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Regionali, il vero vincitore è l’astensionismo. Ecco perché

Il centro-sinistra, alla fine di questo 2024, riconquista due Regioni – Sardegna e Umbria – che erano passate a destra sull’onda del sovranismo in salsa post-fascista e leghista, ma il dato che pare più preoccupare è la decisa e persistente discesa della partecipazione elettorale che appare ormai prossima al “livello di guardia”. Negli ultimi due anni le tornate elettorali regionali hanno visto un’affluenza calante, secondo una tendenza preoccupante: dal 37,2% nel Lazio al 41,7% in Lombardia, dal 45,3% in Friuli V.G. al 46% in Liguria, dal 46,4% in Emilia-Romagna al 48% in Molise, dal 49,9% in Basilicata al 52,2% in Abruzzo e dal 52,3% in Umbria al 55,3% in Piemonte. Anche le elezioni europee del giugno scorso, peraltro, avevano visto un calo considerevole, con un 48,3% di votanti (il 6,2% in meno) a livello nazionale, e non sembra dunque che si possa dire che sia il voto per le Amministrazioni regionali a non essere particolarmente sentito (così come si era già gridato l’allarme alle politiche del 2022, che avevano visto un’affluenza del 63,9%, in calo di ben 9 punti rispetto al 2018).
In Emilia-Romagna il crollo dei votanti è stato del 21,3% (dal 66,7%), contro il 12,4% dell’Umbria (dal 64,7%). Certo, si temeva l’astensionismo, con ragione, soprattutto a causa del segno lasciato dalle alluvioni in Emilia-Romagna, ma non lo si immaginava così drammatico. Non tanto e solo nelle zone colpite, peraltro, quanto piuttosto nella percezione generalizzata che il governo regionale non possa dirsi esente da colpe (tra consumo di suolo e dissesto idro-geologico), rivelatasi nella campagna del Pd che ha cercato di glissare sull’argomento, anzi ribadendo di voler perseguire le scelte già compiute.
In Umbria, viceversa, la partecipazione è stata appena più alta proprio perché la candidata presidente – cattolica e pacifista – ha saputo raccogliere attorno a sé un fronte ampio, fino alla sinistra radicale, tale da invogliare al voto più elettori.
Il Pd e il “campo largo” festeggiano dunque la decisa vittoria in Emilia-Romagna e la riconquista dell’Umbria. Dopo la sconfitta subita in Liguria per appena un punto e mezzo, con grande enfasi si esalta il 56,8% di De Pascale nella regione “rossa” e il buon 51,1% di Proietti in Umbria, due risultati che lasciano la destra al palo. Le percentuali, però, sono ingannevoli, perché mascherano tanto il calo della partecipazione che quello dei voti validi.
In Emilia-Romagna il centro-sinistra esulta, nonostante la perdita di 286mila voti rispetto al 2020. Certo, il centro-destra ne perde 387mila, ma non ha troppe ragioni per brindare. Il Pd di Elly Schlein in cinque anni perde 108mila voti (il 14,4%), mentre in Umbria ne guadagna quasi 4mila e la candidata presidente 16mila. Rispetto alle europee di appena cinque mesi fa, poi, in Emilia-Romagna la perdita del “campo largo” è di 269mila voti (e per la destra di 217mila), il che indica che è stato proprio il voto regionale a segnare un calo. Avs, che alle europee aveva fatto il “botto” con 130mila voti (6,5%), perde 44mila voti sul 2020 e 50mila sul giugno scorso. Così come i pentastellati, il cui giallo è sempre più pallido, che perdono quasi 50mila sul 2020 (la metà) e 89mila sulle europee.
Nel caso dell’Emilia-Romagna, però, il calo dell’affluenza e dei voti validi è stato particolarmente vistoso, e tutto lascia pensare che le recenti vicende climatiche abbiano accentuato uno iato crescente tra società e corpo politico. Giusto per fare tre esempi di territori colpiti, nel solo comune di Bologna, ad esempio, il Pd perde 12mila voti (un sesto di quelli che aveva), Avs quasi 7mila (ben un terzo) e i 5 Stelle 4mila (la metà); a Faenza il Pd perde mille voti, dei 10.700 che aveva, e AVS due terzi; a Lugo, il Pd perde 1600 voti, dei 6mila che aveva, Avs quasi la metà. Potranno anche gioire delle buone percentuali, ma una certa preoccupazione Pd, Avs e M5S la dovrebbero avere. Non è poi solo il centro-sinistra a perdere voti, ma anche la destra, il che potrebbe far pensare alla sfiducia di territori che si sono sentiti “trascurati” (come testimonia la vicenda dei ristori).
Sinistra Italiana, Verdi e 5 Stelle, peraltro, avevano su questa questione l’occasione di puntare i piedi e di esigere una seria agenda ambientalista, che segnasse un reale cambiamento di rotta sulle politiche urbanistiche, dei trasporti e di gestione del territorio. La questione ambientale è divenuta dirimente, per una parte dell’elettorato, non necessariamente “ecologista”, e non sembra più esserci possibilità di continuare come se nulla fosse.
La sinistra radicale, invece, rimane al palo, quando si isola. In Emilia-Romagna aveva marciato divisa in tre liste nel 2020, raccogliendo 26.165 voti (1,21%). Unione Popolare prese 32.331 voti nel 2022 (1,4%), mentre Pace Terra Dignità arrivò a 46.002 (2.32%). La lista PaP+PRC+PCI prende ora appena 27.337 voti (1.8), che sono, sì, più del 2020 ma ben meno di quelli di PTD del giugno scorso. In Umbria, invece, Rifondazione Comunista partecipa alla lista Umbria per la Sanità Pubblica, in coalizione con il centro-sinistra, e ottiene un buon 2,4%, contribuendo così alla vittoria, mentre le altre liste di sinistra raccolgono solo briciole.
Il voto in Emilia-Romagna e Umbria, in ogni caso, conferma che la destra raccoglie ancora voti nelle aree interne e periferiche, ove la concentrazione delle fasce di reddito più basse è maggiore, mentre il centro-sinistra ottiene più consensi nelle aree urbane, dove i redditi medi sono più alti. Certo, i consensi vanno riducendosi per tutti, per un elettorato che fatica a distinguere le proposte politiche che gli vengono offerte, in cui i ceti popolari non trovano più rappresentanza.

