesi, Fine Gael deve rinunciare a un numero molto alto di candidati in grado di garantire la riconferma e quindi i relativi seggi al Dáil: i deputati che si sono ritirati dalla corsa e hanno annunciato le dimissioni sono ben 18, più della metà della pattuglia parlamentare uscente. Inoltre, a pochi giorni dal voto il partito del premier è in calo nei sondaggi, mentre Sinn Féin è in ripresa. E poi c’è sempre l’incognita indipendenti, un magma di deputati pronti a far valere con il governo in carica gli interessi locali di cui sono portatori, che nella legislatura che va a chiudersi contava più di 20 seggi sul totale di 160.

Lynn Boylan, pensa che il suo partito riuscirà a convincere l’elettorato a non farsi distrarre dai sondaggi e dalle difficoltà che Sinn Féin ha attraversato in tempi recenti e a concentrarsi sulla necessità del cambiamento e sui temi che avete messo al centro della campagna elettorale, in primo luogo la crisi degli alloggi e gli effetti del carovita?
Beh, mi auguro di sì. Non sarò ovviamente candidata, avendo partecipato alle elezioni europee di giugno, ma sono contenta di potermi impegnare nella campagna elettorale per i colleghi. Inutile negarlo: i sondaggi non dicono quello che ci saremmo augurati. Era chiaro d’altronde che non sarebbe stato semplice mantenere lo slancio che ci hanno dato le elezioni del 2020. Tuttavia, credo che nell’andare a votare per il Parlamento la gente rifletterà attentamente sulle possibilità di scelta rispetto a cosa vuole che un governo faccia per il Paese. Al momento Fine Gael sta chiaramente vivendo della popolarità che gli ha dato il cambio di leader, con un nuovo segretario pieno di energia che viaggia da una parte all’altra del Paese, commenta tutto quello che succede. Credo però che l’elettorato abbia iniziato a notare il fatto che Simon Harris sembra più impegnato a commentare ciò che fa il suo governo piuttosto che a guidarne l’azione. Detto questo, sta a noi convincere coloro che nel 2020 hanno deciso di darci fiducia di farlo anche questa volta e insistere sul fatto che se vogliamo il cambiamento dobbiamo dare il nostro voto per ottenerlo. In Irlanda abbiamo avuto al potere gli stessi due partiti politici per 100 anni [Fianna Fáil e Fine Gael, Ndr], in una forma o l’altra. Sta a noi di Sinn Féin fare del nostro meglio in questa campagna elettorale per far passare in modo efficace il messaggio che se le persone sono stanche della crisi degli alloggi, del costo della vita e preoccupate per lo stato della sanità pubblica un’alternativa c’è e va sostenuta.
Riguardo all’immigrazione, il tema sembra essere passato un po’ in secondo piano rispetto alla campagna per le elezioni europee e amministrative di giugno, nella quale è stato decisamente dominante. In quel periodo abbiamo visto in atto una campagna online molto aggressiva, diretta soprattutto contro Sinn Féin. È un aspetto che va sottolineato e che ha spinto molti a chiedersi chi ci fosse dietro a quella campagna, visto e considerato che Sinn Féin non è mai stato al governo della Repubblica d’Irlanda. Quindi, ribadisco che confido nel fatto che la gente si concentri soprattutto su questioni diverse da quelle tipiche delle elezioni locali o europee; in altre parole, è un momento in cui ci si chiede a chi sia saggio affidare il Paese. È su questo che dobbiamo lavorare.

