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La marcia mondiale per la pace: Il governo Meloni firmi il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari

Era il 2 ottobre 2009, quando, da Wellington (Nuova Zelanda), partiva la prima marcia mondiale per la pace e la nonviolenza. Il giorno scelto era non a caso il 2 ottobre, perché già giornata internazionale della nonviolenza, promossa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 giugno 2007. Tale data era stata scelta dall’Onu visto che era il giorno in cui era nato Mohāndās Karamchand Gāndhī. La marcia nacque dalla volontà di Rafael de la Rubia (fondatore dell’associazione internazionale umanista Mondo senza guerre e senza violenza) di creare unione tra le varie persone durante il passaggio di una delegazione internazionale di marcianti con l’intento di conoscere quanto sia fondamentale il disarmo nucleare e denunciare la violenza in tutte le sue forme esistente tra gli esseri umani. Il gruppo di marciatori percorse tutti i continenti per arrivare il 2 gennaio 2010 a Punta de Vacas (Argentina). La seconda marcia si svolse nell’ottobre-novembre 2019. Sull’onda della Marcia mondiale il 15 settembre 2021 iniziò la prima marcia latinoamericana per la nonviolenza (multietnica e multiculturale). Nonostante ci fossero ancora restrizioni a causa della pandemia, furono organizzati diversi eventi in presenza, anche in scuole, in tutta la regione latinoamericana.

Quest’anno, il 2 ottobre 2024, è partita da San José di Costa Rica, Paese che nel 1948 abolì l’esercito e la marina militare (il Paese non aveva aviazione), la terza marcia mondiale per la pace e la nonviolenza dove tornerà, dopo aver fatto il giro del pianeta, il 5 gennaio del 2025. In Italia la marcia ha toccato, dal 16 al 30 novembre, una trentina di città secondo il calendario trovabile qui ). Il 22 novembre è arrivata a Firenze, dove dalle ore 16.30 è stata accolta da decine di persone in piazza SS. Annunziata. Al termine della cerimonia e degli interventi, le persone si sono unite al centro della piazza per fare il simbolo umano della pace e della nonviolenza. Tra i marciatori arrivati a Firenze c’erano anche Rafael de la Rubia e Martine Sicard. Quest’ultima autrice anche del libro, illustrato da Luis Alzueta Martínez, intitolato Un cammino verso la pace e la nonviolenza, edito da Multimage la casa editrice dei diritti umani. Siamo riusciti a raggiungere proprio Martine Sicard, che fa parte anche del Coordinamento mondiale di Mondo senza guerre e senza violenza.

Qual è stato il suo apporto per la nascita della prima marcia mondiale per la pace e la nonviolenza?
Mi trovavo insieme a Rafael de la Rubia nell’associazione Mondo senza guerre e senza violenza, e volendo fare qualcosa in grado di coinvolgere più persone possibili per cambiare questo mondo, già allora pieno di violenze, guerre e con la minaccia atomica, decidemmo di lanciare la marcia insieme. Infatti attraversando tutto il globo avremmo potuto ascoltare e farci ascoltare da moltissime persone, comunità, associazioni, che ci avrebbero potuto aiutare nei nostri obbiettivi creando una rete mondiale. Grazie a questa avremmo potuto sensibilizzare e spingere i governi dei vari Paesi ad attuare gli obbiettivi che ci eravamo preposti. E tutt’oggi andiamo avanti in quella direzione. Ci tengo a sottolineare comunque che l’ideatore della marcia è stato Rafael de la Rubia, che io ho appoggiato e sostenuto fin da subito.

Quali sono gli obbiettivi della terza marcia partita il 2 ottobre scorso dal Costa Rica?
Innanzitutto bisogna cercare di essere ingenui e di fare in modo che il maggior numero di persone al mondo manifestino la propria volontà di voler vivere in pace, ma questa dimostrazione non è sufficiente, perché quello che per noi è importante è approfondire dentro ognuno di noi cosa sia la nonviolenza. In merito agli obbiettivi di questa Marcia, li abbiamo elencati, dal primo all’ultimo. Sono questi:

Vale a dire?
● Chiedere ai nostri governi di firmare il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, eliminando così la possibilità di una catastrofe planetaria. Solo 94 Paesi su 195 l’hanno firmato, e tra quelli che non lo hanno firmato vi sono i Paesi della Nato, tra cui l’Italia, e quelli che detengono armi nucleari.
● Chiedere la rifondazione delle Nazioni Unite, garantendo la partecipazione della società civile, democratizzando il Consiglio di Sicurezza per trasformarlo in un autentico Consiglio mondiale della pace e istituendo un Consiglio di sicurezza ambientale ed economico.
● Chiedere l’inclusione della Carta della Terra nell'”Agenda Internazionale” degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Ods) al fine di affrontare efficacemente il cambiamento climatico e gli altri fattori di insostenibilità ambientale.
● Promuovere la nonviolenza attiva in tutti gli ambiti, in particolare nell’educazione, affinché diventi una reale forza trasformatrice del mondo.
● Rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza come rifiuto di collaborare in qualsiasi modo alla violenza.
● Incoraggiare la proclamazione a tutti i livelli di un impegno etico, in cui è pubblicamente stabilito di non usare mai le conoscenze ricevute o l’apprendimento futuro per far violenza agli esseri umani bensì per liberarli da questa.
● Progettare un futuro in cui ogni vita umana abbia valore e ciascuno sia in armonia con sé stesso, con gli altri esseri umani e con la natura, in un mondo libero da guerre e violenza.

Lei è coautrice del libro intitolato Un cammino verso la pace e la nonviolenza, quanto è importante partire dalla cultura della nonviolenza e dall’educazione anche nelle scuole specie tra i più piccoli, per trasformare il presente, dominato dalla violenza, in un futuro di nonviolenza?
Si tratta di un libro che narra brevemente la storia e le idee della nonviolenza, illustrato dal bravissimo fumettista Luis Alzueta Martínez, il che lo rende una lettura agevole per tutte le età. È uscito in spagnolo, poi in italiano, e ora stiamo cercando di farlo uscire in francese. Noi crediamo molto nell’educazione, per questo collaboriamo con le scuole, soprattutto le università, non solo per mettere in moto dei seminari e degli incontri sulla nonviolenza, ma anche per far dichiarare l’impegno etico, citato prima, perché rappresenta una guida di principi e valori per sensibilizzare sulla pace, la nonviolenza e i diritti umani.

Molti Stati dell’Unione Europea, compresa l’Italia, non hanno ancora ratificato il Tpan, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari. In che modo voi, oltre naturalmente facendo la marcia, sensibilizzate e sollecitate i governi a firmarlo?
Noi come marcia e come associazione Mondo senza guerre e senza violenza, abbiamo proposto una campagna internazionale ad Ican, che questa ha deciso di adottare. Si tratta di una campagna rivolta alle municipalità, che possono appoggiare il trattato aderendo all’appello di Ican: “Le città sostengono il Tpan”. In questo modo le municipalità dal basso possono far pressione sui governi affinché firmino il Trattato. Si parte dal basso, anche un consigliere comunale d’opposizione può chiedere al proprio comune di aderire all’appello di Ican, così se ne parla e si sensibilizza l’opinione pubblica. Partendo da piccole città si può arrivare al capoluogo della propria regione e poi alla capitale del proprio Stato, facendo in questo modo sempre più pressione al governo del proprio Paese affinché firmi il Tpan.
Tra i personaggi italiani di spicco, ad aver aderito alla terza Marcia mondiale per la pace e la nonviolenza, c’è anche l’attore, regista e scrittore ebreo Moni Ovadia che ha lanciato un video di adesione.