L’astensione, com’è ovvio, indica una sfiducia montante e generalizzata nei partiti, che viene accentuata da un sistema elettorale rigido, che non permette la diversificazione. Le formazioni politiche, poi, non sembrano volersi davvero sfidare, accentuando una bi-polarizzazione che favorisce solo i partiti maggiori. Lo scarto tra centro-sinistra e destra in Emilia-Romagna, ad esempio, mostra che non era necessaria la solita chiamata alle urne «altrimenti vince la destra», mentre vi sarebbe stato spazio per una terza forza. Se Avs e 5 Stelle avessero fatto coalizione a sé – aprendosi a sinistra e contrapponendosi al Pd – avrebbero potuto forse ambire a più di quell’8,8% che li relega a partner minori, raccogliendo anche un voto di “protesta” che, per non premiare il Pd, è finito inespresso. La “paura della destra” ha avuto la meglio ma ora sarà dura per chiunque ribadire il no alla cementificazione e alle grandi opere e maggiore tutela ambientale. Così, si è lasciato vincere il “partito del cemento” sperando che, di qui alla prossima alluvione, si ravveda davvero.

L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario all’Università di Bologna. Insegna Economia dello sviluppo ed Economia dello sviluppo internazionale. Il suo nuovo libro s’intitola Le classi sociali in italia oggi (Laterza) 

Cop29 come se fosse un hobby

A Baku, la Cop29 non smette di ricordarci che il cambiamento climatico è il convitato di pietra della politica globale. Le promesse scivolano sui tavoli come un rituale stanco: l’Unione Europea confessa il ritardo nei contributi nazionali (gli Ndc), le nazioni più inquinanti continuano a litigare sul “chi paga” e i Paesi vulnerabili attendono un fondo promesso da anni, mai veramente realizzato.  

I leader mondiali parlano di “svolta” ma guardano altrove. Il Commissario europeo Wopke Hoekstra ammette che l’obiettivo di aggiornare gli impegni climatici entro il 2025 potrebbe essere disatteso. Intanto, le emissioni globali toccano nuovi record, e ogni parola pronunciata nelle aule di Baku sembra galleggiare in un vuoto di credibilità.  

Il finanziamento climatico – il cuore del problema – è ancora una favola a cui nessuno sembra credere davvero. La roadmap proposta per garantire i 100 miliardi di dollari annuali resta un elenco di buone intenzioni, mentre chi avrebbe bisogno di risposte concrete continua a soccombere a eventi estremi e devastazioni.  

La questione climatica, relegata ai margini delle priorità globali, viene affrontata con lo stesso entusiasmo di un’incombenza amministrativa. E mentre i negoziati arrancano, il tempo si accorcia. Se il clima è il termometro del nostro futuro, allora il mondo, con il suo immobilismo, sembra scegliere di ignorare la febbre. E la stampa continua a relegare la questione nelle pagine dei lettori affezionati, come se fosse un hobby quello di preoccuparsi della fine del mondo. 

Buon mercoledì.

Nella foto: l’ecoattivista Greta Thunberg protesta davanti all’ufficio delle Nazioni Unite a Yerevan, Armenia, contro la Cop29 in corso a Baku, 16 novembre 2024

Un mandato per decostruire gli Stati Uniti: il prossimo governo Trump

Trump è stato eletto e si appresta a governare dal 20 gennaio 2025. Le sue nomine per il futuro governo sembrano essere frutto di un flagrante atto vendicativo contro quelli che considera i suoi nemici e le istituzioni (il “deep State”) che hanno reso il suo primo mandato (2016-2020) un clamoroso insuccesso. Punta davvero a realizzare i cambiamenti che ha in mente. Non vuole che qualcuno della sua squadra possa diventare un ostacolo, per cui sceglie solo dei fedeli esecutori dell’agenda MAGA e dei suoi ordini che manterranno le sue promesse. Con le sue nomine controverse, spregiudicate e scandalose, Trump ci sta mostrando esattamente come intende governare: come un estremista autoritario, con disprezzo per il pianeta, gli alleati dell’America e lo Stato di diritto.