Da nazionalista e repubblicana irlandese, cosa prova quando vede l’estrema destra irlandese cercare di appropriarsi dei simboli della storia del suo Paese, come la bandiera dell’insurrezione di Pasqua del 1916, figure come James Connolly e Patrick Pearse o quando sente rappresentare l’immigrazione da Paesi stranieri come la “nuova colonizzazione dell’Irlanda”?
Mi fa sentire molto a disagio vedere il tricolore sventolato nel contesto di proteste che non hanno proprio niente a che vedere con lo spirito del repubblicanesimo, né con il nazionalismo nel quale si riconosce Sinn Féin: un nazionalismo cosmopolita, simile a quello del Partito nazionalista scozzese o del movimento basco o di quello catalano. Un nazionalismo totalmente diverso, dunque, da quello professato dai movimenti di estrema destra.
Pensi che, fino a un po’ di tempo fa, quando in campagna elettorale suonavamo alle porte, un tricolore dietro i vetri di una finestra era incoraggiante, ci dicevamo “Ecco dei potenziali elettori di Sinn Féin”. Adesso, a meno che non vediamo il tricolore e accanto la bandiera palestinese non sappiamo se troveremo un’accoglienza amichevole o no. Insomma, come dicevo, è una cosa che mette a disagio e penso che sia importante fare il possibile per riprenderci quei simboli e non dare l’impressione di accettare supinamente che vengano usati in quel modo. Dobbiamo assolutamente riappropriarcene.
Di recente, ad esempio, ho fatto realizzare delle borse di stoffa con il tricolore, l’effigie di James Connolly e la sua celebre citazione che dice, “Irlandese, non azzardarti a tirare una pietra a uno straniero: potresti colpire un tuo familiare”. Ne abbiamo diffuse moltissime, ce le hanno chieste da tutta l’Irlanda. Il messaggio è chiaro: questi sono i valori repubblicani, i valori del nazionalismo nel quale crediamo. E sono quanto di più lontano dall’estrema destra si possa immaginare. È importante indossare il volto di James Connolly, così come il tricolore, con orgoglio, per dare un messaggio forte. È quello che dobbiamo fare tutti per riappropriarci di quei simboli, a partire dai rappresentanti politici e dagli attivisti impegnati nel sociale.

Passiamo alla Palestina. Ci spiega in cosa consiste la Legge sui territori occupati? Leggo che è stata presentata nel 2018 e approvata l’anno seguente. Come mai non è stata ancora varata? E poi le chiedo: quali misure prenderebbe un eventuale governo guidato da Sinn Féin per favorire una soluzione pacifica in Medio oriente e fermare l’offensiva israeliana su Gaza e sul Libano?
La Legge sui territori occupati è stata introdotta al Senato dalla senatrice indipendente Frances Black, quindi è passata alla Camera e ha superato tutti i passaggi, prima di essere bloccata dal governo, che sostiene che sia in conflitto con le regole del mercato unico dell’Unione europea. Tuttavia, prima delle politiche del 2020 la questione è stata posta all’attenzione dei partiti e, con l’eccezione di Fine Gael, tutti si sono detti favorevoli a fare entrare in vigore la legge. Poi, però, Fianna Fáil e i Verdi sono andati al governo con Fine Gael e Fine Gael ha continuato a bloccare la legge, nonostante diversi pareri qualificati sostengano che il provvedimento non sia in conflitto con le regole del mercato unico dell’Ue. Nel frattempo la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegale l’occupazione dei Territori palestinesi e il governo di Simon Harris ha detto che questa decisione cambia il contesto e che ci sarebbero le condizioni per sbloccare la legge. Tuttavia il Taoiseach ha deciso comunque di rimandare la decisione a dopo le elezioni. È difficile non trattare quella decisione con una buona dose di scetticismo e pensare a un espediente elettorale, dal momento che il governo sa bene che la Palestina è un argomento molto caldo e caro a tante persone qui in Irlanda: è chiaro quindi che per Fine Gael sia importante fare passare il messaggio che l’intenzione sia quella di prendere la decisione giusta. Tuttavia nessuno garantisce che, all’indomani del voto, e soprattutto nel caso in cui Fine Gael conservasse una posizione dominante nel nuovo governo, la Legge sui territori occupati sarebbe effettivamente varata.
Per quanto riguarda il mio partito, Sinn Féin sostiene senz’altro la Legge, come ha sempre fatto, e ha pronte altre leggi di sua iniziativa, come quella sul disinvestimento, che intendiamo fare approvare se andremo al governo. Oltre a questo, riteniamo sia importante affrontare la questione dell’aeroporto internazionale di Shannon e dell’utilizzo del suo spazio aereo. Il sito di informazione online The Ditch sta facendo un ottimo lavoro di informazione che ha rivelato come l’Irlanda sia complice del genocidio in corso. Lo spazio aereo di questo Paese viene utilizzato per il trasferimento di armi verso le forze armate israeliane. Armi che poi, per ironia della sorte, vengono usate per minacciare i soldati irlandesi del contingente Unifil di stanza in Libano. Se parliamo di pace, mi pare di poter dire che Sinn Féin sappia bene, più di chiunque altro, che la pace si fa solo ed esclusivamente con i negoziati. Ma servono anche facilitatori onesti ed è indispensabile che le parti vogliano davvero la pace e purtroppo sappiamo che Netanyahu vuole che il conflitto prosegua, perché sa che, se ci fosse un cessate il fuoco e finisse la guerra, lui dovrebbe andare davanti a un giudice e la sua carriera politica sarebbe finita. Il premier israeliano, quindi, non ha alcun interesse a un cessate il fuoco. Questo perciò è il dilemma che ci troveremmo ad affrontare se andassimo al governo: la nostra linea sarebbe senz’altro di avviare un processo di pace fra le parti interessate, ma temo che con Netanyahu non ci siano le condizioni per mettere in campo un processo di pace destinato a durare.