L’autore: Andrea Vitello collabora con Pressenza, ha scritto “Il nazista che salvò gli ebrei” (Le Lettere)

Nella foto: Manifestanti della Marcia della pace a Firenze (foto Cesare Dagliana)

L’intelligenza artificiale, il nuovo megafono della destra italiana

Mentre ci preoccupiamo dell’intelligenza artificiale che potrebbe rubarci il lavoro, c’è chi ha già trovato il modo di farla lavorare – e pure gratis – per alimentare le peggiori pulsioni del nostro Paese. La destra italiana, sempre attenta a cavalcare l’onda dell’innovazione quando si tratta di propaganda, ha scoperto che per generare panico non servono più neanche i vecchi fotomontaggio artigianali: basta premere un bottone.

Salvini docet. Sulla sua bacheca Facebook scorrono immagini – rigorosamente senza watermark – di donne e bambini costretti a mangiare insetti da una non meglio precisata “élite globale”. Un tempo ci voleva almeno un grafico per confezionare queste suggestioni; oggi basta un prompt ben scritto e il gioco è fatto. La tecnologia democratizza anche la capacità di manipolare la realtà, chi l’avrebbe mai detto.

Ma il vero capolavoro è la standardizzazione dell’estetica dell’odio. Da Milano a Lampedusa, passando per Roma e Palermo, le immagini generate dall’AI che popolano le bacheche della destra sembrano uscite tutte dalla stessa stamperia digitale: stessi toni, stesse atmosfere apocalittiche, stessa retorica visiva dell’invasione. Un franchising dell’intolleranza in alta definizione.

E mentre i nostri algoritmi si sbizzarriscono a creare scenari distopici di uomini barbuti che bruciano la Divina Commedia o di improbabili soldati dell’Unione europea che marciano verso l’Italia, la realtà – quella vera – viene sepolta sotto una valanga di pixel accuratamente orchestrati. Il bello è che funziona: le immagini generate dall’AI hanno il vantaggio di sembrare più vere del vero, più credibili della realtà stessa per chi della realtà non ne ha contezza. 

Buon martedì. 

Non siamo assassine e i medici non sono sicari

La misoginia della dottrina della Chiesa è ben nota da secoli. E quella guidata da papa Francesco la incarna senza tentennamenti. Quante volte lo abbiamo sentito paragonare le donne che si rivolgono a un ginecologo per abortire a chi assolda un killer? Nel 2018 additò come assassine le donne che decidono di abortire e disse che i medici, loro complici, sono dei sicari. Sul volo di ritorno da Bruxelles a Roma, ad inizio ottobre 2024, è tornato a ripeterlo ai giornalisti quasi con le medesime parole.
Il rapporto tra una donna e un uomo, per la Chiesa deve essere finalizzato solo alla procreazione. La libertà di scelta, l’autodeterminazione, la sessualità della donna non sono contemplate. Per il papa la donna è tale solo se vergine o madre. «Dio ha creato la donna perché tutti noi avessimo una madre», ha detto a Santa Marta il 9 febbraio 2017.
Agli Stati generali della natalità nel 2024 papa Francesco ha messo sullo stesso piano l’industria delle armi e la produzione di contraccettivi «perché impediscono la vita». Come se la contraccezione in Africa non avesse salvato milioni di persone da morte certa a causa dell’Hiv. Ma ricordiamo anche che nel 2013 in un passaggio di timone con Ratzinger che parlava di identità umana inscritta nel Dna del concepito, Bergoglio disse ai ginecologi che ogni bambino non nato, dal suo punto di vista, condannato ingiustamente ad essere abortito, ha il volto del Signore, paragonando poi la Chiesa a un ospedale da campo. Una affermazione priva di senso, detta per generare senso di colpa nelle donne. Del resto, negli anni sono state innumerevoli le ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche su temi scientifici di embriologia e neonatologia di cui nulla sanno.
Ma che il papa faccia il papa non stupisce. Ma da donna, prima che da giornalista, mi stupisce che la sinistra si ostini a fare di lui un leader.
Mi colpisce a questo riguardo il fallimento dell’informazione mainstream. Quella del servizio pubblico in particolare. Poiché questi discorsi violenti e antiscientifici del papa vengono trasmessi “a reti unificate”. E c’è chi si genuflette abdicando al proprio compito di fare informazione corretta. Emblematico il caso della vice direttrice del Tg1 Incoronata Boccia che su Rai 3 il 20 aprile 2024 ebbe a dire che l’aborto «non è un diritto ed è un delitto», incurante che la legge 194 sia una legge dello Stato. Ma gli esempi potrebbero essere anche molti altri. Nel frattempo la Rai ha prolungato di altri 5 anni la convenzione con la Conferenza episcopale italiana per la trasmissione di contenuti religiosi nonostante la Cei a livello mediatico possa già contare sul canale Sat2000 oltre che su centinaia di testate giornalistiche locali e nazionali solo per fare degli esempi, mentre il Vaticano trasmette urbi et orbi tramite Telepace, Vatican Media HD, Radio Vaticana Italia, Radio Vaticana Europa, Radio Vaticana America, Radio Vaticana Africa e Radio Vaticana Asia. C’è davvero bisogno di lasciar dilagare la Chiesa anche in Rai al punto di dover ascoltare su temi eticamente sensibili, bioetici e scientifici anche il parere di sacerdoti e monsignori? Quale contributo possono dare trasmissioni come “La via di Damasco” in cui si racconta, solo per fare un esempio, “la straordinaria storia di Fra André Marie Rahbar, iraniano francescano che si converte al cristianesimo dopo aver trovato per caso un Vangelo”?
Ma, ripeto, quel che più indigna oggi è che nella tv pubblica si possano fare affermazioni antiscientifiche e religiose sull’aborto e senza contraddittorio. Dalle parole ai fatti il passo e breve. Ormai non si contano quasi più le ingerenze del Vaticano nelle leggi dello Stato italiano grazie a politici cattolici. Dalla antiscientifica legge 40 al recente emendamento, infrascato da Fratelli d’Italia e dagli partiti di destra in un provvedimento omnibus, che fa sì che associazioni che si definiscono “pro vita” (per lo più legate al movimento integralista neocatecumenale) possano fare propaganda religiosa nei consultori pubblici.
Una legittimazione e un via libera che tanto più indigna in un momento storico culturale come quello attuale in cui la donna è al centro di un’offensiva violenta senza tregua. Gli omicidi, le percosse, lo stalking, innumerevoli stupri sono all’ordine del giorno. L’Italia è un Paese dove diminuiscono ogni giorno i crimini comuni, mentre il numero dei femminicidi e delle violenze in famiglia non accennano a calare.
La violenza invisibile della negazione e dell’annullamento dell’identità femminile spesso portano a un tentativo di coercizione e di annientamento fisico Naufraga così il processo di emancipazione cioè il riconoscimento di una uguaglianza giuridica ma anche la liberazione, che passa attraverso l’accettazione di una diversa soggettività della donna. Emancipazione e liberazione della donna sono delicatissimi processi ancora in fieri. Perché siano portati a compimento occorre un cambiamento radicale sul piano culturale e sociale di cui solo la Sinistra in quanto tale si può fare carico. Rifiutando e contrastando le “idee” dei fautori della mentalità patriarcale e religiosa che vogliono la donna inchiodata al ruolo di moglie e madre. Tra questi papa Bergoglio è la punta di diamante. Già il 2 febbraio 2014 dal balcone di piazza San Pietro ebbe a dire: «La vita va difesa dal grembo materno fino alla sua fine».
Anche con questo libro Left denuncia questa deriva che, in maniere diverse, va avanti da anni. Questo agile e incisivo volume raccoglie una selezione dell’autorevole lavoro svolto da colleghi, medici, ginecologi, psichiatri, con continuità fin dalla nascita di Left nel lontano 2006.
Fare informazione vuol dire basarsi su fonti certe, scientifiche. Vuol dire avere una chiara gerarchia delle fonti e non confondere mai ciò che è un dato scientifico incontrovertibile con un’opinione. Perché altrimenti si confonde il lettore. Che l’embrione e il feto non siano vita umana e che l’aborto non sia un omicidio sono fatti supportati da evidenze scientifiche, non opinioni. Riportare correttamente queste informazioni è il dovere di noi giornalisti. Su queste tematiche Left si è sempre saputo orientare in maniera coerente e puntuale, rappresentando una avanguardia nel panorama editoriale. E questo perché abbiamo come faro la teorizzazione scientifica dello psichiatra Massimo Fagioli, che fino alla sua scomparsa nel 2017 ci ha onorato con la sua rubrica settimanale Trasformazione, in cui con uno stile originalissimo, rigoroso e poetico, raccontava la propria ricerca in presa diretta, rendendola accessibile a tutti.
La Teoria della nascita di Massimo Fagioli e decenni di riscontri in biologia e neonatologia dicono che la vita umana inizia alla nascita. Ed è un fatto incontrovertibile. «La donna che ha deciso di abortire non uccide una vita umana come si vuol far credere. Il feto ha una realtà puramente biologica e quindi anche sul piano etico e giuridico l’aborto non può essere equiparato a un omicidio», ha scritto la neonatologa e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti su Left (in questo libro troverete molti suoi importanti contributi).
Come giornalista che si occupa di politica non posso che rilevare che se la sinistra facesse proprie queste acquisizioni scientifiche avrebbe argomentazioni solide da contrapporre all’ideologia e alle iniziative di questa destra al governo che vorrebbe imporci norme da Stato etico e confessionale. Sarebbe importante anche per tirar fuori le donne da quel senso di colpa e dalla depressione a cui le vorrebbero condannare questa destra postfascista, anche obbligandole ad ascoltare il battito del cuore del feto o continuando a riproporre la solita, annosa e antiscientifica proposta di legge che vorrebbe riconoscere una personalità giuridica all’embrione.
Ne parlavamo già quando l’idea di fare Left è nata in quel lontano maggio del 2005 durante un convegno per il referendum sulla legge 40 riguardo alla fecondazione assistita. Una legge antiscientifica e crudele che all’articolo 1, in contrasto con la legge 194, impone la tutela di un imprecisato “concepito” e poi, nella sua prima versione imponeva il trasferimento contemporaneo in utero di tutti e tre gli embrioni, anche se malati. Per fortuna le Aule di tribunale l’hanno smantellata pezzo dopo pezzo, grazie all’impegno di cittadini sostenuti legalmente da Filomena Gallo dell’Associazione Coscioni e di altri.
A quel convegno contro la legge 40 partecipò lo psichiatra Fagioli, insieme alla neonatologa Gatti, al giudice Dall’Olio, al ginecologo Flamigni, al bioeticista Giovanni Berlinguer e altri. Da lì prese le mosse il percorso di Left, in difesa di quella laicità che è stata riconosciuta ben tre volte come valore supremo della nostra Carta da parte della Corte Costituzionale.
Non è un caso che da sempre – unico giornale in Italia – auspichiamo una profonda revisione del Concordato specie laddove questo trattato internazionale “blindato” dall’articolo 7 della Costituzione, creando un vero e proprio vulnus di democrazia, ha aperto le porte della scuola pubblica a un esercito di decine di migliaia di insegnanti di religione cattolica e dove consente ai vescovi di non collaborare con la magistratura nei casi di pedofilia.
Chi si ostina a difenderlo non tiene mai conto dell’inapplicabilità di una visione laica (che parta cioè dal rispetto dei diritti inalienabili della persona e dal pensiero che siamo tutti uguali in quanto esseri umani fin dalla nascita – a un’organizzazione come quella della Chiesa cattolica che per sua natura e cultura si oppone a questi stessi princìpi.

