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Altro che reato universale

La definizione reato universale la dice lunga sulle intenzioni dei legislatori nel proporre questa legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 18 novembre scorso e meglio nota come la legge sulla gravidanza surrogata o gestazione per altri.
Si tratterebbe di un reato universale come la guerra e la pedofilia ovvero qualcosa che universalmente tutti riconoscono essere qualcosa di gravissimo.
Invece le cose non stanno così.
La parola “universale” sta lì solo nel tentativo di confondere, di spaventare, di minacciare, infatti in tanti Paesi a cominciare dagli Stati Uniti viene permesso questo tipo di intervento e quindi neppure in questo senso si può parlare di reato universale.
Questo governo sembra avere un progetto culturale oltre a quello politico e questa legge sembra situarsi in questo solco. Ma perché tanta enfasi su un argomento che dovrebbe essere strettamente privato? Si tratta in definitiva di una possibilità che la tecnica offre alle coppie sterili per procreare con l’aiuto di una donna che accetta di farlo ovviamente liberamente e non costretta in alcun modo. In questo ultimo caso il reato sarebbe di chi costringe la donna, potrebbero essere organizzazioni più o meno criminali che speculano su questi aspetti e la legge qui potrebbe giustamente intervenire.
Vogliamo qui cercare di fare chiarezza su un argomento che purtroppo è sempre stato il campo di battaglia di ideologie e convinzioni che non dovrebbero dettare le leggi e tantomeno scatenare crociate nel terzo millennio. La Chiesa cattolica in particolare cerca ancora di imporre le sue idee alla scienza e purtroppo in Italia ha ancora un largo seguito.
Come scrive con grande semplicità e chiarezza sul numero in uscita della rivista Il sogno della farfalla la ginecologa Anna Pompili, ci sono tre parole che vengono considerate sinonimi ma per la scienza non lo sono affatto: l’embrione non è un feto e questo non è un bambino.

Giorgia Meloni e le donne, predica tanto e razzola male

La presidente del Consiglio non delude mai (i suoi mentori). Quando si tratta di riaffermare il secolare dominio maschile sulle donne lei non si tira mai indietro. Ormai possiamo dirlo con certezza dopo più di due anni che è al governo.
Del resto lo aveva annunciato fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi, chiedendo di essere chiamata «il presidente del Consiglio». Coerentemente con questa scelta di identificazione con un modello di comando autoritario maschile promuove il premierato (l’uomo solo al comando) e usa il pugno duro della legge (spesso raffazzonata e piena di falle giuridiche) per tacitare qualunque problema di ordine sociale, additando über alles gli immigrati «irregolari» come capro espiatorio.
Le falsissime affermazioni (smentite da tutti i dati Istat, Eures ecc) che Valditara ha scagliato come pietre proprio alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, uccisa dall’italianissimo Filippo Turetta sono arrivate come un pugno nello stomaco: «Parlare di patriarcato è solo fare ideologia», ha detto il ministro dell’Istruzione e del merito E poi: ha aggiunto: «Aumentano le violenze sulle donne? Colpa dei migranti».
Giorgia Meloni nei giorni successivi ha pensato bene di rincarare la dose. Intervistata dalla direttrice di Donna moderna, la presidente ha ribadito che i maggiori responsabili delle violenze sessuali sono «gli immigrati arrivati illegalmente». Ed ha aggiunto: «Quando non hai niente si produce una degenerazione che può portare da ogni parte». In pratica ha parlato della povertà come di una condizione criminale.
Per chi avesse ancora avuto bisogno di prove del razzismo e del classismo che detta la linea politica della nostra presidente del Consiglio eccole squadernate. Ma è difficile non intravedere anche una certa dose di misoginia, ricordando anche i paternalistici consigli che Meloni dispensava alle giovani (facendo eco a Giambruno), raccomandando loro di stare attente perché fuori casa c’è il lupo. E non erano solo prediche di Giorgia, madre e cristiana. Dal 22 ottobre 2022 il governo Meloni, «il primo nella storia d’Italia ad essere guidato da una donna», come si legge sul sito del governo, non ha fatto nulla per migliorare la condizione delle donne in Italia. Anzi ha prodotto una serie di provvedimenti che mettono il bastone fra le ruote alle donne che cercano di emanciparsi, di realizzare se stesse e di vivere liberamente gli affetti, le relazioni e la propria sessualità.
Ma cominciamo dalla questione più macroscopica e concreta, quella del lavoro.
Meloni dice che non ci sono mai state così tante donne al lavoro nella storia italiana. Bene, ma i dati (Istat, Lavoro e Welfare ecc.) ci dicono che in Italia lavora una donna su due e che dopo aver avuto figli spesso si è costrette a lasciare il lavoro. Le analisi documentano che le donne sono spesso obbligate al part time involontario, hanno lavori perlopiù precari e (se e quando) raggiungono posti di maggiore responsabilità sono pagate meno degli uomini, a parità di mansione. E il governo Meloni che fa? Dopo aver cancellato il reddito di cittadinanza, nega il salario minimo, ha tagliato i fondi del Pnrr alla costruzione di asili nido e ai Comuni per i servizi, tartassa le giovani madri aumentando l’Iva sui prodotti sanitari per bambini, penalizza le donne single e senza figli facendo loro pagare più tasse delle altre, penalizza le meno giovani tagliando opzione donna per la pensione. E la lista potrebbe continuare ancora.
L’ossessione per la natalità del governo Meloni, a ben vedere, è contraddetta dalle sue stesse politiche. L’ideologia di una mitologica famiglia naturale e di sangue che ha portato questo governo onnipotentemente a pensare di poter perseguire su tutto il globo terracqueo le coppie che ricorrono alla gestazione solidale, cozza con il diritto internazionale, punisce le coppie infertili, nega i diritti dei bambini.
Il governo Meloni fa di tutto per riportare a tutti i costi le donne in casa a fare figli nell’ambito della famiglia tradizionale anche se questo significa esporle a violenze, maltrattamenti, abusi e femminicidi, dacché è proprio nell’ambito domestico che si registrano maggiormente. In proposito la presidente del Consiglio rivendica di aver promosso il reddito di libertà per le donne che hanno subito violenze. Benissimo, ma si tratta di 400 euro al mese, per soli 12 mesi. E come ha fatto notare la sociologa Chiara Saraceno è una misura, non solo a tempo limitato, ma che offre loro una cifra perfino inferiore a quella prevista dall’assegno di inclusione.
L’ossessione per la natalità di stirpe italica che impronta la Lega e Fratelli d’Italia, genuflessi ai diktat di un club per soli uomini, la Chiesa cattolica, fa sì che le donne che decidono di interrompere una gravidanza in Italia debbano affrontare un percorso ad ostacoli. D’accordo, ancora non hanno abolito la legge 194 ma impediscono con ogni mezzo alle donne di esercitare un proprio diritto. Non bastavano le percentuali bulgare di ginecologi obiettori. Ora, grazie al governo Meloni, le associazioni di integralisti religiosi anti abortisti possono imperversare nei consultori pubblici, accusando le donne di essere delle assassine e dando dei sicari ai medici che praticano interruzioni di gravidanza (il papa docet). In un’epoca in cui c’è molto da fare ancora per decostruire e fermare la sopraffazione e il dominio degli uomini sulle donne, Meloni nega che ci sia un problema culturale di mentalità patriarcale che ancora persiste, al di là delle leggi. Tant’è che non vi è più traccia neanche di quella pur discutibile proposta di educazione affettiva nelle scuole di cui aveva parlato Valditara. Guai a parlare di educazione sessuale, potremmo finire arrostite sul rogo come streghe.