Lo scorso ottobre, dopo uno dei più sanguinosi raid israeliani su Gaza, lei ha parlato al Parlamento europeo chiedendo all’aula e all’Europa: «Non è ancora il momento di tracciare una linea rossa? Dov’è finita la bussola morale dell’Unione europea»? Da presidente della delegazione del Parlamento europeo per i rapporti con la Palestina cosa ritiene che dovrebbe fare l’Europa per fermare l’offensiva israeliana su Gaza e sul Libano?
La prima cosa che si potrebbe fare sarebbe sospendere l’accordo di libero scambio con Israele. Inoltre, è necessario pensare alle sanzioni. Abbiamo visto con quale rapidità l’Europa si è mossa nel caso della Russia, a seguito della guerra in Ucraina. Decisione condivisibile, ma la velocità di cui è stata capace in quel frangente fa riflettere. Il problema qui è che Israele non ha intenzione di fermarsi, continuerà a fare quello che sta facendo finché glielo si lascia fare. Israele non è stato mai chiamato a rispondere delle numerose incursioni su Gaza, del blocco imposto alla Striscia o dei suoi insediamenti illegali. Quindi penso che quella sia la prima cosa che dovrebbe fare la Commissione europea. Purtroppo sembra che non ci sia il consenso necessario, quindi a questo punto è necessario che i singoli Paesi prendano misure unilaterali ed è per questo che è importante che in Irlanda la Legge sui territori occupati sia varata al più presto, per dare un segnale forte che almeno l’Irlanda non ha intenzione di tollerare alcun trattamento speciale nei confronti di Israele davanti alle leggi internazionali e ai diritti umani.
Presiedere la Delegazione del Parlamento europeo per i rapporti con la Palestina è per me un grande onore, ma ovviamente comporta anche una grande responsabilità, vista la situazione. Una sfida importante per la delegazione è quella di cercare di portare il suo messaggio fuori dalla cerchia delle forze che tradizionalmente sostengono il popolo palestinese, cioè le formazioni di sinistra. Il mio approccio è improntato alla massima apertura; sono convinta della necessità di ascoltare anche le opinioni diverse dalla mia, ma allo stesso tempo non intendo farmi trascinare in una discussione senza fine sul 7 ottobre, perché sappiamo bene che tutto questo non inizia il 7 ottobre. Così come non intendo perdere tempo con domande del tipo “E allora Hamas?” o “Condanni Hamas?”, perché anche quella è una cosa che non porta a niente.
Quello che intendiamo fare, invece, è consultare i colleghi del Parlamento europeo su temi particolari legati al conflitto. Intendiamo chiedere, per fare un esempio, a chi non mostra particolare interesse per la sorte dei civili palestinesi: “Hai a cuore la sorte dei bambini? Il loro diritto all’istruzione, il loro diritto alla salute”. O ancora, “Ritieni importante tutelare la libertà di informare, la sicurezza dei giornalisti?” In questo conflitto, finora, sono morti 170 giornalisti. Dove sono i sindacati della stampa? Perché non alzano la voce? L’obiettivo ovviamente è quello di ampliare il discorso in modo da fare emergere la tendenza ad applicare due pesi e due misure a seconda di chi è coinvolto in una determinata situazione. Un’altra prospettiva è quella di genere: vogliamo invitare le persone a riflettere sul dramma delle donne costrette a partorire senza antidolorifici, addirittura con taglio cesareo senza anestesia, in condizioni igieniche carenti, a partire dalla disponibilità di acqua pulita. Dov’è la Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere del Parlamento europeo? Le donne palestinesi non hanno diritto all’attenzione che riservate ai diritti di altre donne?
Questo è ciò che ho intenzione di fare insieme alla delegazione; l’idea è quella di fare appello a diverse aree di interesse, invitando le persone a… come posso dire… a mostrare empatia.
A volte sembra che i palestinesi non meritino lo stesso livello di diritti umani, lo stesso grado di empatia rispetto a chiunque altro. Cercheremo di fare leva su quello per “umanizzare” le vittime e il massacro al quale stiamo assistendo.