Introduzione dal libro di Left L’aborto non è un omicidio. Basta violenze sulle donne (qui per acquistarlo)

 

 

 

 

 

 

Nella foto in apertura: “+ 194, – 8 x 1000”. Foto di Giovanni Dall’Orto, Milano 7 giugno 2008

Povera Cop29, poveri noi

La Cop29, l’annuale vertice sul clima delle Nazioni Unite, è terminata dopo due settimane di negoziati. La cronaca delle trattative ha meritato poca attenzione sulla stampa, qui dalle nostre parti. Ormai l’ambientalismo è diventato un tema per gli affezionati, una di quelle cose di cui non ti puoi permettere di non parlare, ma che puoi benissimo inserire nelle rubriche fisse: motori, risultati delle partite, meteo, lettere dei lettori e infine anche l’ambientalismo.

Nemmeno i 300 miliardi all’anno fino al 2035 per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare la crisi climatica hanno fatto notizia. Del resto, viviamo in un Paese governato da un ministro dei Trasporti che capeggia un’orda di maschi fieri di inquinare il più possibile. Lo smog come prolungamento del pene.

Il gran capo dei maschi, Donald Trump, alla Cop29 ha deciso di non volgere uno sguardo e di non sprecare nemmeno una parola. Per lui le auto interessanti, così come i missili, sono quelle del suo padrone Elon Musk.

Non aiuta nemmeno che, mentre le Cop aumentano di numero, anno dopo anno, le promesse degli anni precedenti vengano sempre smentite. Così tutto appare come una lunghissima analisi della sconfitta, a puntate, con un finale nero per tutti.

I Paesi colpiti da disastri climatici hanno fatto notare sommessamente che forse l’impegno profuso fin qui non basta. Gli altri hanno promesso soldi, ancora soldi. C’è qualcuno talmente stupido da pensare che risarcire possa essere risolutivo per annullare le cause.

Dicono che la crisi dell’attenzione verso l’ambientalismo corrisponda alla crisi del progressismo in giro per il mondo. Ma qui non si perdono le elezioni.

Buon lunedì.