Il nuovo mondo

L’elezione di Trump per molti versi inaspettata ha scombinato le carte di una prospettiva politica internazionale che era stata pensata e vista, perlomeno dalla gran parte dei media, come già definita con la sua sconfitta. La domanda che dobbiamo farci ora è quanto effettivamente cambierà la politica americana, in particolare la politica estera e quali conseguenze potrà avere.
Domanda a cui rispondere è molto difficile se non impossibile, sia per l’imprevedibilità del personaggio Trump, sia perché il presidente americano è comunque soggetto ad altri poteri fortissimi come l’apparato militare e quello delle imprese tecnologiche americane. Certamente può essere di aiuto ricordare quelle che sono state le mosse di Trump nel suo precedente mandato: l’avvicinamento alla Russia di Putin e il contrasto con la Cina di Xi sono state certamente sorprendenti all’epoca, che hanno interrotto una storia di decenni di contrapposizione militare tra le due grandi potenze atomiche. Politica completamente rivista e ripristinata come era in precedenza dalla presidenza Biden, in particolare con il sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa dal 2022. L’aspettativa che Trump abbia la soluzione del conflitto ucraino è altissima e forse anche per questo il mese di novembre, dopo l’elezione del nuovo presidente, ha visto paradossalmente un’intensificazione del conflitto, come a cercare di raccogliere il più possibile prima della auspicata trattativa di pace.

Ma oltre alla guerra in Ucraina tanto è cambiato dal 2000 al 2024. La pandemia ha accelerato e reso evidenti trasformazioni che forse avrebbero impiegato di più a manifestarsi. In particolare ci sono alcune novità che credo vadano considerate e che dimostrano come la possibilità di leggere correttamente la realtà del mondo a partire da una visione americano-centrica o euro-centrica ormai è completamente superata. Nel corso perlomeno degli ultimi due secoli, il potere politico è sempre stato associato a quello militare. È del tutto evidente che questo potere deriva anche da un dominio della scienza e quindi della tecnologia da parte degli europei e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, con la costruzione della bomba atomica, degli Stati Uniti e dell’Urss e poi della Russia.
Tale potere tecnologico è stato ed è ancora potenza militare, ma nel tempo è diventato sempre più soft-power. Si è compreso che è molto più efficace dominare avendo il controllo delle piattaforme tecnologiche che usiamo tutti i giorni piuttosto che imporre con la forza militare il dominio sugli altri. Le tante “piccole” guerre condotte dagli americani, tutte pressocché fallimentari nell’imporre un nuovo ordine, lo stanno a dimostrare.
Questa “invasione” e dominio tecnologico americano nel mondo si è realizzata in particolare nel corso degli ultimi 30 anni tramite la rete Internet, invenzione del Darpa americano, che è diventata pervasiva grazie al Web, che in realtà è un’invenzione europea realizzata al Cern.

L’informatica, da materia riservata a calcoli e archivi, è diventata centrale nello sviluppo delle comunicazioni e oggi questa materia, l’Information Technology, è diventata centrale nello sviluppo di ogni settore economico. La digitalizzazione non è altro che applicare tecnologie e metodi di processo informatizzati a tutti quei settori che ancora non lo sono e che usano procedure e processi manuali o semi-manuali non dematerializzati.
In tutto ciò, gli Usa sono riusciti ad appropriarsi del mezzo e a renderlo pervasivo, di fatto colonizzando e rendendosi indispensabili per le attività di gran parte del mondo. Se per esempio oggi dovessimo pensare che gli Usa decidano di bloccare l’uso di Google in Europa ci sarebbero conseguenze economiche catastrofiche di portata enorme. Per non parlare del potere che deriva dal poter leggere il contenuto delle comunicazioni che avviene nel mondo senza la necessità di costose apparecchiature di intercettazione. Siamo noi che ci affidiamo a reti e servizi in mani non europee. Non a caso questi servizi così fondamentali non sono stati bloccati dalle sanzioni Usa verso la Russia, proprio perché si sa che questo potrebbe essere visto come un’aggressione diretta che potrebbe mettere in crisi in maniera profonda l’economia.

L’Europa ha cercato di limitare questo strapotere con una legislazione che però, di fatto, è insufficiente e in realtà limitante per molte delle attività economiche europee (es. le ultime norme sulla IA). La vera sfida futura per l’Europa sarebbe invece quella di cercare di ritrovare una capacità tecnologica che sia indipendente dagli Usa. In realtà nel mondo c’è già chi è riuscito ad essere indipendente dagli Usa ed è la Cina. Tutto è iniziato con una limitazione dell’accesso all’Internet americana e di conseguenza al contempo alla creazione di servizi analoghi per i cittadini cinesi. Quella che qui è stata vista come censura possiamo anche leggerla come protezione dall’invasione tecnologica Usa in Cina. Oggi sappiamo che in realtà non è stato solo difendersi da una tecnologia straniera. Perché il fatto è che in molti dei servizi cinesi alternativi a quelli occidentali non si tratta solo di copie di ciò che “abbiamo” qui in occidente, ma si tratta anche di altro che qui non esiste. Per fare un solo esempio, la piattaforma WeChat, applicazione di messaggistica che si è evoluta diventando un sistema di pagamento, che si è diffusa cosi tanto che ha di fatto rimpiazzato i sistemi di pagamento con carta di credito occidentali che in Cina non vengono quasi più accettate.
Altro esempio è TikTok, con il quale la Cina ha dimostrato di essere capace di produrre una piattaforma in grado di competere con i giganti occidentali (Facebook, instagram, etc) e addirittura inventando nuove modalità di fruizione dei contenuti social con l’introduzione dei video brevi verticali e lo scorrimento verticale. Instagram, Facebook e Youtube hanno dovuto loro copiare il rivale cinese introducendo i Reel sulle loro piattaforme. E sappiamo quanto l’amministrazione americana, non solo quella di Trump, vorrebbe bloccare la diffusione di TikTok in Usa. Ma il servizio cinese è usato da milioni di cittadini e quindi di fatto non si può eliminare da un giorno all’altro.