Il contesto economico-politico: la crisi delle promesse del neoliberismo

La globalizzazione, il capitalismo del libero mercato e il neoliberismo, i principi organizzativi di tutti gli Stati tranne pochi, hanno mantenuto la promessa di avvicinarci tutti. Ma ciò che spesso viene trascurato è il modo in cui questi processi ci hanno resi più simili creando vincitori e vinti più o meno allo stesso modo in tutto il mondo. La standardizzazione dei modi di vivere e fare affari che la globalizzazione ha prodotto ha ancorato i vincitori e ha sganciato i vinti. Le nostre vite sono molto più riconoscibili l’una all’altra rispetto a 30 anni fa. Siamo stati tutti inondati da beni, servizi, app e intrattenimento digitale, eppure sentiamo ancora il bisogno di qualcos’altro, di un senso di sicurezza che vada oltre la nostra capacità di consumare nell’immediato.

Fingere di soddisfare tale esigenza è ciò che ha portato alla vittoria di Donald J. Trump. Lui capisce che un sistema oligarchico che arricchisce pochi non può garantire sicurezza economica alle masse. Se vuoi la maggioranza degli elettori dalla tua parte, devi promettere un cambiamento, ma non in un modo che riconfiguri effettivamente la struttura della società.

Il problema non è un sistema rapacemente capitalista che ha portato a un’assistenza sanitaria non funzionante, un sistema politico parlamentare catturato da ricche e potenti lobby o una deregolamentazione che ha spogliato i lavoratori dei loro diritti statutari e di conseguenza ha creato un trasferimento epico di ricchezza a una classe di miliardari. Il problema sono gli immigrati clandestini, i nemici all’interno della burocrazia che hanno cercato di far cadere Trump durante il primo mandato, gli estremisti della diversità (LGBTQ+, “wokism” e la teoria critica della razza, ossia la “Critical Race Theory”), per cui Trump probabilmente userà la dichiarazione di un’emergenza nazionale per utilizzare l’esercito per deportare milioni di immigrati e le accuse di antisemitismo per lanciare una repressione “anti-woke” nelle università americane. Se sei un leader di un partito centrista come quello Democratico e tutto ciò che hai per contrastare questa potente visione sono un sacco di bei valori, la promessa vaga e vuota di “creare una economia delle opportunità“ (un’idea che ha maggiori probabilità di attrarre gli imprenditori piuttosto che i lavoratori in difficoltà), tanti grandi sorrisi a 32 denti e “gioia” danzante ma nessuna proposta materiale e concreta per cambiare radicalmente la vita delle persone (la Harris non ha spiegato se e come avrebbe affrontato l’avidità aziendale e la disuguaglianza). Non hai nemmeno portato un coltello a una sparatoria: hai portato la pop star Taylor Swift e la repubblicana moderata, Liz Cheney, figlia del “falco” neoconservatore guerrafondaio Dick (il principale responsabile della guerra in Iraq). Questo mentre tra le decine di milioni di lavoratori i cui salari non hanno tenuto il passo con il costo della vita negli ultimi anni, si è registrata molta più frustrazione che gioia.

Il modello di libero mercato socialmente neoliberale in cui credono i liberal progressisti si è bloccato nel 2008 ed è entrato in una crisi profonda. Ma nelle loro intenzioni sarebbe sempre andato avanti senza una regolamentazione più aggressiva, politiche redistributive e il tipo di rete di sicurezza ad alta tassazione e alta spesa che è necessaria quando le relazioni e gli equilibri sociali tradizionali vengono infranti (come prevedeva il modello del New Deal e della socialdemocrazia). Sulla scia della globalizzazione, intere comunità negli Stati Uniti, come nel resto dell’Occidente, sono state frantumate e deindustrializzate mentre una classe operaia urbana mal pagata è stata creata nel Sud del mondo. Dopo il crollo finanziario del 2008, la ricchezza si è concentrata e ha escluso un’intera generazione di persone dalla vita della classe media e lavoratrice che avevano i loro genitori. Negli anni 2010, con l’ascesa delle aziende tecnologiche della Silicon Valley, si è aggiunto un crescente proletariato precario: autisti, riders e imballatori di scatole sono stati gettati in lavori mal protetti e mal pagati. I social media sono stati lanciati con la promessa del crowdsourcing della verità contro il potere e di avvicinarci tutti, poi hanno ceduto allo “smerdamento”, alla disinformazione, ai deepfake e al razzismo.