Vorrei in conclusione spostare un momento lo sguardo sull’Italia e lo faccio con una veloce domanda su una sua nuova collega di gruppo politico al Parlamento europeo: ha già avuto occasione di incontrare ed eventualmente avere uno scambio di vedute con Ilaria Salis?
Non ho ancora avuto modo di lavorare davvero insieme a lei. Era seduta proprio accanto a me nella prima sessione, ma poi purtroppo hanno cambiato la disposizione dei posti. Ho assistito però agli attacchi che ha subito dall’estrema destra in aula. Spero di avere presto la possibilità di lavorare insieme a lei.

Cosa pensa del “piano Albania” del governo italiano? Pensa che l’iniziativa del governo Meloni possa aprire fratture nell’approccio attuale della maggioranza dei Paesi europei rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti delle persone che fanno domanda di asilo?
È un bel problema. Abbiamo visto il Partito popolare europeo votare con l’estrema destra per consentire l’erezione di barriere, tipo quelle di Donald Trump, e questo sotto forma di un emendamento al bilancio. Per questo ritengo che il Parlamento europeo dovrebbe guardare cosa succede al suo interno, così come la Commissione. È stato il Partito popolare europeo che in passato ha facilitato l’ascesa di Orbàn e del partito Fidesz, regalandogli una patente di rispettabilità quando lo ha ammesso nel suo gruppo, e ha sdoganato il linguaggio dell’estrema destra. Penso che gli altri partiti debbano fare i conti con questa situazione perché va riconosciuto che, al di là delle loro differenze, hanno sempre mantenuto un cordone sanitario attorno all’estrema destra. Il Partito popolare europeo invece no: continua a sdoganare certi argomenti, appoggia emendamenti dell’estrema destra, accetta accordi su alcuni punti. Credo quindi che il nodo fondamentale sia l’atteggiamento del Ppe, che rappresenta il gruppo politico più grande ed esprime la presidente della Commissione europea e tuttavia continua a legittimare l’estrema destra e rilanciarne i temi. E sappiamo bene i disastri che ne possono derivare.

L’autore: Carlo Gianuzzi è co-autore e co-conduttore di “Diario d’Irlanda”, trasmissione diffusa da Radio Onda d’Urto

Nella foto: l’eurodeputata Lynn Boylan 

Ieri il Pd

Ieri il Partito democratico ha votato la Commissione europea più a destra nella storia dell’Unione. La Commissione von der Leyen bis tra i suoi molti difetti ha anche quello di avere la maggioranza più risicata nella storia dell’Unione, il 51,4% del Parlamento europeo. Quindi ieri il Partito democratico ha, di fatto, salvato la Commissione Ursula bis dal tracollo. 

Ieri il Partito democratico ha votato Raffaele Fitto vice presidente della Commissione. Alcuni europarlamentari dem – ovviamente della schiera cosiddetta riformista – hanno speso in questi ultimi giorni parole di elogio sulla “competenza” dell’ex ministro meloniano che ha passato gli ultimi due anni da ministro a un Pnrr ripetutamente modificato al ribasso e perennemente opaco nei dati. 

Ieri il Partito democratico ha contribuito a dare agibilità politica all’eurogruppo Ecr, di cui Giorgia Meloni è la più moderata. Un caravanserraglio di sabotatori dei principi europei ora può fregiarsi – anche grazie al Pd – di essere classe dirigente a Bruxelles. 

Ma soprattutto ieri il Partito democratico ha trattato come agenti esterni i suoi capilista Cecilia Strada e Marco Tarquinio, due dei nomi che dovevano essere stella polare di un cambiamento in atto. Ha lasciato Strada e Tarquinio alla mercé degli speculatori che oggi bisbigliano che Strada e Tarquinio abbiano votato come Vannacci e siano contro “il bene del partito”. 

Ieri la segretaria del Pd Elly Schlein ha detto «la Commissione Ue non la sentiamo nostra». Provate a immaginare come sentano il Pd i 330 mila che hanno votato Strada e Tarquinio. 

Buon giovedì. 