Altra notizia recentissima, peraltro completamente ignorata dai media occidentali – anche questo fatto da sottolineare – è che Huawei, malgrado le sanzioni cui è soggetto che le impediscono l’accesso alle tecnologie più avanzate per la produzione dei circuiti integrati, è riuscita a costruire microchip con tecnologia a 7nm, molto meglio della migliore tecnologia occidentale che arriva a 9nm. Cioè Huawei (e la Cina) è riuscita a sviluppare una nuova tecnologia innovativa senza alcun intervento dell’occidente. Tutti questi esempi (e ce ne sono molti altri) per dire che la Cina sta diventando (o forse è già diventata) il motore di innovazione tecnologica del mondo, con tutto ciò che questo comporta e comporterà in termini di politica estera europea e americana.
Il mondo nuovo si sta creando là ed è questo che dovremmo cercare di capire e vedere per capire cosa ci aspetta nel futuro. Ma al di là dei casi specifici secondo me è interessante considerare come gli americani si trovino in oggettiva difficoltà anche perché emerge chiaramente che l’innovazione tecnologica non è una loro esclusiva. Le incertezze per il futuro sono quindi nel possibile conflitto tra Usa e Cina prima di tutto su questo piano di controllo tecnologico. Perché gli Usa si stanno sempre più rendendo conto di non essere più i soli innovatori del mondo e non saranno più gli esclusivi detentori del soft-power che hanno avuto fino ad oggi.
Dobbiamo sperare che la perdita di questo potere non corrisponda ad un tentativo di riaffermare il dominio politico con la forza militare. Io penso che le domande su cosa farà Trump, gli Usa e anche l’Europa vadano declinate in questa prospettiva.

L’illusione Macron: il mito che ha sedotto i riformisti italiani

Macron e Gentiloni al G7 del 2017

Chissà cosa ne dicono gli illuminati commentatori riformisti, quelli che da anni celebrano Emmanuel Macron come il faro del riformismo europeo, che a lui hanno dedicato partiti personali delle dimensioni di un cespuglio e che in lui vedevano la faccia presentabile del governare con la destra, con politiche di destra, fingendo di essere progressisti.

Chissà dove sono oggi anche coloro che hanno celebrato la nascita del governo Barnier come un “capolavoro politico”, sfregandosi le mani per un presidente che ha arginato la destra nelle elezioni appoggiandosi a sinistra, salvo poi mettere in piedi un governo con la destra escludendo la sinistra.
Sono gli stessi che stamattina firmano editoriali in cui ci spiegano quanto sia vergognoso che la sinistra abbia votato con la destra, quella stessa destra che fino a ieri applaudivano al governo. Il cortocircuito della politica francese è il paradigma della politica europea: potabilizzare i sovranisti non modifica la loro natura. Marine Le Pen rimarrà sempre Le Pen, perché ne va della sua sopravvivenza politica. A Bruxelles, Giorgia Meloni tornerà presto a essere la solita Meloni per mantenere il suo elettorato.

Si legge oggi sui giornali che quello di Macron fosse “l’unico governo possibile”. Due righe più sotto, ci si lamenta che quelli spediti a fare opposizione si siano permessi di fare opposizione. La politica è un esercizio che richiede serietà: la Francia (e non solo) si sta sgretolando sotto il peso del suo debito pubblico. Farsi vetrina con le Olimpiadi e con il recupero di Notre-Dame non sistema i conti pubblici. Scegliere come sistemare i conti è politica, e per questo conviene farlo con gente che, generalmente, sia d’accordo.

Buon giovedì.

Trump, Musk e il lato oscuro del tecnocapitalismo

Molti interrogativi sulla presidenza Trump saranno sciolti solo a posteriori. Troppe le variabili in gioco, troppo alta l’imprevedibilità del personaggio, troppo oscura la struttura di potere che lo sostiene e che condiziona la politica del Paese. Alcuni dati di fondo è comunque utile richiamarli.
In primo luogo, certamente, la vittoria di Trump costituisce un passaggio decisivo che vede l’ordine neoliberale evolversi nel peggiore dei modi. Possiamo individuare un passaggio essenziale per quest’evoluzione nella grande crisi degli anni 2008-2011, quando i veli sono caduti. Mentre le fasce sociali più disagiate pagavano i costi della crisi in termini di posti di lavoro e di politiche di austerità, fiumi di danaro a bassissimo costo sono stati indirizzati al salvataggio di un sistema finanziario fallito, generando, nella sostanza, il socialismo per i ricchi e l’ordine di mercato per i poveri. Gli squilibri nella distribuzione della ricchezza hanno assunto dimensioni ancor più spropositate.
In quegli anni la cosiddetta sinistra, dall’amministrazione Obama ai socialisti e socialdemocratici europei, ha mancato di sottrarsi all’abbraccio con il neoliberismo morente, facendosi invece paladina di quell’ordine. L’ascesa di forze antisistema e di forze nazionaliste e fasciste, non può essere letta se non alla luce dell’erosione del consenso all’ordine neoliberale e della mancanza di sbocchi politici per la protesta sociale.
Le modalità con cui quella crisi finanziaria è stata affrontata ha generato un fenomeno a cui al tempo si è prestata poca attenzione. Infatti, mentre la finanza speculava con lo sguardo rivolto ai profitti nel brevissimo periodo, questi fiumi di liquidità a bassissimo costo venivano anche intercettati dai colossi del digitale. Così, oltre a far esplodere i valori dei titoli finanziari, della borsa, degli stipendi dei manager e dei fondi nei paradisi fiscali, questa disponibilità di danaro ha consentito alle grandi imprese tecnologiche di fare la loro scommessa: non sulla vendita di un determinato prodotto, ma sul controllo della società. Facebook, Amazon, Google, Microsoft, Apple, come anche tante altre società e piattaforme, hanno puntato sulla realizzazione e sul controllo di ecosistemi dove si mettono in comunicazione utenti e fornitori di beni e servizi, in cambio di un pagamento che può essere monetario, o avvenire con la cessione dei dati personali degli utilizzatori della rete.