La vita moderna è fuori controllo. Non c’era modo per i Democratici di imitare il trucco di Trump e del resto della squadra autoritaria. Ostacolati dalla crescente esposizione di quel poco che i liberal possono fare in un mondo neoliberista, i progressisti negli Stati Uniti possono solo sottolineare l’importanza della legge, della costituzione, dell’ordine e delle istituzioni. Finché i centristi insisteranno su questo sistema e spereranno nel meglio, le democrazie occidentali saranno vulnerabili. La democrazia liberale elettorale e formale da sola non può garantire libertà e uguaglianza se il sistema economico in cui esiste impedisce a queste stesse qualità di emergere. Diviene una “democrazia oligarchica” o una “democrazia autoritaria”.

I politici autoritari e gli oligarchi che li appoggiano hanno una risposta al problema dei sistemi troppo redditizi e consolidati da disfare: mentire, usare capri espiatori e fare appello alle paure, ai pregiudizi e alle vanità delle persone. I liberal progressisti no. Perché non riescono a comprendere che all’interno di tali sistemi, i benefici della razionalità e delle libertà individuali, e la ricerca di soluzioni scientifiche e prosperità personale semplicemente non si accumulano più in modo significativo per un numero sufficiente di persone. L’ascensore sociale non sale, è fermo o scende sempre più in basso.

È più facile credere che sia stato il razzismo a far eleggere Trump. Ma la verità è che Trump ha vinto quasi due terzi di tutti gli elettori senza laurea e ha migliorato la sua performance con la classe lavoratrice non bianca. Secondo i sondaggi in uscita, il suo sostegno tra i neri è aumentato di oltre un terzo. Ha anche vinto una larga quota di latinoamericani, che sembravano fidarsi di lui di più per quanto riguarda l’economia, che i sondaggi hanno mostrato essere di gran lunga la questione più importante per gli elettori di origine latinoamericana.

La verità è che in tutto il mondo occidentale, il vecchio ordine basato sulla democrazia liberale è in drastico declino o scomparso e quello nuovo è sconcertante. Le persone si sentono intrappolate e vogliono un senso di liberazione, una promessa di un futuro radicalmente diverso, o semplicemente un futuro. Anche se quel senso di libertà proviene indirettamente da un autocrate o un oligarca miliardario che ha piegato e spezzato le catene del sistema. E vogliono sentirsi parte di qualcosa di più grande e forte mentre diventano più soli e più deboli e i loro mondi si fratturano e si atomizzano giorno dopo giorno. Non è che non siano pronti per la democrazia: la democrazia non è pronta per loro.

Le scelte di Trump

Il giorno dopo le elezioni presidenziali, molte anime belle hanno pensato che, nonostante il risultato non gradito, la democrazia non fosse finita, dopotutto, le elezioni erano democrazia. L’ex e futuro presidente avrebbe sicuramente rinunciato alle sue frenetiche minacce fatte nel corso della campagna elettorale e si sarebbe dedicato al banale compito di governare. Rendere di nuovo grande l’America richiede sobrietà e competenza, e Trump e i suoi consiglieri avrebbero senza dubbio riconosciuto tale obbligo.

Per gli oligarchi del business, la nuova amministrazione promette una prosperità inimmaginabile: la regolamentazione sarà allentata, le aliquote fiscali diminuite. Elon Musk renderà il governo dello Stato federale civile, generoso ed “efficiente” come la sua piattaforma di social media, X. Jeff Bezos, dopo aver ordinato al comitato editoriale del suo giornale (il Washington Post) di bloccare il suo sostegno a Kamala Harris, ha twittato disinteressatamente «grandi congratulazioni» a Trump, per il suo «straordinario ritorno politico». I dirigenti di Wall Street hanno esultato perché il «clima di fusioni e acquisizioni» porterà opportunità oltre ogni immaginazione. Come queste opportunità potranno giovare alla classe lavoratrice, presumibilmente sarà chiarito in un secondo momento.

Nel frattempo, il presidente eletto, in vista del suo ritorno alla Casa Bianca il 20 gennaio 2025, ha convocato i suoi fedelissimi a Mar-a-Lago, dove hanno messo insieme uno staff della Casa Bianca e un Gabinetto. Storicamente, questo è un processo deliberativo che può, anche con le nobili intenzioni, andare terribilmente male. Almeno sul piano retorico, Trump non è interessato alle nozioni convenzionali di competenza (che sa di elitismo). Né è interessato alla creazione di un gruppo di consiglieri capaci di articolare un disaccordo critico costruttivo, una squadra di rivali (che sa di slealtà). Mentre le sue scelte del personale – che richiederanno l’approvazione del Senato controllato (53 a 47) dai repubblicani che, in molti (alcuni ancora della vecchia guardia, per cui è stato eletto speaker il moderato John Thune del Sud Dakota), non appaiono contenti per la presenza di diversi candidati controversi e in gran parte senza nessuna esperienza governativa – si sono svolte nel corso delle due ultime settimane, è diventato chiaro che puntano interamente alle sue priorità di lunga data.