“Era bello il mio ragazzo”. Il libro di Giuseppe Ciarallo sulle morti sul lavoro

Una sorta di autobiografia dolente della classe operaia che ogni anno registra migliaia di morti sul lavoro. Era bello il mio ragazzo – Morti sul lavoro. Canzoniere del dolore e della rabbia è il nuovo libro di Giuseppe Ciarallo in uscita il 29 novembre per l’editore Pendragon. La prefazione è di Luigi Manconi e Chiara Tamburello, la postfazione di Massimo Vaggi, scrittore e avvocato per conto della Cgil nelle cause per amianto.
Nel volume sono contenuti i testi di settantatre canzoni – Il titolo riprende un brano di Anna Identici presentato al festival di Sanremo nel 1972 – che, dal secondo dopoguerra ad oggi, hanno raccontato il dramma delle morti sul lavoro e per il lavoro e settantatre disegni di altrettanti illustratori e illustratrici, tra i quali spiccano dei maestri della satira italiana (Lido Contemori, autore della copertina, Massimo Bucchi, Vauro, Fabio Magnasciutti, Lucio Trojano, Eugenio Saint Pierre, Giuliano, Danilo Maramotti, Sergio Staino, Marco De Angelis, Marilena Nardi, Gianni Allegra, Mauro Biani e tanti altri) e giovani illustratori come Lorenzo Bettinelli, Mario Cicellyn Comneno e Luca Leporatti. Non c’è solo il libro. Le settantatre illustrazioni infatti verranno stampate e incorniciate e diventeranno oggetto di una mostra itinerante che verrà esposta presso le Camere del lavoro, Case del popolo e sedi di altre associazioni che vorranno ospitarla. Il volume è stato stampato in collaborazione con “Afeva Emilia Romagna” (Associazione Familiari e Vittime Amianto) e “Comma 2 – Lavoro e Dignità” (Associazione di giuristi che si occupano di solidarietà sociale a tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori). Abbiamo rivolto alcune domande a Giusepe Ciarallo, scrittore, editore e fondatore di riviste letterarie (Nuova Rivista letteraria, Zona Letteraria – studi e prove di letteratura sociale) autore di libri sul razzismo e sul lavoro in fabbrica.

Giuseppe Ciarallo, quanti anni è durata la ricerca per comporre il libro? Sono 280 pagine fitte di notazioni, testi, date, elenchi di autori…
Tutto è cominciato agli inizi del 2021. A quell’epoca ero direttore e redattore di Zona Letteraria – Studi e prove di letteratura sociale, rivista nata sulla scia di Letteraria, la creatura voluta dal caro amico Stefano Tassinari, in cui ho lavorato fin dalla riunione fondativa. Per il sesto numero della rivista, il collettivo redazionale aveva deciso di affrontare il tema sintetizzato in questa domanda: “La canzone impegnata degli anni Settanta ha passato il testimone alla generazione successiva? Cosa è rimasto di quella incredibile esperienza nel nuovo millennio? Ci sono, oggi, musicisti, gruppi, cantautori che si occupano nei loro testi di giustizia sociale e di tutti quegli aspetti legati alla vita reale di quello che chiamavamo popolo, proletariato, classe operaia? magari idealizzandolo, aggiungo”. Per scrivere il mio pezzo io aggiunsi come argomento imprescindibile quello della sicurezza sui luoghi di lavoro, gli incidenti e le morti ipocritamente dette bianche. Subito dopo l’uscita del sesto numero della rivista ho cominciato a raccogliere materiale pensando al canzoniere così come oggi lo si vede realizzato. Fin dal primo momento, inoltre, mi è venuto in mente di coinvolgere la grande famiglia italiana dei disegnatori satirici, con la quale ho a che fare quotidianamente, per via della mia collaborazione con diverse riviste di umorismo e satira. Nelle mie intenzioni, le settantatre illustrazioni presenti nel libro, diventeranno l’oggetto di una mostra che proporrò alle Camere del lavoro, Case del popolo, circoli Arci e a quelle associazioni che vorranno ospitarci.

Nella sua biografia spiccano titoli di testi hip hop (DanteSka. Apocrifunk, Hip Hoppera in sette canti), oppure Le opinioni di un sax tenore e altri racconti, Amori a serramanico, e altri di carattere più leggero: cosa l’ha decisa ad avvicinarsi a temi dal contenuto così doloroso? E che per giunta resta ancora impopolare, dopo quasi cinquant’anni che si canta la protesta, la lotta, la morte per lavoro? Quando il lavoro c’è…
“Io “nasco” come scrittore di racconti, perché è la forma letteraria più vicina alla mia natura e al mio carattere. Mentre il romanzo, può permettersi anche delle pause nello svolgimento, il racconto deve essere sempre scattante, nervoso, deve colpire il lettore in poche pagine, e colpirlo con un adeguato e sorprendente finale. Dopo trent’anni di scrittura di racconti (e articoli, interviste, saggi) mi ero accorto che non facevo più fatica, il sudore non scorreva più mischiato all’inchiostro. Per questo motivo nel 2010 pensai di scrivere DanteSka, una sorta di viaggio all’inferno dei nostri giorni (ispirato dal mio amore spassionato per la Divina Commedia) in compagnia di un personalissimo Virgilio che individuai nel romanziere russo Fëdor Dostoevskij (mia divinitade). Tutto scritto in quartine di endecasillabo a rima alternata. Un lavoro durissimo, ma il piacere della ricerca di ogni singolo termine, dell’unica parola che funzionasse in uno specifico verso, è stato impagabile e indimenticabile. Allo stesso modo ho cominciato a scrivere sceneggiature per il fumetto. Quindi questa antologia conferma la duttilità con la quale affronto la scrittura. C’è poi un altro aspetto fondamentale. Sono figlio di emigranti e mio padre è stato operaio alla Ciba Geigy, alla Volkswagen di Wolfsburg in Germania. Al suo rientro in Italia lavorava alla Innocenti di Lambrate, a Milano, fabbrica presso la quale ha avuto un incidente che gli ha procurato l’amputazione di un dito della mano sinistra. E io sono sempre andato molto fiero di queste mie origini di migrazione e operaie, perché sono state fondamentali per la mia formazione.