Il nuovo modello di business ha modificato in profondità il funzionamento del capitalismo e le modalità di estrazione del profitto. Qui, infatti, non vi è né mercato né concorrenza, ma vi è un potere esercitato tramite il controllo di reti e infrastrutture che sono ormai indispensabili per una serie sempre più ampia di attività [cfr. Left, febbraio 2024, A. Ventura, L’unione dei diritti e i padroni (digitali)]. Queste tecnologie sono inoltre centrali ai fini del controllo delle classi politiche nei vari Paesi da parte del Paese egemone – gli Stati Uniti – dello spionaggio, della competitività industriale e della guerra. Il nuovo capitalismo, comunque, è ben radicato nelle oligarchie tradizionali: tre fondi di investimento (BlackRock, Vanguard e State Street) sono i principali azionisti di quasi il 90% delle società quotate a Wall Street, comprese quindi quelle tecnologiche.
Il passaggio che ha visto la crisi dell’ordine neoliberale, le modifiche strutturali del capitalismo e l’ascesa di forze antisistema orientate al recupero della sovranità nazionale, con venature razziste, xenofobe e talvolta chiaramente fasciste, ricorda il ciclo storico che si è svolto in Europa negli anni Venti e Trenta del secolo scorso come ricostruito da Karl Polanyi nel suo testo magistrale, La grande trasformazione. Nel volume l’ascesa del fascismo è ricondotta al crollo dell’utopia del mercato autoregolato, cioè dell’idea che il mercato possa essere il principio organizzativo dell’intera società. Bene o male la società reagisce quando i guasti prodotti dall’ordine liberale divengono evidenti. Questa rivolta sociale è un fatto che si impone alla politica: si tratta di vedere quali forze riescano ad intercettarla. Il disastro odierno (come quello di allora) deriva dal fatto che le forze del socialismo non sono in grado di farlo. Purtroppo, quello che si profila con la vittoria di Trump non è il superamento della mercificazione della società, ma la saldatura tra un capitalismo che sfrutta tecnologie avanzatissime e un autoritarismo volto a demolire quel che resta del precario equilibrio tra mercato e democrazia che ha caratterizzato il secondo dopoguerra. Dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, al Project 2025, al movimento MAGA (Make American Great Again), assistiamo all’ascesa di un ultraricco che cavalca la protesta sociale e raccoglie consensi da ceti che dal partito repubblicano erano assai distanti, modificandone i connotati.

Vi è un ulteriore e inquietante aspetto che merita attenzione. Infatti, sull’onda di un presupposto duro a morire contro ogni intervento governativo che non sia a proprio vantaggio, una parte consistente degli imprenditori del settore tecnologico si è schierata dalla parte di Trump. L’argomento contro ogni regolamentazione del settore non verte solo sulla difesa del principio della libera iniziativa privata, ma sull’idea che siamo sulla soglia di radicali cambiamenti tecnologici che non è opportuno ostacolare. In particolare, gran parte della ricerca sull’intelligenza artificiale si pone l’obiettivo della realizzazione di una intelligenza artificiale generale (AGI) e ritiene che saremmo sul punto di conseguirla. Ogni rallentamento verso quest’obiettivo avrebbe costi sociali incalcolabili. Infatti, a differenza dei modelli di IA attualmente in uso, che riescono con enorme successo a svolgere compiti specifici (gioco degli scacchi, del Go, traduzioni, simulazioni, soluzioni di problemi matematici e statistici utili a diverse discipline e quant’altro), la AGI, come la mente umana, sarebbe capace di affrontare qualsiasi problema gli venga posto.
Nella sostanza, una volta assimilato il pensiero umano alla razionalità e alla capacità di calcolo, e posta la convinzione diffusa secondo la quale le macchine possano riprodurlo, ne segue che, per la mole di informazioni a cui una macchina può accedere, la AGI sarebbe in grado di superare gli esseri umani anche nella programmazione delle macchine stesse, migliorandole in misura esponenziale. Questa esplosione dell’intelligenza, detta “singolarità”, risolverebbe tutti i problemi che noi umani non siamo in grado di affrontare, da quello dell’ambiente a quello della morte, fino prospettare la colonizzazione di altri mondi, forse non col nostro corpo ma grazie a supporti in grado di diffondersi nell’universo. Dunque prima raggiungiamo l’AGI e meglio è per tutti.

Coloro che, fiduciosi in queste fantasmagoriche prospettive, scelgono di crioconservare il proprio corpo – oppure solo la propria testa per risparmiare qualcosa– in attesa che la scienza possa recuperare la loro coscienza e caricarla su una macchina per l’eternità ci interessano poco. Sono deliri, certo, ma questi e tanti altri deliri che circolano negli ambienti della Silicon Valley hanno effetti sul nostro presente. Anzitutto indirizzare fondi ingentissimi verso l’obiettivo della post-umanità distoglie risorse ed energie da compiti più utili e realistici, quali quelli di sviluppare programmi meno energivori e più controllabili nei dati che utilizzano e nei risultati che offrono. In secondo luogo, come è stato osservato, queste filosofie trans-umanistiche si ricollegano a vecchie idee razziali che, tramite l’eugenetica, proponevano la realizzazione di una razza superiore in grado di dominare il mondo nei millenni a venire. Queste utopie portano anche al disinteresse verso problemi urgenti dell’oggi (clima, inquinamento, discriminazioni, ingiustizie, povertà, rapporti di potere squilibrati), sacrificati invece per la corsa verso un’AGI che, contrariamente a noi umani, sarebbe in grado di risolverli tutti in maniera efficace.
Bostrom, Thiel, Musk, Altman, Page, Kurzweil e tanti altri ingegneri, filosofi, magnati e miliardari, pur nelle vivaci polemiche che li dividono su numerose questioni specifiche, sono troppo spesso preda di visioni ipertecnologiche condite da ideologie razziali e disumane, sostenute da una onnipotenza che ci prospetta un mondo da incubo. Elon Musk è scettico nei confronti della singolarità, ma ritiene che sia possibile migliorare nostre le capacità cognitive inserendo dei chip nel cervello, realizzando per questa via una post-umanità dove l’intelligenza umana è fusa con quella artificiale. La società da lui fondata, Neuralink, ha questo come missione aziendale. La foto del razzo lanciato nello spazio postato sulla sua piattaforma X in occasione della vittoria di Trump indica non solo che egli farà affari con le commesse spaziali del Pentagono, ma suggerisce anche che questa nuova classe tecno-capitalista pensa di inaugurare una fase nuova per l’umanità.
Tornando a Trump, l’eterogenea composizione delle forze che lo sostengono difficilmente può comporre un programma politico coerente per il governo del Paese. Disastri invece, purtroppo, essa ne può generare: dalla semplicistica soluzione dei problemi economici con la riduzione delle tasse, l’eliminazione dei servizi sociali e i dazi alle importazioni, alla facile costruzione del nemico nell’immigrato, alla promessa della pace in Ucraina in 24 ore, alla negazione degli incombenti cambiamenti climatici, all’utopia di una AGI in grado di resuscitare i morti e colonizzare l’universo, la principale vittima di questa fase storica sembra essere il rapporto con la realtà.