In passato, numerosi candidati alle posizioni di governo hanno fatto ricorso a una retorica che avrebbe indebolito la missione delle agenzie per le quali sono stati proposti. Le nomine dell’ex deputato della Florida Matt Gaetz come Procuratore Generale (mentre gli avvocati penalisti personali di Trump, Todd Blanche ed Emil Bove, sono stati scelti per i ruoli più importanti nel Dipartimento di Giustizia), dell’avvocato ambientalista, scettico sui vaccini e nipote dell’ex presidente John F. Kennedy, Robert F. Kennedy, Jr., come Segretario della Salute e dei Servizi Umani (che supervisiona la Food and Drug Administration, l’agenzia che regola cibo e farmaci), del conduttore di Fox News e veterano militare Pete Hegseth come Segretario della Difesa e l’ex deputata democratica delle Hawaii (fino al 2022), Tulsi Gabbard, come Direttore dell’Intelligence Nazionale, sono il residuo dei risentimenti di Trump e della sua sete di vendetta contro i suoi oppositori del “deep State” che comprende le agenzie di intelligence, il Dipartimento di Giustizia e l’esercito. Durante il primo mandato di Trump, questi organismi si sono opposti alle sue mosse più autoritarie, come l’impiego di truppe contro i manifestanti e la dichiarazione di illegittimità delle elezioni del 2020.

In Gaetz, che affronta accuse (da lui negate) di uso illegale di droga e di aver fatto sesso con una minorenne, Trump vede se stesso, un uomo giudicato ingiustamente, insiste, come responsabile di abusi sessuali. In Kennedy, un teorico della cospirazione anti-vaccino, vede una rivendicazione del suo stesso sospetto sulla scienza e la sua gestione selvaggiamente irregolare della crisi del CoVid-19. In Hegseth, che difende i criminali di guerra e critica i generali “risvegliati”, vede una vendetta contro gli esponenti dell’establishment militare che lo hanno definito inadatto. In Gabbard, che trova il buono nei dittatori stranieri (ha espresso simpatia anche per Putin), vede qualcuno che potrebbe modellare il lavoro delle 18 agenzie di intelligence (tra cui CIA e NSA) per contrastare gli oppositori interni ed esterni e per aiutare a giustificare la fine del sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina. In altre parole, le nomine di Trump, nel loro sconsiderato sostegno a chi è pericolosamente non qualificato, sembrano essere frutto di un flagrante atto vendicativo. Ma sta andando anche oltre i limiti che la maggioranza dei senatori repubblicani sembrano essere disposti a tollerare.

Tutti questi nominati sono destinati a sostenere lo sforzo di Trump di licenziare i funzionari e decostruire le istituzioni federali che disprezza o considera come minacce al suo potere o alla sua persona. Questi nominati non sono destinati a essere i suoi consiglieri (tra questi, invece, oltre al vicepresidente JD Vance, ci sono Elon Musk e Peter Thiel, il miliardario responsabile dell’ascesa di Vance; Susie Wiles, Capo dello staff della Casa Bianca; Stephen Miller, vice Capo dello staff per la politica, che è stato stretto consigliere e speechwriter di Trump dal 2015 e che durante il primo mandato di Trump, è stato coinvolto nello sviluppo di alcune delle più severe politiche sull’immigrazione dell’amministrazione; l’avvocato repubblicano William McGinley che assumerà il ruolo di consigliere della Casa Bianca e ha prestato servizio come segretario di gabinetto della Casa Bianca durante parte del primo mandato di Trump ed è stato il consigliere del Republican National Committee per l’integrità elettorale nel 2024; Karoline Leavitt che sarà l’addetta stampa della Casa Bianca; Steven Cheung che sarà il direttore della comunicazione ed è parte del team di Trump dal 2016; Sergio Gor, socio in affari di Donald Trump Jr, che sarà l’assistente del Presidente). Sono le sue fedeli truppe d’assalto – i “disruptors”, ossia persone che sconvolgeranno lo status quo – che credono ciecamente nell’ideologia trumpiana. D’altra parte, se le scelte del gabinetto di Trump, vengono disprezzate e stroncate dai critici di Washington (che vedono candidati sottoqualificati e discutibili), entusiasmano molti dei suoi elettori che li descrivono come degli anticonformisti reclutati per scuotere Washington.