Il titolo del libro “Era bello il mio ragazzo”, canzone del 1972, che Anna Identici “ha osato” portare al festival di Sanremo: lei scrive che le parole affilate di quella canzone rappresentano la voce, l’urlo di quanti tutti i giorni rischiano la vita per un tozzo di pane.
Con “Era bello il mio ragazzo”, brano presentato al festival di Sanremo del 1972 e non a caso eliminato dopo la prima esecuzione, Anna Identici scompiglia le carte in tavola di una kermesse canora fino a quel momento basata sulla tipica canzone all’italiana, nella quale l’amore veniva declinato sempre per la mamma, per la patria lontana, per la fidanzata che ricambia e per quella che ti costringe a un rapporto tormentato. Mai prima di allora qualcuno aveva osato turbare la platea profumata e ingioiellata, con parole strazianti che parlavano di lavoro sfruttato e di morte, parole potenti rabbiose pur nella pacatezza del personaggio narrante: una donna dilaniata dal dolore nell’assistere all’agonia del figlio (o, secondo alcuni, del fidanzato), morente per un incidente in cantiere. In questo senso questo testo “politico” ha portato sul palco della canzone leggera, la voce della povera gente, sfruttata, malpagata e quotidianamente a rischio. Mi è sembrato che il titolo di quella canzone rappresentasse alla perfezione l’essenza della mia antologia che, come recita il sottotitolo è un “canzoniere del dolore e della rabbia”.

Cosa è cambiato nel modo di denunciare il problema sicurezza sul lavoro secondo lei?
Nel raccontare la tragedia quotidiana delle morti sul lavoro e per il lavoro, analizzando i testi salta agli occhi uno stacco netto tra le canzoni della seconda metà del secolo scorso e quelle scritte nel nuovo millennio. Nelle prime è evidente l’influenza della canzone d’autore, i testi scritti da poeti e intellettuali, nei quali c’è sì la collera verso le ingiustizie, ma c’è anche molta ironia, come nei brani de I Gufi, di Jannacci-Fo, di Tony e i volumi, di Roversi- Dalla. Nei testi della generazione successiva l’impronta ironico-satirica scompare quasi del tutto, tranne che nel brano di Caparezza. E poi c’è l’irruzione, nella scena musicale, del rap, genere che ha la rabbia come caratteristica principale. Le parole diventano gragnuole di pugni nello stomaco, come nel testo dei ControRessa, caustico, abrasivo, dove nulla è lasciato all’immaginazione, dove non c’è spazio per la metafora e le parole vengono sbattute con violenza sul muso di chi le ascolta, e di chi ha causato tanto dolore. Ma anche tra le canzoni degli ultimi due decenni c’è spazio per il testo poetico stile vecchia scuola, come nel caso dei brani di Enzo Avitabile, Francesco Guccini, Marco Rovelli, Alessio Lega.

Illustrazione di Marilena Nardi dal libro “Era bello il mio ragazzo”