L’autore: Già docente di economia politica, Andrea ventura è autore di numerosi saggi, fra i quali Il flagello del neoliberismo (L’Asino d’oro edizioni). Per la stessa casa editrice ha curato il saggio Pensiero umano e intelligenza artificiale

Nella foto: Elon Musk e Donald Trump, 16 novembre 2024

Ha ragione Gino Cecchettin: gli sconfitti siamo noi

Ha ragione Gino Cecchettin. Dice di sentirsi sconfitto anche se gli sconfitti siamo noi. Non tutti, badate bene: gli sconfitti siamo noi maschi privilegiati. Privilegiati perché bianchi o comunque non troppo scuri; privilegiati perché credenti o comunque assimilabili alla religione giusta; privilegiati perché non troppo poveri, non troppo periferici, non troppo ignoranti, non troppo classificabili nelle categorie del Biagio; privilegiati perché figli di una famiglia definibile buona (ma che cosa rende buona una famiglia?); privilegiati perché abbastanza furbi da non mostrare la natura che ci è stata instillata.

Ha ragione Gino Cecchettin perché l’ergastolo e qualsiasi altra sentenza sono elementi che afferiscono al dopo. Nel “dopo” è comodo e facile spremere un bicchiere di indignazione pubblica, inscenare solidarietà e fingere di non sapere che il percorso processuale non ha niente a che vedere con la vicenda umana e con le radici di quell’assassinio.

Il padre e i fratelli di Giulia Cecchettin hanno deciso di fissare l’asticella della giustizia all’estirpazione di una natura che è della società più che delle aule di giustizia. Per questo Gino Cecchettin è mortificato, percepito come un incontentabile progressista. Con sua figlia Elena è stato più facile: lei è femmina e il cassetto delle streghe sta lì aperto da secoli.

La sentenza riordina le carte, ma non tocca le corde dell’immarcescibile stato delle cose. La sentenza parla di Turetta. I Cecchettin, invece, si sono messi in testa di parlare di noi. Forse per questo alcuni tirano un sospiro di sollievo pensando che la storia sia chiusa.

Buon mercoledì.

“Hands” di Carnevale e Graziani, un dialogo di suoni in libertà

Tony Carnevale è un musicista, ricercatore e formatore che ha scritto e prodotto musiche originali per la discografia, la televisione, il cinema, il teatro e la danza. Autore di nove lavori discografici personali ha collaborato con esponenti storici del Progressive italiano – come Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese del Banco del Mutuo soccorso. Dal 1986 svolge una ricerca che lo ha portato a scrivere diversi saggi nei quali affronta la musica come linguaggio espressivo-rappresentativo, fino ad elaborare il metodo “Anora, (acronimo di “approccio non razionale al movimento creativo”) con il quale conduce dal 2000 dei particolari laboratori creativi di formazione musicale. Stefania Graziani, diplomata in pianoforte e musica da camera, si è successivamente formata dal punto di vista compositivo nei medesimi laboratori musicali Anora all’interno dei quali ha realizzato nel 2021 il suo primo album come compositrice, La musica cambia.  La loro collaborazione nasce quindi da un lungo sodalizio artistico cresciuto e maturato all’interno dell’associazione.

”Hands” (Soundtrack Records) è il loro nuovissimo album realizzato ”a quattro mani” in uscita il 6 dicembre. Non è semplicemente un disco per due pianoforti o per pianoforte e tastiere, ma si caratterizza immediatamente per una complessità di approccio, nel quale certe atmosfere cameristiche evolvono in un dialogo tra tastiere ed orchestra, fino a raggiungere in alcuni brani un ampio espiro sinfonico.

Come nasce l’idea di questo disco?

Tony Carnevale: Parte tutto dall’evoluzione del lavoro nei laboratori musicali che si svolgono all’interno della nostra associazione,  e dopo oltre vent’anni di attività abbiamo deciso di iniziare questa nuova sperimentazione in una situazione relazionale diversa, facendo un salto di qualità, passando da un rapporto di formazione specifica ad una relazione di collaborazione artistica, cominciando a lavorare insieme su questo lavoro  che è l’opera prima all’interno del nostro  “Anora Project”.

Stefania Graziani: Parto dalla mia esperienza personale, e da questo lungo percorso artistico realizzato insieme a Tony all’interno dei laboratori, che mi ha portato ad evolvermi dal ruolo specifico di pianista ed  esecutrice a quello più ampio di compositrice ed interprete,  approdando tre anni fa alla realizzazione del mio album La musica cambia. Si tratta di una tappa fondamentale che mi ha dato la possibilità di cominciare ad esprimermi attraverso la musica in maniera creativa, superando tutti quei blocchi e quegli steccati nei quali mi sentivo imprigionata, a partire dalla rigida impostazione da pianista classica dalla quale provengo. C’è stata quindi un’evoluzione che mi ha permesso di sviluppare nuove capacità e nuove possibilità con il passaggio dal ruolo di allieva a quello di collaboratrice, in un rapporto con Tony tra “Uniti e distinti” come recita il titolo di uno dei brani del disco.

Come si è sviluppato il processo compositivo “a quattro mani”?

Stefania: Vorrei partire proprio dai due brani che aprono e chiudono il disco. Il titolo stesso del brano iniziale “Nelle tue mani” vuole esprimere un profondo sentimento di fiducia che ciascuno pone nelle mani nell’altro. Tutto parte da qui: mettersi nelle mani dell’altro, affidarsi e fidarsi, il senso di un rapporto interumano che non rischia di deludere. “Passo a due” è invece l’emozionante epilogo, scritto appositamente da Tony, rappresenta la storia del rapporto di amicizia e collaborazione artistica che c’è stata tra noi due.

Tony: Questo è il primo brano che ho scritto per due pianoforti; è un omaggio a Stefania che in qualche modo ha la pretesa di riassumere poeticamente la genesi di questo lavoro. Dal punto di vista musicale dopo una prima fase caratterizzata dalle note gravi della tastiera nelle quali è l’elemento maschile a stimolare il processo creativo, in una seconda fase è l’elemento femminile a prendere l’iniziativa, lui la segue sostenendola, per poi allontanarsi progressivamente fino quasi a scomparire, finché un breve intervento dell’orchestra sinfonica va a chiudere in brano.

Dal punto di vista della realizzazione del disco c’è stata invece una divisione dei compiti?