A questi si aggiungono altri fedelissimi di Trump come il ricco Doug Burgum, governatore del Dakota del Nord, per guidare il Dipartimento degli Interni, l’agenzia responsabile della gestione e della conservazione delle terre federali e delle risorse naturali. L’ex membro del Congresso della Georgia (ha perso la corsa al Senato) e cappellano della US Air Force Reserve, Doug Collins, è stato scelto per guidare il Dipartimento per gli Affari dei Veterani. La governatrice del Sud Dakota Kristi Noem alla Homeland Security, un ruolo ministeriale chiave di supervisione della sicurezza degli Stati Uniti, compresi i confini, le minacce informatiche, il terrorismo e la risposta alle emergenze (l’agenzia ha un budget di 62 miliardi di dollari e impiega migliaia di persone). Il fondatore e CEO di Liberty Energy del settore petrolifero e del gas (fracking) Chris Wright guiderà il Dipartimento dell’Energia, dove dovrebbe mantenere la promessa della campagna elettorale di Trump di «trivellare, baby, trivellare» e massimizzare la produzione energetica fossile degli Stati Uniti (ha definito allarmisti gli attivisti per il clima, ha paragonato la spinta dei Democratici per le energie rinnovabili al comunismo in stile sovietico e in un video pubblicato sul suo profilo LinkedIn l’anno scorso, ha affermato: «Non c’è alcuna crisi climatica e non siamo nemmeno nel mezzo di una transizione energetica»). Lo “zar del confine”, l’ex agente di polizia che è stato direttore ad interim dell’US Immigration and Customs Enforcement (ICE) durante il primo mandato di Trump, Tom Homan, ricoprirà un incarico fondamentale perché include la responsabilità delle deportazioni di massa di milioni di migranti clandestini da parte di Trump, che è stata una promessa centrale della campagna (ha garantito che gestirà «la più grande operazione di espulsioni che questo paese abbia mai visto»). Homan, insieme a Miller e Noem rappresenta la fazione dei sostenitori della linea dura sul controllo di confine e immigrazione e Trump stesso ha suggerito che dichiarerà l’emergenza nazionale e userà l’esercito per portare avanti le deportazioni di massa. L’ex deputato repubblicano e tra i dirigenti del think-tank texano trumpiano America First Policy Institute (AFPI), Lee Zeldin, guiderà l’Environmental Protection Agency (EPA) e si occuperà della politica climatica americana in questo ruolo (ha già detto che ha intenzione di “ridurre le normative” fin dal primo giorno). La deputata di New York Elise Stefanik è stata scelta per ricoprire il ruolo di ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Trump ha scelto il suo ex direttore dell’intelligence nazionale, l’ex membro del Congresso del Texas John Ratcliffe, per ricoprire il ruolo di direttore della Central Intelligence Agency (CIA). Trump ha anche detto che licenzierà il direttore dell’FBI Chris Wray, che aveva nominato nel 2017, ma con cui da allora ha litigato. Jeffrey Jensen, un ex procuratore degli Stati Uniti nominato da Trump, viene preso in considerazione per sostituire Wray. Il deputato della Florida ed ex membro delle Forze speciali dell’esercito americano, Michael Waltz, è stato scelto come prossimo Consigliere per la Sicurezza Nazionale (dovrà aiutare a gestire la posizione degli Stati Uniti sulle guerre in Israele, in Ucraina e in Russia); insieme a Rubio e Ratcliffe forma la fazione dei falchi anti-Cina. Trump ha scelto l’investitore immobiliare e filantropo Steve Witkoff per il ruolo di inviato speciale in Medio Oriente. Witkoff farà coppia con l’ex governatore dell’Arkansas e fervente pastore evangelico Mike Huckabee che sarà ambasciatore degli Stati Uniti in Israele (Huckabee è fermamente filo-israeliano e in precedenza ha respinto l’idea della “soluzione dei due Stati” per risolvere il conflitto israelo-palestinese). Né Huckabee né Witkoff hanno precedenti esperienze diplomatiche, né tantomeno una profonda conoscenza del Medio Oriente. Infine, il repubblicano Brendan Carr sarà a capo della Federal Communications Commission (FCC), di cui è un membro attuale, che regolamenta l’uso di Internet e delle trasmissioni. Apparentemente è un sostenitore della regolamentazione delle Big Tech: “Facebook, Google, Apple, Microsoft e altri hanno svolto un ruolo centrale nel cartello della censura che deve essere smantellato”, ha scritto su X.

Per il Dipartimento dei Trasporti (che ha un budget di circa 110 miliardi di dollari, oltre a finanziamenti significativi rimanenti nell’ambito della legge sulle infrastrutture da 1 trilione di dollari del 2021 dell’amministrazione Biden), Trump ha scelto il collaboratore di Fox News Sean Duffy, un ex membro repubblicano della Camera (2011-2019) per il Wisconsin che è stato anche parte del cast della serie The Real World: Boston (1997) prodotta da MTV. “Darà priorità a eccellenza, competenza, competitività e bellezza quando ricostruirà le autostrade, i tunnel, i ponti e gli aeroporti americani”, ha affermato Trump in una dichiarazione che annunciava la sua nomina. «Si assicurerà che i nostri porti e le nostre dighe servano la nostra economia senza compromettere la nostra sicurezza nazionale e renderà di nuovo sicuri i nostri cieli eliminando la DEI per piloti e controllori del traffico aereo» (DEI sta per “diversità, equità e inclusione” e sono dei quadri organizzativi che mirano a promuovere il trattamento equo e la piena partecipazione di tutte le persone, in particolare dei gruppi che sono stati storicamente sottorappresentati o soggetti a discriminazione sulla base dell’identità o della disabilità). Trump ha promesso di annullare le norme sulle emissioni dei veicoli dell’amministrazione Biden. Ha affermato che intende iniziare il processo di annullamento delle severe norme sulle emissioni, finalizzate all’inizio di quest’anno, non appena entrerà in carica. Le norme riducono i limiti delle emissioni allo scarico del 50% rispetto ai livelli del 2026 entro il 2032 e spingono le case automobilistiche a costruire più veicoli elettrici.