Violenza contro le donne. Perché è una questione tutta politica

Quando affrontiamo la violenza maschile contro le donne non possiamo essere tutti d’accordo. Chi non è pronto a condannare la violenza contro le donne? Nessuno. Eppure, se scaviamo un po’ scopriamo che dietro la facile condanna si possono trovare sia la riconferma dell’oppressione di cui la violenza è espressione, sia l’apertura di un processo di trasformazione.
Se la violenza di genere non è un’entità oscura, estranea alla nostra normalità ma è il frutto di una cultura condivisa, di un modo di pensare le relazioni, di un immaginario pervasivo della sessualità, di rappresentazioni consolidate delle attitudini e dei ruoli di donne e uomini, allora ci accorgiamo che è impossibile contrastarla senza mettere in discussione questo universo condiviso. E farlo senza agire un conflitto.
Spesso le campagne istituzionali, le iniziative legislative, le analisi e le ricette proposte dai media contro la violenza contribuiscono a rimuovere un’assunzione di responsabilità della società e ripropongono proprio quel contesto culturale in cui la violenza si genera, trova le proprie giustificazioni e legittimazioni. Le iniziative di sensibilizzazione e, spesso, i discorsi degli esperti da talk show ci propongono l’immagine di donne deboli e bisognose di protezione e la nostalgia per un ordine paterno che insegnava gli uomini a contenere le proprie pulsioni. Ma è proprio l’esercizio della protezione, della guida e del controllo maschile che legittima l’uso della forza e dell’arbitrio, ed è proprio l’erotizzazione della donna preda, oggetto delle pulsioni maschili, a naturalizzare l’idea che nel gioco delle parti tra i sessi, tra soggetto e oggetto di desiderio, la conquista del corpo femminile ricorra alla forza, al potere, al denaro.
La violenza maschile contro le donne è uscita dall’ombra in cui era stata relegata in passato, ma per ritrovarla spettacolarizzata e strumentalizzata. Il discorso pubblico la racconta come patologia individuale o espressione di culture estranee. In questo modo il “panico sociale” ha l’effetto paradossale di rassicurarci: non ci chiama in causa, non ci mette in discussione, possiamo delegare all’apparato penale il problema e, così, rimuoverlo. E se questo rafforza le narrazioni paranoiche di una società circondata e minacciata che deve chiudersi per difendersi, non è per caso. Nella difesa del territorio e dei corpi delle “nostre donne” come parte del territorio si intrecciano allarme xenofobo e richiamo patriarcale. E nella rappresentazione della minaccia rappresentata dai migranti c’è una proiezione razzista e inferiorizzante: i neri portatori di una natura maschile non civilizzata, incapace dell’autodisciplinamento proprio dell’uomo occidentale. Purtroppo la strumentalizzazione del tema della violenza contro le donne per alimentare (o inseguire) spinte xenofobe, non nasce oggi con le destre: lo hanno fatto esponenti del “fronte politicamente corretto” come Veltroni che, dopo l’uccisione di Giovanna Reggiani, indicò “i rumeni” come pericolosi.
Il 2023 rappresenta un passaggio significativo che mostra il carattere contraddittorio e conflittuale della percezione pubblica della violenza di genere. L’11 novembre viene uccisa Giulia Cecchettin: l’immagine della coppia di “bravi ragazzi” giovanissimi aveva alimentato la partecipazione di massa alla tragedia. Pochi mesi prima aveva suscitato emozione l’uccisione di Giulia Tramontano, al settimo mese di gravidanza, da parte del compagno Alessandro Impagnatiello.
A luglio avviene a Palermo lo stupro collettivo di una ragazza di 19 anni fatta ubriacare da sette coetanei. Il caso colpisce l’opinione pubblica per l’età degli autori e per l’apparente indifferenza degli uomini coinvolti emersa dalle testimonianze e dalle intercettazioni. Un mese dopo emerge il caso di due preadolescenti abusate per mesi da un gruppo di 15 giovanissimi a Caivano. Il governo interviene sul posto, e approva, per decreto, “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile” che inasprisce le pene per reati commessi da minori.
Il fatto nuovo sono, però, le parole della sorella e del padre di Giulia, che indicano la radice patriarcale della violenza e chiedono agli uomini di essere “agenti di cambiamento”. Ma la “vittima” o la sua famiglia devono esporre la propria sofferenza senza pretendere di avere un punto di vista su ciò che ha provocato quella sofferenza. Se mettono in discussione “l’ordine di genere” che ne è alla radice, l’empatia si incrina, si scatenano, gli haters sui social e i media giungono a insinuare dubbi su un opportunismo del padre o su un comportamento della sorella “disordinato” ed eccessivo, fino a commentare la lunghezza della gonna indossata al funerale di Giulia.
Qualcosa era avvenuto anche sul terreno dei consumi culturali. Il film C’è ancora domani, batte tutti i record con milioni di spettatori nelle sale, proiezioni nelle scuole e premi di rilievo. Sempre nel 2023 il film Barbie registra 5,5 milioni di spettatori. La loro diffusione produce di per sé uno spostamento nel discorso pubblico, sollecita una riflessione sugli stereotipi di genere in un pubblico estraneo al dibattito sociale e politico sul tema.

La manifestazione del 25 novembre a Roma, promossa da “Non una di meno” vede una partecipazione enorme.
Si è aperta, insomma, una frattura che ha portato sindacalisti, editorialisti, intellettuali, semplici cittadini, a prendere parola, dando una visibilità mai registrata prima a una riflessione critica maschile sulla “cultura della violenza”. Voci differenti per approccio, profondità e consapevolezza ma che insieme determinano un fatto nuovo.
Oggi si pone il problema di come tenere aperta questa frattura: dare visibilità e spazio alle esperienze di impegno maschile nella critica all’ordine di genere, ai ragazzi che scelgono percorsi di studio critici sui modelli di mascolinità, agli uomini che cercano di essere padri differenti, agli uomini che cominciano a vedere la miseria che si cela nel potere e nel privilegio e vogliono essere “agenti di cambiamento”.
Al contrario di quanto pensa il preside della scuola che ha vietato il minuto collettivo di ricordo di Giulia Cecchettin, invitando gli studenti a viverlo in una dimensione privata, dobbiamo riconoscere che quella in gioco è una questione tutta politica perché riguarda le relazioni di potere tra le persone, i loro spazi di libertà, la colonizzazione dei loro desideri e delle loro relazioni da parte di un immaginario fondato sul dominio.

Ma c’è anche una dimensione politica più immediata: il cambiamento in corso nelle relazioni tra i sessi e nei ruoli e modelli di genere è oggi al centro della offensiva ideologica delle destre e dei nazionalismi populisti. Cresce l’ostilità verso gli stranieri, e verso le vite che non corrispondono alla norma, crescono i nazionalismi, crescono le spinte all’egoismo, alla competizione, alla diffidenza. Ma sempre più ricorrente è la postura violenta che si basa sul “vittimismo dei dominanti”: Trump parlando della prima potenza economica e militare mondiale, descrive un’America colonizzata, invasa e accerchiata. Le retoriche sull’invasione, sui complotti ostili, sulla dittatura del politicamente corretto, hanno molte assonanza con il vittimismo maschile contro l’aggressione femminista, contro le discriminazioni subite dai padri separati, contro le pari opportunità.
La politica ha tradizionalmente tematizzato la questione femminile, o prima la questione meridionale, ma non riusciamo a vedere che c’è un’enorme questione maschile: il fantasma del maschile attraversa continuamente la scena pubblica ma è talmente “naturalizzato” da risultare invisibile nelle nostre riflessioni sulla democrazia e la sua crisi.
Il modello maschile è stato riferimento nella stagione neoliberista dell’individualismo proprietario, del sogno del cittadino maschio, bianco, adulto eterosessuale, produttivo, padrone e imprenditore di sé, e capace di liberarsi dai legami sociali. Sogno poi tradottosi nell’incubo della solitudine ai tempi della crisi in cui il tuo fallimento è la tua colpa. lo abbiamo incontrato con il berlusconismo e poi con la figura del severo professore che riporta la società all’ordine dopo aver troppo goduto, per giungere al “capitano”, che pensa prima agli italiani e propone la rivincita contro un nemico indefinito.
Nelle analisi della vittoria di Trump, e prima delle vittorie delle destre in Europa si propongono, invece, due letture che da differenti premesse, giungono alle stesse conclusioni: una, che potremmo attribuire a un economicismo arcaico, ci dice che “il popolo vota in base agli interessi e non ai valori” e abbandona le sinistre che hanno smesso di difendere i lavoratori per occuparsi delle minoranze sessuali o delle donne.