No, anche nell’esecuzione dei brani e nel lavoro in studio abbiamo sempre operato “a quattro mani” – ribadiscono i due artisti – sia nella parte pianistica che in quella orchestrale che è stata realizzata interamente in studio tramite campionamenti elettronici. Ci tengo però a precisare – sottolinea Tony –  che tutto il lavoro è stato fatto suonando gli strumenti campionati uno ad uno sulla tastiera, quasi a voler sottolineare l’approccio “artigianale” alla musica, che vuole e deve rimanere appunto un lavoro “fatto a mano”, il più realistico possibile, laddove il suono di ogni singolo strumento rimane perfettamente riconoscibile. In questo senso – prosegue Stefania – Hands porta con sé altre chiavi di  lettura: mani, come le mani che usiamo per “fare” e per suonare, mani che seguono il movimento del pensiero per realizzare concretamente forme artistiche, mani che esprimono quindi una fusione tra mente e corpo. Ma il titolo vuole essere anche un riconoscimento e un omaggio alle mani delle persone che con il loro lavoro mandano avanti la nostra associazione e anche a quelle del pubblico che ci sostiene.

Il disco ha un approccio in alcuni momenti quasi “cameristico”, mentre in altri si apre ad una forma compositiva orchestrale più ampia.

Tony: Io come compositore tendo a ripartire dalle mie radici musicali che si ricollegano ad un certo polistrumentismo, tipico ad esempio della musica “progressiva” degli anni Settanta, che in qualche modo abbiamo rievocato anche nel brano “Incontri possibili”, nel quale il suono di un clavicembalo “ben temperato” si incontra con un flauto dal ruvido soffio “sporcato”, quasi un nuovo incontro tra Bach e Jan Anderson, mezzo secolo dopo il celebre “Bourée” dei Jethro Thull. Tutto questo per sottolineare il tentativo che porto avanti da sempre di voler superare gli steccati tra i vari generi musicali proponendo musica di libera espressione artistica, svincolata dai condizionamenti del mercato, ma allo stesso tempo fruibile e comunicativa, anche se difficilmente riconducibile a un genere preciso.

Stefania Graziani e Tony Carnevale

Alcune composizioni – come “Viaggio senza dove” – sembrano rimandare, anche nei titoli, ad atmosfere vicine a quelle di una colonna sonora?

Tony: Che si lavori sulle idee – immagini e sul suono – non è solo una mia ricerca poetica personale, ma in realtà tutto il lavoro svolto nei laboratori è sempre stato focalizzato all’idea di creare un racconto per immagini. Anche il sottotitolo del mio precedente disco Tu che mi puoi capire recita “Immagini per pianoforte e orchestra”; c’è sempre un filo narrativo che punta ad evocare immagini e a stimolare a sua volta la creatività e la fantasia dell’ascoltatore. Un procedimento che è del tutto diverso da quello che ho normalmente utilizzato nella composizione di una colonna sonora – come nel caso del recente docufilm Vakhim di Francesca Pirani – laddove le immagini esistono già a priori. Quindi il nostro atteggiamento artistico è precipuamente finalizzato a suscitare immagini, e a mantenere uno sviluppo narrativo basato sulla dinamica espressiva e sul flusso emozionale.

Stefania: Se non fossi partita da questi presupposti non sarei mai arrivata ad evolvermi come compositrice, superando l’atteggiamento e l’approccio “tecnico” che la mia rigida formazione classica mi aveva imposto. Nel tempo ho realizzato che per comporre il punto di partenza era un’emozione, un’immagine, un suono da sviluppare, non da un punto di vista tecnico, ma espressivo, creando immagini emotive che risuonino dentro.

Alcuni temi sono sviluppati a partire da una cellula tematica ripetitiva o ricorrente, altri si appoggiano su sequenza di accordi con una melodia cantabile. Ce ne parlate?

Tony: Nell’ambito del nostro laboratorio lavoriamo tantissimo sulla cantabilità che non necessariamente ha a che fare con il canto vero e proprio, quanto piuttosto sull’uso della voce nel comporre per altri strumenti. In questo senso una maggiore semplicità armonica, sicuramente diversa rispetto a quella dei miei lavori solisti, si ritrova in tutto lo stile generale del disco, che nasce da un incontro di sensibilità e di stili diversi.

Stefania: Il minimalismo è invece una componente che mi è particolarmente congeniale  e che spontaneamente ho iniziato ad utilizzare come elemento di partenza per lo sviluppo delle mie composizioni al pianoforte sin dal mio  precedente disco. In un certo senso il minimalismo, partendo da una cellula tematica ripetitiva, è il motore della composizione che si sviluppa a partire dalla tastiera per evolversi ed andare oltre il pianoforte stesso, sviluppare quei temi che possano creare un flusso emotivo, cercare la cantabilità anche nel suono di un altro strumento.

Avete mai pensato di inserire una voce e dei testi nelle vostre composizioni?

Ci abbiamo pensato e ne abbiamo anche discusso a lungo – conclude Stefania – anche in questo progetto che è nato in forma totalmente musicale; in realtà non lo escludiamo a priori, anche nel mio disco precedente avevo inserito un testo cantato. Indubbiamente la voce umana rappresenta l’elemento emotivo per eccellenza.

La presentazione del disco è prevista per venerdì 13 dicembre al Roma presso il Teatro “Il Cantiere”, con un evento di ascolto condiviso.

L’autore: Roberto Biasco è critico musicale

Tra Tajani e Salvini è guerra, e Meloni si arrocca sui fedelissimi

Giorgia Meloni aveva fretta. Stringe il tempo del probabile rinvio a giudizio della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, e la priorità era quella di sostituire subito il ministro degli Affari europei e del Pnrr, Raffaele Fitto, neo commissario a Bruxelles alla corte di von der Leyen.

Evitare il rimpasto era l’imperativo della presidente del Consiglio, soprattutto in queste settimane in cui Tajani e Salvini se le stanno dando di santa ragione, inficiando la parvenza di maggioranza compatta che per Meloni è fondamentale per concimare la sua autorevolezza.

Forza Italia ha timidamente provato a chiedere la poltrona in virtù della crescita alle ultime tornate elettorali. Da Palazzo Chigi fanno notare che ,al massimo, avrebbe dovuto essere la Lega a cedere qualcuno dei suoi posti. Per qualche giorno si è coltivata l’idea di mettere al ministero un tecnico, qualsiasi cosa significhi. Il ragionamento era semplice: un nome ben visto dall’Ue avrebbe contribuito alla narrazione di Meloni moderata ed europeista, un altro passo per rendere potabile il gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr) nel consesso dei grandi d’Europa.

Ma alla fine a vincere sono le fobie. La presidente del Consiglio si sente assediata perfino dai suoi alleati, vede complotti dappertutto. Si opta per la fedeltà come primo merito, ingrediente immancabile del sovranismo contemporaneo. Così Con Fitto a Bruxelles  Tommaso Foti diventa ministro. “Masino” è meloniano fino al midollo, bravo a mostrarsi istituzionale quando non gli scappa una mascherina con la scritta “Boia chi molla” e quando non rinnega il 25 aprile per eccesso di euforia. “Tra le migliori risorse di cui Fratelli d’Italia dispone oggi”. Non ne dubitiamo.