Il senatore della Florida (dal 2010) Marco Rubio, ex cubano anticastrista, è una scelta più sicura come prossimo Segretario di Stato. Sarà il primo latino nella storia degli Stati Uniti e ha una visione aggressiva verso Cina (ha descritto il rivale americano come la “minaccia che definirà questo secolo”) e Iran.

I sostenitori miliardari Elon Musk e Vivek Ramaswamy avranno un ruolo nel taglio dei costi. Sono loro che dovranno condurre l’attacco frontale contro il ruolo dello Stato federale, cercando di scardinarne le funzioni. Ramaswamy e Musk, l’uomo più ricco del mondo che ha investito 132 milioni di dollari nella campagna di Trump, sono destinati a guidare il nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), l’agenzia che, secondo Trump, condurrà un «audit finanziario e delle prestazioni completo dell’intero governo federale e formulerà raccomandazioni per riforme drastiche». Musk ha proposto di tagliare di 2 trilioni di dollari il budget federale, corrispondente a poco meno di 1/3 di quest’ultimo. L’obiettivo è lo “slash-and-burn”, il fare terra bruciata per arrivare allo “Stato minimo” con la drastica riduzione della burocrazia (almeno 1/3) per «decostruire il deep-State» (a partire dai vertici militari e dell’intelligence), la radicale privatizzazione del sistema del welfare e di altre funzioni regolative e gestionali. Sarà una guerra complicata e difficile da vincere considerati gli evidenti conflitti di interesse in campo e dato che i dipendenti del governo federale godono di forti tutele occupazionali che ostacolerebbero l’approccio di Musk alla riduzione dei costi, rendendolo forse impossibile.

Mancano ancora le nomine dei Segretari al Tesoro (tra i papabili ci sono Scott Bessent, il fondatore della società di investimenti Key Square Capital Management ed ex gestore finanziario di George Soros, che è diventato un importante fundraiser e consigliere economico di Trump; Howard Lutnick, amministratore delegato della società di Wall Street Cantor Fitzgerald e sostenuto da Musk; John Paulson, un altro mega-donatore del mondo degli hedge fund; l’ex presidente della Securities and Exchange Commission (SEC) Jay Clayton; Marc Rowan, l’amministratore delegato di Apollo Global Management; Kevin Warsh, un ex governatore della Federal Reserve); al Commercio (in ballo ci sono la donna che presiede il team di transizione di Trump, Linda McMahon; la CEO del think-tank AFPI Brooke Rollins; l’ex rappresentante commerciale degli Stati Uniti nell’amministrazione Trump dal 2017 al 2021 chi ha guidato la guerra tariffaria con la Cina e l’Unione Europea, Robert Lighthizer; e una ricca donna d’affari che ha prestato servizio per un breve periodo al Senato, Kelly Loeffler); al Lavoro; all’Agricoltura; all’Edilizia pubblica e allo Sviluppo Urbano. Trump ha promesso durante la campagna elettorale di chiudere il Dipartimento dell’Istruzione, ma per farlo servirebbe l’approvazione del Congresso.

Sul piano delle politiche economiche, ricordiamo che Trump ha detto che vuole implementare un piano per imporre tariffe elevate (dal 10% al 60%) su migliaia di miliardi di dollari di importazioni che riporterà immediatamente le fabbriche negli Stati Uniti. “Torneranno subito”, ha detto. Pochi economisti sono d’accordo, avvertendo che rispettare questa promessa causerà invece un aumento dei prezzi al consumo (inflazione), con gli oneri più pesanti che ricadranno sulle famiglie a basso reddito, e che costringerà la FED a rallentare la riduzione dei tassi di interesse o, addirittura, a rialzarli.

Trump è sempre stato ossessionato dai drammi di dominio e sottomissione, forza e debolezza, chi ride di chi. Questa è la sua lente per le relazioni umane in generale, e in particolare quando si tratta di politica, estera e interna. Durante la campagna presidenziale, Trump ha detto a una folla a Mar-a-Lago, «Il 5 novembre passerà alla storia come il giorno più importante nella storia del nostro paese. In questo momento, non siamo rispettati. In questo momento, il nostro paese è considerato una barzelletta. È una barzelletta».

Ora i critici di Trump e un numero crescente di suoi sostenitori stanno facendo il punto sulle sue nomine più vergognose: questi uomini e donne con mascelle perfette, reputazioni dubbie e idee marce. Si chiedono se questa non sia la barzelletta definitiva, con il pericolo e il declino nazionale come battuta finale.

Le forze politiche che animano la gigantesca macchina-Stato statunitense sono diventate faziose ed incoerenti all’interno di una battaglia tra il pluralismo della liberal-democrazia oligarchica e il fascismo autoritario proposto da Trump. Potrebbe essere solo questione di tempo prima che quell’incoerenza politica cominci a colpire le maggiori leve del potere economico e militare. Dal 20 gennaio 2025, con il ritorno alla presidenza di Trump dovremmo aspettarci che le disfunzioni diventino ancora più evidenti. L’enigma che devono affrontare gli alleati dell’America – a cominciare dagli europei che fanno parte della NATO, un’alleanza apparentemente difensiva rilanciata dagli USA come strumento per restaurare il proprio dominio sull’Europa e sul resto del globo – è come far fronte al declino e alla possibile implosione di una grande potenza imperiale che è ancora una grande potenza imperiale, il garante dell’ordine mondiale, ma che è anche la più grande fonte potenziale del suo disordine e sfarinamento.