La polarizzazione arretrata e ingenua tra diritti sociali (la materialità del riferimento al lavoro e la scientificità dei rapporti economici) e diritti “civili” che invece rimanderebbero a “sovrastrutture” (Ma cosa c’è di più materiale della vita, dei nostri corpi?) non va oltre la dimensione istituzionale, di “governo” dei processi della politica incapace di misurarsi con la dimensione anche “inconscia”, delle emozioni, delle paure, dei desideri. E così non coglie quanto le destre vincano non per i propri programmi, ma per la capacità di parlare alla frustrazione al rancore e allo smarrimento.

Un’altra posizione “assume” le radici delle spinte xenofobe per una strategia che mescola subalternità e “doppiezza” (meglio se impugno io i respingimenti, meglio se impugno io il bisogno di patria che non lasciarla alla destra). Chi sceglie illusoriamente questa scorciatoia non vede che lo stigma omofobo, la misoginia, la inferiorizzazione e demonizzazione dello straniero sono parte di un apparato di potere e di dominio: tenta una competizione, un conflitto, senza rendersi conto di restare interno a un ordine simbolico dominante.
Non è possibile stare in questa contesa in una posizione non subalterna se non si è capaci di pensare un’idea di libertà diversa dal modello liberale e un’idea di identità diversa da quella che si rifugia nei riferimenti escludenti e omologanti.

L’autore: Animatore dell’associazione Maschile plurale, Stefano Ciccone fa parte del gruppo dirigente di Sinistra italiana ed è docente dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Nella foto di Renato Ferrantini, manifestazione contro la violenza sulle donne, Roma, 25 novembre 2024

Nicolò Govoni: «Soltanto la scuola cambia la vita, ovunque nel mondo»

Che scusa abbiamo per non provare a cambiare il mondo? E, attraverso questo, cambiare anche noi stessi? È questa la domanda che sembra porsi Nicolò Govoni, giornalista, attivista e fondatore di Still I Rise, con il suo ultimo libro: Un mondo possibile (Rizzoli). Si tratta di una guida pratica e ispirazionale che intreccia storie, esperienze e immagini dei bambini più vulnerabili del pianeta. Attraverso un racconto intimo e diretto, Govoni ripercorre la nascita e l’evoluzione della sua organizzazione umanitaria, la prima al mondo a offrire gratuitamente ai rifugiati il percorso di studi dell’International Baccalaureate. Un diploma internazionale riconosciuto in tutto il mondo che offre un percorso di studi rigoroso e completo, progettato per preparare gli studenti a una formazione superiore.
Non si tratta solo di garantire la sopravvivenza, ma di lasciare un segno duraturo nei territori in cui l’organizzazione opera. Dalle scuole d’eccellenza in Kenya, Siria e Grecia, fino alle vite trasformate di chi ha trovato una seconda possibilità, il libro invita a riflettere sul ruolo che scegliamo di assumere nel mondo. Rifiutando risposte facili e scappatoie, Govoni propone un nuovo modo di pensare l’attivismo: non più come un gesto caritatevole, ma come un impegno che ridefinisce i rapporti tra noi e gli altri.
Per l’uscita del suo libro Un mondo possibile, Left ha incontrato Nicolò Govoni per parlare del suo percorso, dell’attivismo e delle sfide che questo comporta.

Nicolò Govoni, lei è sempre stato critico verso un certo tipo di attivismo, arrivando a definirlo “volonturismo”. In un momento in cui il suo lavoro è spesso al centro di opinioni contrastanti, che consiglio darebbe a chi vuole avvicinarsi a questo mondo?
Il lavoro che svolgiamo dovrebbe essere visto come il nostro unico atto politico, un impegno che va oltre la routine quotidiana e che riflette i nostri principi più profondi. In quanto membri della società civile, è fondamentale che manteniamo un comportamento imparziale, non solo per etica, ma anche per garantire l’efficacia e la giustizia in ciò che facciamolo. È fondamentale approcciarsi all’attivismo con serietà e consapevolezza, evitando scorciatoie o comportamenti poco etici.

Quando e come ha capito che questa era la sua strada?
All’inizio del mio percorso, mi era stato venduto un sogno vuoto per 1.000 euro. Sono stato mandato in un orfanotrofio in India senza alcuna competenza, formazione o progetto concreto. Quell’esperienza mi ha aperto gli occhi sull’importanza di un volontariato etico. Svuotare di significato un gesto altruista non solo danneggia chi lo riceve, ma alimenta la sfiducia verso le Ong e gli attivisti. Secondo gli ultimi dati dal 2010 la fiducia del pubblico nelle Ong è calato del 20%, è un trend che va fermato. È fondamentale trattare il volontariato con responsabilità e rispetto, perché anche il solo fatto di potersi donare agli altri è un privilegio.

Quali sono i principi fondamentali che garantiscono un volontariato etico, efficace e sicuro?
Dentro Still i Rise, il nostro lavoro si basa su quattro principi fondamentali, le quattro S. La prima sono i soldi: se un’organizzazione ti chiede di pagare per partecipare, significa che il suo interesse principale non è l’impatto che puoi avere, ma il profitto. Questo approccio svuota di significato il volontariato, che dovrebbe sempre mettere al centro la causa e il cambiamento concreto che si può generare. Il secondo principio è la specializzazione. Fare volontariato non significa improvvisarsi: ogni progetto ha bisogno di persone con competenze specifiche e una preparazione adeguata. Solo attraverso la specializzazione si può offrire un aiuto realmente efficace, che porti benefici tangibili alle comunità coinvolte.
La terza S è la selezione. Un’organizzazione che non seleziona i volontari, accettando chiunque senza criteri chiari, rischia di non valorizzare il contributo di ciascuno. Il volontariato deve essere strutturato: è essenziale assegnare ruoli specifici e responsabilità ben definite, per evitare sprechi di risorse o interventi inefficaci. Infine, c’è la supervisione. Anche il miglior progetto, se lasciato senza controllo, può fallire o addirittura diventare pericoloso. I volontari non dovrebbero mai essere abbandonati a loro stessi, specialmente in contesti complessi o in situazioni politiche e sociali delicate. Una supervisione costante garantisce sicurezza, supporto e una gestione etica ed efficace delle attività, assicurando che gli obiettivi vengano raggiunti senza rischi inutili per chi partecipa o per le comunità coinvolte.