Buon martedì.

Chiara Malta: «volevo che su “Linda e il pollo” soffiasse un vento di libertà»

Linda vuole il pollo con i peperoni. Un piccolo desiderio attorno al quale nasce una storia universale sulla forza propulsiva dell’errore, la ricerca della memoria, il valore dello stare assieme, la vita come caos creativo in perenne evoluzione. “Linda e il pollo” è una produzione italo-francese, un film per bambini che parla a tutti, con serietà e leggerezza, lontano dagli stereotipi. Ha ottenuto il Cristal al Festival di Annecy, una candidatura agli EFA, il César 2024 come Miglior Film d’Animazione e il premio per la miglior sceneggiatura al Torino Film Festival. La regista, Chiara Malta, romana che vive e lavora soprattutto a Parigi, ama esplorare tecniche e generi diversi, spaziando dall’animazione al live action. Tra gli altri, ha diretto il documentario “Armando e la politica”, il film “Simple women” con Elina Löwensohn e Jasmine Trinca, la serie “Antonia” con Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea. “Linda e il pollo” è il suo primo lungometraggio in animazione.

Paulette punisce ingiustamente sua figlia Linda. Per rimediare, vuole esaudire un suo grande desiderio: mangiare il pollo con i peperoni come lo cucinava il papà, scomparso anni prima. Il pollo però è introvabile per via di uno sciopero generale, e mamma e figlia si imbarcano in una rocambolesca avventura. Com’è nata questa storia?

Le storie sono come ricette di cucina: apri il frigorifero e vedi cosa c’è dentro. Innanzitutto, avevo il desiderio di valorizzare i bambini. Molti film per l’infanzia li rimpiccioliscono a fronte di adulti performanti e poco credibili, oppure li spediscono in mondi paralleli e fantastici, come se non gli si riconoscesse piena legittimità nel mondo reale. Non amo questo genere di film, né quelli cosiddetti “per famiglie”, che strizzano l’occhio ai genitori. Piuttosto, all’epoca dell’ideazione di “Linda e il pollo” mi ero appassionata ai lungometraggi per bambini dell’Europa dell’est, negli anni del blocco sovietico. Erano le produzioni più interessanti perché attraverso le metafore i registi potevano esprimersi, eludendo la censura che colpiva altri generi. Sicuramente il desiderio di riscattare i bambini ha a che fare con la mia storia, così come il tono tragicomico di “Linda e il pollo” viene dalla famiglia in cui sono cresciuta, è il tono di casa mia. Un altro riferimento importante è stato Bruno Munari, in particolare il suo libro “Fantasia”. Tutta l’ideologia del film attinge ai suoi insegnamenti: rompere le regole precostituite, lasciare spazio alla fantasia, fare che soffi un vento di libertà.

Cosa significa tutto ciò applicato a “Linda e il pollo”?

Con Sebastien Laudenbach, che si è occupato della direzione dell’animazione, e col quale collaboro da anni, volevamo innovare il modo in cui si fa animazione. A me pare che i lungometraggi d’animazione siano più ingessati rispetto a quelli dal vivo, perché la sceneggiatura non viene messa alla prova con attori in carne e ossa. Per valutare una scena animata prima di realizzarla, si usano gli animatic, immagini statiche montate in sequenza con un audio provvisorio. La voce di solito è quella del regista, quindi gli animatori costruiscono l’animazione definitiva basandosi su animatic con suoni asettici. Non applicando questi passaggi, Sebastien e io abbiamo attraversato fasi di puro caos, finché non abbiamo trovato un nostro metodo. Abbiamo riunito sui luoghi del film attori come Lætitia Dosch, Esteban e Clotilde Hesme, e una marea di bambini. Abbiamo creato un set sonoro, in cui attori e bambini hanno improvvisato sulla sceneggiatura. Partendo da queste suggestioni sonore, gli animatori hanno creato ognuno intere sequenze. Volevamo che dimenticassero quasi la figura, concentrandosi sull’espressività e sul movimento, sviluppando un loro stile, anche a costo di disegni meno perfetti.


Nel film, la narrazione procede per incidenti, in un travolgente effetto domino.

“Linda e il pollo” è un inno al caos creativo. L’incidente va accolto perché è un’occasione che porta crescita e trasformazione. L’ingiustizia, la spinta a rimediare, la determinazione nella ricerca, la memoria che riaffiora, tutto è in evoluzione. Il film nasce continuamente sotto l’occhio dello spettatore, narrazione e disegno sono sempre in movimento, e procedono di pari passo fino alla pacificazione finale, che è una grande apertura: il film parte con pochissimi personaggi e si conclude con una folla gioiosa. È così che va nella vita: quando torna la calma dopo la tempesta, ci ritroviamo cresciuti, abbiamo imparato qualcosa e siamo pronti ad aprirci al nuovo.


Durante la ricerca del pollo, si ribaltano i piani tra adulti e bambini. Paulette, per esempio, fa cose che non possiamo definire “adulte”.

Ci interessava proprio quella zona porosa in cui il confine tra età adulta e infanzia non è netto. Abbiamo reso più grandi i bambini e più piccoli gli adulti, mostrandone le debolezze, anche se sempre con leggerezza e indulgenza. Pur di procurarsi il pollo, Paulette arriva a rubare. Gli adulti della nostra storia hanno timori, sono goffi, commettono errori, dicono bugie. Quello che vogliamo dire è che ai bambini possiamo mostrarci per come siamo. Non solo, possiamo parlare del mondo reale e del tempo in cui viviamo. Le favole vanno benissimo, ma vanno altrettanto bene le storie che partono dai fatti dei nostri giorni. Per esempio, lo sciopero, evento frequente in Francia, rappresenta un momento di blocco, oltre il quale la vita deve riprendere a scorrere, è una spinta a rimettersi in cammino, collettivamente.

Il film usa la monocromia, ad ogni personaggio è associato un solo colore. Come mai questa scelta?

La monocromia è più sostenibile dal punto di vista economico e libera il disegno, bastano tre linee per ottenere il movimento. Il giallo per Linda probabilmente ci è venuto dagli impermeabili che usano i bambini in Bretagna; Paulette, essendo la mamma, è nella stessa gamma di colore, quindi arancione; la zia Astrid, che è un po’ rigida, è ironicamente rosa, a suggerire una dolcezza nascosta; Serge, il poliziotto alle prime armi, è blu perché in Francia quando sei inesperto si dice che sei “bleu”. Il papà e il pollo sono rossi perché sono personaggi palpitanti. Nel finale si ritrovano tutti in piazza e sono come bolle di colore o coriandoli di carnevale, l’effetto è molto bello, è una grande sommossa gioiosa.