Poeti e intellettuali hanno scritto il testo di almeno una canzone di protesta. Ignazio Buttitta per Otello Profazio ”Lu trenu di lu suli”1964, Dario Fo “Il bonzo”,1975 e la splendida “Vincenzina e la fabbrica” con Jannacci, Roberto Roversi nel ’73 “L’operaio Gerolamo”per Dalla ne Il giorno aveva cinque teste e poi Amodei, Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli… Quanto è stata, è importante questo tipo di presenza?
“L’importanza della loro presenza è stata fondamentale ed è tanto più evidente se rapportata al silenzio e all’assenza di queste figure nel desolante periodo storico che stiamo vivendo da qualche anno a questa parte. Gli intellettuali, gli artisti, dovrebbero sempre rappresentare lo spirito critico di una comunità, dovrebbero essere la spina nel fianco del potere: a questo compito hanno adempiuto quelli del secolo scorso, pensiamo a Pasolini, Sciascia, Gadda, Bobbio… Roversi. Gli intellettuali di oggi, quando intervengono balbettano, e in ogni caso nulla possono contro l’invalicabile muro di gomma costituito da media per la maggior parte “embedded”, e dai social che sono veri e propri frullatori nei quali tutto viene mescolato, dal parere dell’esperto a quello dell’imbecille di turno, con la conseguenza che ogni argomento viene trasformato in una poltiglia insapore e incolore. Il terreno fertile che c’era nell’immediato secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta, non è nemmeno paragonabile al deserto creatosi dopo l’avvento del berlusconismo televisivo che ha preparato il terreno a quello politico. Sarà un caso ma c’è un “buco” discografico, per quanto riguarda le canzoni dedicate alle morti bianche, che va dal 1977 al 1994 come se gli incidenti mortali fossero inesistenti o non fosse più importante parlarne. Oggi, poi, la parola “intellettuale” è diventata un insulto, quasi oggetto di derisione.

Mi è un po’ mancata la citazione delle donne che pure hanno cantato lo sfruttamento e il dolore che ne derivava: Giovanna Daffini, Caterina Bueno, Rosa Balistreri, la cantastorie Dina Boldrini morta pochi anni fa, la fiorentina Lisetta Luchini autrice e cantastorie che racconta la realtà sociale della donna oggi e altre….
“Nel libro evidenzio il fatto che prima di avere una canzone dedicata a una lavoratrice e alla sua tragica scomparsa, si sia dovuto attendere il 2010, e che in tutto siano solo sei i brani che hanno per protagonista una donna, compreso il portoghese “Cantar alentejano”. Per quanto riguarda le donne “cantastorie” ho parlato diffusamente di Giovanna Marini anche per il fatto di aver firmato insieme a Pietrangeli il brano “Uguaglianza”, così come di Caterina Bueno e Giovanna Daffini in relazione a quell’importantissima esperienza di studio e riscoperta della tradizione popolare del nostro Paese, che fu il Nuovo Canzoniere Italiano. Lo so ce ne sarebbero tante altre da Rosa Balistreri a Lisetta Luchini, Francesca Prestia e Giada Salerno ma il mio lavoro non era incentrato genericamente sulla musica popolare ma sui brani che trattavano nello specifico l’argomento delle morti sul lavoro e per il lavoro. In ogni caso sono numerose le autrici (Tiziana Oppizzi, Gabriella Martinelli, Lucrezia Di Fiandra, Paola Rossato, Luciana Manca, Anna Maria Bragatto, Emanuela Risari, Mariella Nava), e le interpreti (Maria Carta, Anna Identici, Ornella Vanoni) presenti nell’antologia.

L’autrice:  Federica Taddei, già giornalista di Radio Rai, è poetessa. Tra le sue pubblicazioni, la raccolta di poesie Eravamo purissimi (Manni editore)

In apertura, illustrazione di Fabio Magnasciutti dal libro Era bello il mio ragazzo, Pendragon

Rinnovato il contratto dei metalmeccanici artigiani: un positivo risultato unitario

La stagione di costruzione della legge di Bilancio per il 2025 è segnata dalle diverse e legittime posizioni delle Confederazioni. Da una parte, la Cisl ha ritrovato nella proposta di legge di Bilancio l’accoglimento di alcune proposte sindacali: ad esempio il taglio del cuneo fiscale che diventa strutturale. Dall’altra, Cgil e Uil, invece, richiedono di cambiare più in profondità la manovra per aumentare salari e pensioni, finanziare maggiormente sanità, istruzione e servizi pubblici, e investire nelle politiche industriali. Da questa valutazione di Cgil e Uil discende la dichiarazione dello sciopero generale per il prossimo 29 novembre, che anche noi riteniamo che vada sostenuto.

A livello delle varie categorie, invece, l’unità sindacale regge e le Confederazioni lavorano compatte e la contrattazione produce risultati, con la firma di diversi accordi.
Ultimo, il rinnovo unitario del contratto nazionale dei lavoratori delle aziende artigiane metalmeccaniche, con vigenza 2023-2026, siglato la scorsa settimana, il 19 novembre: per parte datoriale da Cna, Confartigianato, Casartigiani e Claai e, sul fronte dei lavoratori, da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil. Il contratto riguarda i lavoratori artigiani delle imprese del settore metalmeccanico, dell’installazione di impianti, dei settori orafo-argentiero, autoriparazioni e odontotecnici, del restauro e, da questo rinnovo, anche i lavoratori che svolgono attività subacquee.