Nicolò Govoni con gli studenti di una scuola di Still I Rise

Qual è il nodo centrale delle difficoltà che Still I Rise affronta?
Il diritto all’istruzione è il fulcro di tutto. Ogni bambino ha diritto a ricevere la migliore educazione possibile, indipendentemente da dove nasce. Garantire questo diritto non significa solo trasmettere conoscenze, ma anche insegnare valori, inclusione e capacità di pensiero critico. La nostra sfida è rendere l’istruzione uno strumento di cambiamento reale per chi non ha nulla.

Perché proprio ora ha deciso di scrivere un libro?
Still I Rise è cresciuta enormemente negli ultimi anni, trasformandosi da una piccola realtà in un’organizzazione complessa, che opera su scala globale. Con questa crescita, ho sentito il bisogno di raccontare la nostra storia in modo più strutturato e accessibile, non solo per celebrare i traguardi raggiunti, ma anche per trasmettere ciò che abbiamo imparato lungo il percorso. Questo libro è una riflessione sul nostro lavoro, sui valori che ci guidano e sulle sfide che abbiamo affrontato. Volevo offrire uno strumento concreto a chiunque voglia avvicinarsi al mondo dell’attivismo, una sorta di guida che mostri come un’idea possa trasformarsi in un progetto reale, capace di cambiare vite. Questo libro vuole essere un ponte: tra chi cerca una strada e chi desidera capire come fare la differenza, ovunque si trovi. È anche un invito a guardare oltre i propri limiti, a credere che ognuno di noi abbia il potere di contribuire a un mondo migliore, con coraggio e determinazione. Raccontare tutto questo è il mio modo di dire che cambiare è possibile, anche partendo da zero, con il giusto impegno e una visione chiara.

Qual è il valore più profondo dell’aiutare gli altri?
Aiutare gli altri è un modo per essere utili e fare qualcosa di tangibile, ma anche un’opportunità per conoscere meglio noi stessi. Donarsi agli altri, uscire dalla propria zona di comfort, spesso permette di scoprire una forza interiore inaspettata. Questo tipo di impegno arricchisce non solo chi riceve aiuto, ma anche chi lo offre, dando un significato più profondo al proprio percorso di vita. L’esempio dei bambini con cui lavoriamo è ciò che più mi ha insegnato. Se loro, pur provenendo dalle condizioni più difficili, trovano il coraggio di sognare, rialzarsi e cambiare il proprio destino, allora non ci sono scuse per tirarsi indietro. La loro forza mi ricorda ogni giorno che il cambiamento inizia da un atto di coraggio, anche piccolo, che può trasformare la vita di molti.

Nella foto: marcia di protesta a difesa della scuola a Mathare, Nairobi, Kenya, maggio 2024 

Gaza è un test morale

Ha ragione il professore Mario Ricciardi quando scrive che Gaza è un test morale. La violenza del conflitto in Medio Oriente, a partire dal 7 ottobre, svela le ipocrisie di chi si è costruito un profilo di credibilità sommessamente, fingendo.
Da ieri, il leader israeliano Benjamin Netanyahu è ufficialmente un ricercato internazionale, insieme al suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. Sono ritenuti responsabili della devastante guerra all’interno della Striscia di Gaza, definita un “attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile”.
È la prima volta che un alleato dell’Occidente viene condannato dalla Corte penale internazionale. È sicuramente la prima volta che le politiche estere di Europa e Usa vengono schiaffeggiate dal diritto.
Netanyahu come Putin, leader criminali. E non sorprende che qualche unto commentatore festeggiasse nel caso del mandato dell’Aia nei confronti dell’oligarca russo (“la decisione rimette ordine nelle regole internazionali”, scriveva, ad esempio, un direttore di quotidiano) e ora che quell’Aia sia diventata colpevole “della caccia all’ebreo”.
Serve, del resto, molta ipocrisia per ritenere il genocidio una forma di legittima difesa. Ci vuole molta ipocrisia per credere che la privazione di acqua, cibo e medicine abbia a che fare con la caccia ai terroristi. Ci vuole molta ipocrisia per ritenere Netanyahu una sineddoche di tutti gli ebrei, pur di arrivare a evocare l’antisemitismo.
Gaza è un test morale anche per la classe politica. Se Netanyahu è un criminale, è fin troppo facile immaginare chi siano i suoi fiancheggiatori, che ne risponderanno di fronte alla Storia.

Buon venerdì.

Nella foto: l’ex ministro Gallant e il premier Netanyahu

I carabinieri “infedeli” e l’omicidio del sindaco Angelo Vassallo

Le lancette hanno da poco fatto scattare un nuovo giorno su Pollica, un Comune di poco più di duemila anime della provincia di Salerno, poco meno di 150 km da Napoli.
È l’1:47 del 6 settembre 2010: Angelo Vassallo, 57 anni, sindaco di quella comunità, viene trovato senza vita all’interno della sua auto. Il corpo è crivellato di colpi. Ben nove. Esplosi, ricostruiranno gli inquirenti, tra le 21:10 e le 21:12 della sera del 5 settembre. Da soli 40 cm di distanza.
Dopo ben quattordici anni, le indagini paiono finalmente essere arrivate a un punto di svolta: per quell’omicidio la Procura di Salerno ha arrestato quattro persone. Non comuni. Tra loro, infatti, figurano un ex brigadiere e, soprattutto, un colonello dei Carabinieri. L’accusa recita: omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dalle finalità mafiose.

Secondo i magistrati, Angelo Vassallo avrebbe scoperto un ingente traffico di droga – non semplice spaccio – e individuato i responsabili, che era pronto a denunciare. Tanto da aver già fissato un appuntamento col Procuratore di Vallo della Lucania, Alfredo Greco. Quell’incontro si sarebbe dovuto tenere proprio nella mattina del 6 settembre 2010, un’alba che Vassallo non arrivò però a vedere.

Una delle prime piste investigative, in effetti, era stata quella che riconduceva alla «scoperta da parte del Sindaco di un traffico di stupefacenti effettuato utilizzando imbarcazioni che attraccavano al porto di Acciaroli, nel quale sarebbero stati coinvolti non solo soggetti notoriamente legati agli ambienti dello spaccio, ma anche soggetti evidentemente ‘insospettabili’ e di elevata caratura criminale, come evincibile dalla reticenza mostrata dal sindaco nell’esporre la sua scoperta e nello svelare l’identità dei responsabili, e dalla manifestazione di un timore (purtroppo più che fondato) per la sua vita».

Il sindaco, in effetti, dalla fine di agosto, insieme ad alcuni agenti fidati della Polizia Municipale, aveva personalmente effettuato controlli serali e notturni nella zona del porto. Acciaroli, la frazione sul mare del Comune di Pollica, durante l’anno di abitanti ne conta addirittura solo seicento. Eppure d’estate le sue spiagge e i suoi locali si riempiono, fino a contare anche ventimila turisti. E proprio con i titolari di alcuni di questi locali il sindaco Vassallo sarebbe arrivato a scontrarsi, rimproverando loro di tollerare l’evidente spaccio di droga.

La pista del traffico di droga era stata però abbandonata nel corso degli anni successivi. Perché?
È qui che i giudici credono c’entri il colonello dei Carabinieri Fabio Cagnazzo: sarebbe autore di una «minuziosa, articolata e dettagliata attività di depistaggio […] protesa verso l’individuazione della figura del perfetto colpevole in Damiani Bruno Humberto, noto come il ‘Brasiliano’, spacciatore presente e operativo ad Acciaroli nell’estate 2010».