Perché, in linea generale, le animazioni francesi sono più curate, poetiche e innovative di quelle italiane?

In Francia il rapporto con l’animazione è più serio che in Italia, dove non sembra che l’animazione sia considerata una forma d’arte, né vero cinema. In Francia è un’industria, si investe e c’è un ritorno economico, mentre in Italia l’arte spaventa, viene trattata come una forma extraparlamentare e non ufficiale, roba da saltimbanchi. Di conseguenza, i finanziamenti sono pressoché inesistenti. Forse è una forma di autodifesa, è paura della rivolta.

 

foto di Obelias96 – YouTube, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10065220

Le responsabilità Netanyahu per le falle nella sicurezza il 7 ottobre

Le indagini della Civilian Commission of Inquiry into October 7, una task force indipendente guidata dal giudice Varda Alsheikh (che ha coinvolto accademici ed esponenti della società civile israeliana per analizzare in dettaglio le circostanze che hanno portato ai massacri di Hamas del 7 ottobre 2023) hanno portato alla luce crepe profonde all’interno del governo israeliano, rivelando come una serie di errori e omissioni abbiano favorito l’attacco di Hamas. Il rapporto, pubblicato il 26 novembre, traccia un percorso chiaro verso la verità. L’attacco del 7 ottobre 2023, denominato Operazione Al-Aqsa Flood, è stato un capitolo di sangue e dolore nel lungo conflitto israelo-palestinese, un evento che ha scosso profondamente la società israeliana e internazionale e ha messo a nudo le fragilità del sistema. La commissione è stata particolarmente severa nel giudicare il primo ministro Benjamin Netanyahu ritenendolo direttamente responsabile di una serie di decisioni scellerate che hanno minato gravemente la capacità di risposta del Paese di fronte all’emergenza.

Secondo il rapporto, Netanyahu avrebbe concentrato il potere nelle proprie mani, minando deliberatamente il ruolo del governo e del Consiglio di sicurezza nazionale. Questo processo ha impoverito il dibattito pubblico, privando il Paese di un confronto aperto e trasparente sulle scelte strategiche. La mancanza di dialogo è stata attribuita alla volontà del premier di mantenere un controllo assoluto sulle decisioni più delicate, un approccio che ha gettato un manto di piombo sulle istituzioni, immobilizzandole in un letargo profondo. La commissione ha evidenziato come questo accentramento del potere abbia compromesso la capacità del Paese di rispondere in maniera tempestiva ed efficace alle minacce, inclusa quella rappresentata da Hamas.

Il rapporto descrive anche il caos operativo che ha caratterizzato la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre. Per ore, le forze di terra non sono riuscite a intervenire, lasciando che Hamas penetrasse negli insediamenti e catturasse oltre 250 soldati e civili, portandoli come prigionieri a Gaza. Nel frattempo, l’aeronautica israeliana ha risposto con una strategia che si è rivelata altrettanto problematica. L’utilizzo di elicotteri Apache e droni armati ha causato danni indiscriminati, colpendo non solo i miliziani di Hamas ma anche civili israeliani, inclusi alcuni che partecipavano al festival musicale Nova lungo il confine. Questa reazione disordinata ha acceso una luce rossa sulle reali capacità delle forze armate israeliane, lasciando la popolazione con un groppo in gola e mille domande senza risposta.

Tra le decisioni più scandalose emerse dal rapporto vi è l’attivazione della direttiva Annibale. Questa linea d’azione, altamente discutibile e paragonabile ad una vera e propria fossa comune, prevede che le forze israeliane colpissero con forza letale i propri cittadini per evitare che venissero presi come prigionieri. Le implicazioni di questa direttiva hanno innescato una tempesta politica, dividendo l’opinione pubblica e mettendo a dura prova i rapporti internazionali di Israele. Il sacrificio di vite umane in nome della strategia ha generato un dibattito etico serrato, con molti che hanno condannato una scelta considerata immorale e inaccettabile.

Sul fronte palestinese, Hamas ha cercato di sfruttare i prigionieri catturati come leva negoziale, proponendo uno scambio con migliaia di palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane. Tuttavia, questa proposta non è mai stata seriamente considerata dal governo israeliano, che ha invece intensificato le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza. Israele ha successivamente attribuito ad Hamas la responsabilità per tutte le morti avvenute durante l’attacco, sostenendo che il movimento aveva deliberatamente massacrato civili israeliani. Ma non tutti sono convinti di questa versione dei fatti. Investigatori indipendenti, scavando a fondo, hanno rivelato evidenze che suggeriscono un quadro ben più intricato e inquietante.

Secondo alcune indagini, Israele potrebbe aver facilitato l’attacco del 7 ottobre come pretesto per giustificare una risposta militare su larga scala. Questa teoria, sebbene respinta dal governo israeliano, trova supporto nell’escalation che ha seguito l’attacco. In poche settimane, le operazioni militari israeliane a Gaza hanno causato oltre 44.000 vittime, per la maggior parte donne e bambini, un macello legalizzato, una vergogna che ha gelato il sangue nelle vene di ogni persona civile. Eppure, la comunità internazionale ha preferito guardare altrove, indifferente di fronte a un’atrocità inaudita. Inoltre, i progetti relativi alla creazione di insediamenti ebraici nella Striscia hanno contribuito a creare un clima di diffidenza nei confronti del governo israeliano, rafforzando l’idea che l’obiettivo ultimo sia l’annessione completa del territorio.

Il rapporto potrebbe rappresentare un punto di non ritorno. Un bivio sulla strada della storia di Israele, dove si decidono i destini di una nazione. Le sue conclusioni non solo mettono in discussione la leadership di Netanyahu, ma aprono un dibattito più profondo, una vera e propria battaglia ideologica sulla giustezza delle azioni israeliane nei confronti di Gaza e del popolo palestinese. Il futuro politico del primo ministro è appeso a un filo, e un qualsiasi passo falso potrebbe precipitarlo nel baratro.

Al di là delle responsabilità individuali, il rapporto pone una domanda fondamentale, sul futuro di Israele, che trascende il presente: a quale prezzo, in termini di reputazione internazionale e coesione sociale, si può garantire la sicurezza nazionale sacrificando i diritti umani?

Il 7 ottobre è stato un urlo straziante che ha messo a nudo una ferita mai rimarginata. La violenza, in tutte le sue forme, è un’ombra che accompagna da sempre il popolo palestinese, e solo affrontando le radici profonde di questo male potremo sperare in un futuro diverso.

l’autore:L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce

In apertura un ritratto di Netanyahu. Foto di Di Avi Ohayon / Government Press Office of Israel, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=128577654