A dare il senso dell’accordo, una nota firmata da Michele De Palma, segretario generale Fiom-Cgil e Stefano Zoli, della Fiom-Cgil nazionale, che parlano di «un rinnovo contrattuale molto importante perché, in un contesto di instabilità, le parti contrattuali rinnovando il contratto nazionale hanno dato certezza al settore che interessa oltre 500mila lavoratrici e lavoratori occupati in 122mila imprese. Si tratta di un risultato fondamentale per la tutela e l’aumento dei salari delle lavoratrici e dei lavoratori artigiani metalmeccanici».
Che novità porta con sé questo rinnovo? In primo luogo, sul piano retributivo, l’accordo prevede un aumento salariale erogato in quattro tranche (l’ultima dal primo novembre 2026) per complessivi 120 euro. Inoltre, gli emolumenti riconosciuti a titolo di Afac (Acconto su futuri aumenti contrattuali) erogati fino a novembre 2024, diventeranno da dicembre a tutti gli effetti retribuzione tabellare portando la cifra complessiva di aumento a regime a 216 euro lordi mensili al quarto livello. Dunque, una risposta a quella questione salariale così evidente nel nostro Paese che vede nel potere d’acquisto uno degli elementi più critici sul piano sociale. E sulla quale, in modo particolare, si è invece incagliata la trattativa per il principale contratto del settore metalmeccanico non artigiano, quello che viene stipulato da Fim, Fiom, Uilm e Federmeccanica-Assistal e che riguarda un milione di lavoratori, che ha portato alla rottura con le organizzazioni dei lavoratori e a una dichiarazione unitaria di sciopero di 8 ore.
Vi sono, poi, nel contratto artigiano, positive innovazioni normative. Tra queste, vogliamo segnalare il raddoppio delle ore di formazione continua, da 8 a 16, per ogni lavoratore e la creazione di commissioni permanenti per monitorare l’evoluzione tecnologica e l’impatto dell’intelligenza artificiale nel settore.
Un risultato, complessivamente, ascrivibile a un approccio di qualità quanto unitario alla contrattazione. La storia di tutto il movimento sindacale ci dice, come recita un vecchio slogan sindacale, che “uniti si vince”. L’unità sindacale, insomma, rende più forti i lavoratori. Ci auguriamo che essa venga ritrovata al più presto anche dalle Confederazioni nazionali: si tratta di un valore al quale abbiamo sempre fortemente creduto.

Il fermaglio di Cesare Damiano. L’autore: sindacalista, già ministro del Lavoro, è presidente di Lavoro e Welfare

In foto un momento di duro confronto fra i rappresentanti dei sindacati di metalmeccanici e di Confindustria il 30 maggio 2024 (da sinistra Ferdinando Uliano, Fim, Rocco Palombella Uilm e Michele De Palma Fiom Cgil

Perché Forza Italia non vuole abbassare il canone Rai

Forza Italia si è espressa chiaramente contro la proposta di riduzione del canone Rai avanzata dalla Lega. Il segretario del partito, Antonio Tajani, ha dichiarato: «non fa parte del programma e quindi è una proposta che noi non condividiamo, perché si rischia di fare un danno alla televisione pubblica che altrimenti dovrebbe essere finanziata diversamente». Tajani ha sottolineato che abbassare il canone potrebbe indebolire la Rai, un’azienda che rappresenta l’Italia all’estero e offre lavoro a migliaia di persone.

Anche Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato, ha espresso scetticismo riguardo alla riduzione del canone, affermando che se si abbassa il canone, aumentano i trasferimenti alla Rai, e l’esborso rimane invariato. Raffaele Nevi, portavoce nazionale del partito, ha ribadito che la proposta non fa parte dell’accordo di governo e che Forza Italia è contraria, sottolineando la necessità di un servizio pubblico forte che possa competere con il settore privato e i grandi gruppi stranieri.

Anche Alessandro Cattaneo, responsabile dei Dipartimenti di Forza Italia, ha espresso la posizione del partito sul canone Rai. In un’intervista ad Affaritaliani.it, Cattaneo ha affermato: «noi di Forza Italia crediamo che non vada toccato ulteriormente il canone Rai».

Nessuno ha detto che abbassare il canone Rai significherebbe alzare la raccolta pubblicitaria della televisione pubblica e quindi aumentare la concorrenza pubblicitaria con le reti Mediaset. Il canone Rai è un caso scuola di retorica nascondente: si dice tutto tranne il vero motivo di una posizione politica. Come certe pubblicità.

Buon mercoledì.