Il “perfetto colpevole”, un uomo di origini brasiliane, noto spacciatore.
Cagnazzo, fin dalla scoperta del cadavere del sindaco Vassallo avrebbe indirizzato le indagini in quella direzione. Suggerisce la perquisizione dell’abitazione del “Brasiliano” e la prova dello “stub” (un test che serve a verificare la presenza dei residui di uno sparo da arma da fuoco) a suo carico. Effettuati entrambi, senza esito.
Successivamente, insieme al suo sottoposto Gino Molaro, acquisisce le telecamere di sorveglianza di un esercizio commerciale per farle esaminare dai suoi uomini: dirà poi che nelle immagini il “Brasiliano” appare gironzolare intorno al Sindaco Vassallo. Peccato che il video sia manipolato ad arte, così da tagliare i frame che ritraggono Damiani nella zona del porto proprio nei minuti in cui avviene l’omicidio.
In contatto con la famiglia di Angelo Vassallo, il colonnello riferisce loro – falsamente – di aver ricevuto informazioni da testimoni che avrebbero visto il “Brasiliano” gettare una pistola in acqua, nei pressi della banchina.
Ancora: la mattina successiva all’omicidio, Cagnazzo, pur non avendo alcun incarico, si reca con due civili presso un’abitazione poco distante dal luogo dell’omicidio. Al carabiniere in vacanza che la abita in quel momento chiede se abbia sentito gli spari, se abbia visto qualcosa. Alle risposte negative, va via. Gli inquirenti credono che questa febbrile attività sia dovuta all’ansia di assicurarsi che tutto sia andato liscio, che nessuno abbia visto e sentito niente.
Non si limita ai depistaggi. Avrebbe riempito infatti di schiaffi e pugni Luca Cillo, un agente immobiliare che, parlando con i familiari del sindaco, aveva loro riportato di essere a conoscenza del coinvolgimento di Cagnazzo in un fiorente traffico di stupefacenti scoperto da Vassallo.

Le indagini cominciano a vagare nel vuoto. Per anni. La pista principale, suggerita con cura da Cagnazzo, porta in un vicolo cieco: la posizione del “Brasiliano” viene archiviata per ben due volte, perché non c’è nulla che lo associ all’omicidio.

Nel 2016 va in onda su Rai1 il film Il sindaco pescatore che ripercorre la vita di Angelo Vassallo, tenendone viva la memoria anche per il grande pubblico.
Ma è nel 2019 che il potere mediatico svolge una funzione chiave di “stimolo” dell’attività investigativa. La trasmissione Tv Le Iene manda in onda un’inchiesta che contiene interviste a molti dei protagonisti di questa oscura vicenda. Che riportano elementi che gli inquirenti ritengono utili al punto da riportarne ampi stralci all’interno dei documenti ufficiali.

Le Iene partono da una novità investigativa che per la prima volta dà credito alle voci che pure giravano dal 6 settembre 2010: nel 2018 viene infatti iscritto nel registro degli indagati un carabiniere. Si tratta del brigadiere Lazzaro Cioffi, legato a Cagnazzo anche per aver lavorato insieme nella caserma di Castello di Cisterna (Napoli).
Cioffi è peraltro il genero di Domenico D’Albenzio, camorrista, condannato in via definitiva per omicidio. E conduce attività economiche difficilmente conciliabili col suo ruolo. A partire dalla gestione di distributori di carburanti.

Cioffi è uno dei quattro arrestati. In realtà era già agli arresti quando la Procura di Salerno ne ha ordinato l’arresto per l’omicidio Vassallo, perché condannato a 15 anni di carcere per un’altra vicenda di spaccio di stupefacenti.
Insieme ai due carabinieri, vengono tratti in arresto anche un imprenditore, Giuseppe Cipriano, e Romolo Ridosso, camorrista.
Oltre a loro, tra gli indagati dal 2022 c’erano imprenditori locali, accusati di aver messo a disposizione la struttura in cui la droga sarebbe stata stoccata in attesa di essere distribuita non solo a Pollica.

L’omicidio del sindaco Vassallo apre riflessioni che travalicano i confini del “true crime”.
La crescita del turismo a Pollica, vista la meraviglia di Acciaroli, comporta lotte per l’assegnazione delle spiagge pubbliche, per l’apertura di locali che devono fare soldi con la movida estiva. Ma, anche, con altro tipo di merce, illegale. La droga, per l’appunto, strumento di penetrazione per alcuni clan della camorra e di arricchimento per “abituale frequentatori” della località.
La caratteristica di fondo e quella più pericolosa non sta tanto nella presenza di Carabinieri “infedeli”, nelle mele marce che disonorano l’Arma (principale chiave di lettura – oggi! – offerta dal potere politico e mediatico), quanto in quella che i magistrati definiscono «la circolarità dei rapporti leciti ed illeciti e il collegamento territoriale con la cittadina cilentana».
Lecito e illecito, legale e illegale, non sono in un rapporto di netta contrapposizione, bensì di continuità circolare. L’uno sfocia nell’altro per poi mutarsi nuovamente nel primo. Carabinieri, camorristi e imprenditori passano dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. Potere dello Stato, potere criminale per eccellenza (ma anche economico) e potere economico costituiscono una trama che si va a innestare su un territorio per approfittare dei mutamenti che stanno intervenendo tanto in termini di accumulazione economica quanto di potere territoriale.
Come ha scritto il saggista Paolo Persichetti «i cattivi, a volte, non stanno nel posto che ti aspetti».

Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

Nella foto: Angelo Vassallo, il “sindaco pescatore” (da Fondazione A.Vassallo fb)

Nuovo muro israeliano nel Golan. Intanto la Corte penale dell’Aja ha abbattuto il muro dell’impunità

Israele ha ripreso i lavori per la costruzione di un muro di separazione lungo il confine con la Siria, nelle alture del Golan, un progetto avviato nel 2011 e sospeso per anni. Secondo la posizione israeliana, l’infrastruttura, simile a quelle già erette ai confini con Gaza, Libano, Egitto e Cisgiordania, si propone di rafforzare i confini e garantire maggiore sicurezza contro le minacce percepite. Ancora una volta, il muro di cinta come panacea di tutti i mali. Un classico, no? La minaccia, reale o percepita che sia, giustifica tutto, persino l’erezione di nuovi muri. Ma proviamo a guardare oltre il muro: quali sono le implicazioni geopolitiche di questa scelta? E soprattutto, quanto è efficace un muro contro le paure, che spesso sono più intangibili di qualsiasi confine?

Il Golan è un nodo gordiano geopolitico. Conquistato da Israele durante la guerra del 1967 e annesso unilateralmente nel 1981, questo territorio ha assunto un ruolo centrale sia dal punto di vista militare che economico. Le alture offrono un vantaggio tattico, consentendo di monitorare le attività militari siriane e fornendo un cuscinetto naturale contro eventuali attacchi. Ma non si tratta solo di strategia militare. Il Golan è una delle principali fonti di acqua per Israele, grazie al bacino idrico che alimenta il fiume Giordano e il Mar di Galilea. Inoltre, la terra fertile della regione contribuisce significativamente all’agricoltura israeliana, aumentando il valore di una zona su cui convergono mire diverse. La determinazione di Israele a mantenere il controllo sul Golan è evidente, nonostante la schiacciante opposizione internazionale e le ripetute condanne delle Nazioni Unite, che considerano l’occupazione del territorio una violazione del diritto internazionale.

La costruzione del muro ha implicazioni che vanno ben oltre il semplice rafforzamento dei confini. Le attività si concentrano nella cosiddetta zona di disimpegno, un’area istituita nel 1974 per separare le forze israeliane e siriane, sotto la supervisione della Forza di osservazione del disimpegno delle Nazioni Unite (UNDOF). Secondo l’UNDOF, le recenti operazioni israeliane, che includono scavi, trincee e nuove barriere di cemento, violano gli accordi internazionali e rischiano inevitabilmente di aumentare le tensioni. Tuttavia, l’organizzazione si limita a monitorare le violazioni, senza il potere di impedirle, lasciando di fatto mano libera a Israele. Immagini satellitari pubblicate recentemente mostrano un’intensa attività lungo la linea Alpha, con veicoli blindati e forze militari che garantiscono la sicurezza dei lavori. Questo nuovo tratto di muro si estende per oltre sette chilometri, aggiungendo una barriera fisica in un’aerea martoriata dalla guerra, un suolo intriso di sangue, dove ogni centimetro quadrato racconta una storia di morte e dolore.

La strategia israeliana di costruire muri di separazione è stata adottata in passato con esiti che lasciano un retrogusto amaro, come il sapore di un frutto acerbo. In Cisgiordania e a Gaza, queste barriere non hanno impedito attacchi, infiltrazioni o attività di resistenza, come dimostrato dall’Operazione Al-Aqsa Flood del 2023, che ha messo in evidenza gravi vulnerabilità nelle infrastrutture di difesa israeliane. Nonostante ciò, Tel Aviv continua a investire milioni in progetti di questo tipo, sostenendo che rappresentino un elemento chiave per la sicurezza nazionale. Ma l’efficacia di queste barriere è oggetto di critiche non solo per la loro vulnerabilità pratica, ma anche per il loro significato politico e simbolico. I muri, infatti, sono cicatrici che deturpano la pelle del mondo, segni indelebili di divisione e paura. Sono grida di possesso, monumenti all’egoismo e tentacoli che si allungano per soffocare ogni speranza di pace.

Il muro nel Golan è l’ultimo atto di una escalation pericolosa tra Israele e Siria, un’ulteriore fortificazione che cementa le divisioni e alimenta l’odio. Negli ultimi anni, Tel Aviv ha intensificato le operazioni militari in territorio siriano, colpendo infrastrutture strategiche e tentando di interrompere i collegamenti tra Damasco e Hezbollah. La nuova barriera lungo la linea Alpha può essere interpretata come parte di un piano per consolidare una presenza permanente nella regione, ridefinendo di fatto i confini e limitando la libertà di azione della Siria vicino al Golan occupato. Ma questa strategia comporta rischi significativi. La Siria, sostenuta dagli alleati dell’Asse della Resistenza, potrebbe interpretare queste azioni come una provocazione diretta, aumentando la probabilità di scontri armati. Inoltre, il muro potrebbe alienare ulteriormente la comunità internazionale, attirando nuove pressioni diplomatiche su Israele.

Un aspetto cruciale di questa vicenda è la percezione psicologica e simbolica delle barriere. Per Israele, costruire muri non significa solo creare ostacoli fisici, ma anche trasmettere un senso di sicurezza e controllo, sia alla propria popolazione sia alla comunità internazionale. Tuttavia, la storia recente dimostra che queste barriere non sono impenetrabili e che l’illusione di una sicurezza assoluta può essere rapidamente infranta.

La ripresa della costruzione del muro nel Golan solleva, quindi, una domanda fondamentale: Israele sta cercando di garantire la propria sicurezza o di diffondere una narrazione che giustifichi ulteriori politiche espansionistiche? Per la Siria e i suoi alleati, questa iniziativa è una provocazione che potrebbe portare a nuove escalation. Tel Aviv, dal canto suo, sembra disposta a correre il rischio, confidando nel supporto degli Stati Uniti e nella sua superiorità militare. Tuttavia, questa strategia potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, aumentando l’instabilità nella regione e costringendo Israele a confrontarsi con le conseguenze delle sue politiche. Le alture del Golan, si confermano un palcoscenico eterno dove la storia inscena le sue tragedie più antiche. Ancora una volta, sotto i riflettori di un conflitto senza fine, questo lembo di terra ci ricorda l’incapacità dell’uomo di trovare una pace duratura.

Intanto con Israele che continua a costruire nuovi muri, il mondo assiste a un tentativo di abbattere quelli invisibili dell’impunità. La Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso il 21 novembre un mandato di cattura contro Netanyahu e Gallant. Sebbene l’effettivo arresto sembri improbabile, poiché richiederebbe che i due leader mettano piede in Paesi che riconoscono la Cpi, questa decisione ha un grande valore simbolico. È un riconoscimento ufficiale dei crimini di guerra e contro l’umanità compiuti a Gaza, Una verità nascosta sotto strati di ipocrisia, ora esposta alla luce del sole internazionale.

Il mandato rende chiara una verità inaccettabile e intacca l’immagine di invulnerabilità che Israele ha sempre proiettato. Mentre il Golan si trasforma in un labirinto di sbarre, la giustizia traccia una linea retta, un percorso verso la verità che nessun muro potrà mai fermare.

Moltissimi casi isolati

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Un «modus operandi diffuso» fatto di «violenze fisiche e atti vessatori nei confronti di alcuni detenuti». Condotte «reiterate nel corso del tempo e messe in atto deliberatamente da un gruppo di agenti penitenziari in servizio presso la casa circondariale di Trapani».

Sono le parole della Procura di Trapani, che ha portato all’emissione di 25 misure cautelari contro altrettanti poliziotti penitenziari in servizio al carcere Pietro Cerulli. Undici sono finiti agli arresti domiciliari, quattordici sospesi dal servizio e altri ventuno risultano indagati.

In totale, quarantasei agenti sono sospettati – per ora – di aver partecipato a torture sistematiche contro i detenuti, scegliendo preferibilmente i più fragili psicologicamente. Il copione? «Tu sei un cane», «Spogliati, coso inutile», ripetevano alle vittime. E poi pugni, sputi. Nel settembre 2021, un uomo recluso è stato colpito con calci sulle gambe e violenti schiaffi alla testa. «In maniera ingiustificata – scrivono gli inquirenti – come segno di disprezzo».

Uomini trascinati sui corridoi bagnati, spinti nelle celle a calci, ricoperti di liquidi, bagnati con acqua e urina. Tutto avveniva nel “Reparto blu”, dove le telecamere di sorveglianza non registravano.

Eppure, a ogni nuovo caso, si sente parlare di «casi isolati». Lo ripetono i parlamentari di maggioranza, che negano l’esistenza di un problema sistemico e spingono per cancellare il reato di tortura. Moltissimi «casi isolati», con un sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, che sembra quasi compiacersi nel mantenere un approccio sadico nei confronti dei detenuti.

Sarà una coincidenza. Certo.

Buon giovedì.