“La prossima alluvione se lo ricorderanno”

“La prossima alluvione se lo ricorderanno”. L’epigrafe per analizzare il voto in Emilia Romagna, dove il centrosinistra ha vinto le elezioni regionali, è firmata da Rita Dalla Chiesa che risponde così su X a un post del suo collega di maggioranza, il leghista Claudio Borghi, che lamentava i preparativi “per la fanfara”. 

Forse la deputata di Forza Italia non lo sa ma in poche parole è riuscita a esprimere il vulnus della destra di cui fa parte: la vendetta, sempre, ad ogni costo. Le elezioni politiche di qualsiasi rango per i partiti di governo sono l’occasione di accendere una sarabanda di umiliazione degli avversari (in caso di vittoria) oppure come in questo caso di malaugurio e disprezzo in caso di sconfitta. 

La politica per molti di loro è semplicemente uno strumento di prevaricazione, fine ultimo del raggiungimento del potere. Per questo quando il risultato non conviene ai loro desiderata non resta che tingere foschi futuri evocando ed evocare tragiche conseguenze. 

In fondo non è nient’altro che complottismo radicale, quello che lucra su ciò che potrebbe accadere per non prendersi la responsabilità di analizzare il presente con tutte le sue responsabilità. 

Rita Dalla Chiesa non è, come erroneamente molti pensano, una parvenu televisiva in gita per un quinquennio in Parlamento. Dalla Chiesa  è vicecapogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. È quindi classe dirigente del partito che Tajani vorrebbe presentare come diverso e illuminato nella fronda di maggioranza. 

«Parlo con il cuore. Speravo che gli emiliani capissero che era il momento di cambiare», si giustifica Dalla Chiesa. E anche il cuore come metafora altro non è che sensazionalismo applicato alla politica: populismo, tecnicamente. 

Buon martedì. 

Così Musk, “presidente ombra” di Trump, si appresta a spianare l’High Tech europeo

A quanto pare, una tra le prime, estremamente vistose, conseguenze dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sarà che il capitano della prima casa produttrice di auto elettriche, del più grande fornitore della Nasa di vettori e navi spaziali, del proprietario di un social network noto per la disinvoltura dei suoi algoritmi, entrerà nella nuova Amministrazione. Elon Musk, capo di Tesla, SpaceX e X (il fu Twitter), sarà a capo di un dipartimento per la spending review del governo federale degli Stati Uniti. In pratica avrà, occhio e croce, mano libera per demolire quel medesimo governo. Il cielo aiuti i dipendenti e gli utenti dei servizi pubblici federali.
Dunque, quello che potrebbe essere indicato come leader (politico) del super-cartello delle maggiori imprese High Tech degli Stati Uniti – e perciò del mondo – non sarà più un interlocutore privato di quel governo. Ne sarà parte.

In molte e recenti occasioni abbiamo citato un ragionamento di Mario Draghi, offerto alla stampa in occasione del Consiglio informale dell’Ue a Budapest, in merito al Rapporto sulla produttività da lui curato. Ci permettiamo di riproporlo: dalla prospettiva del Rapporto, quindi del rilancio della competitività in Europa, un paio di cose che vengono in mente sono che questa Amministrazione Trump sicuramente darà un ulteriore grande impulso al settore tecnologico, al cosiddetto High Tech, dove noi siamo già molto indietro. E questo è il settore trainante della produttività. Già ora la differenza nella produttività tra gli Stati Uniti e l’Europa è molto ampia. Quindi noi dovremo agire. E gran parte delle indicazioni del Rapporto sono su questo tema.

Con buona pace dell’economia di mercato, i principali pilastri della quale sono la libera iniziativa e, perciò, la concorrenza, un piccolo numero di giganti dell’High Tech americana, che hanno come soli concorrenti le imprese del capitalismo a trazione governativa cinese, guida la produttività mondiale e, già che c’è, mette direttamente le mani in pasta nella nuova Amministrazione Usa.

Il malinconico contrappunto a questo stato delle cose potrebbe essere indicato in quanto fotografato, per quel che riguarda il tessuto produttivo italiano, dall’ufficio studi della Cgia di Mestre in un rapporto sulla condizione del credito delle imprese italiane. Imprese, per lo più, piccole e micro. Quella vantata tradizione italiana della piccola imprenditoria che, nella globalizzazione, respira sempre più faticosamente.
In poche parole «sono quasi 118mila le imprese italiane – spiega il Rapporto – che si trovano a rischio usura».
«Si tratta – prosegue la Cgia – prevalentemente di artigiani, esercenti, commercianti o piccoli imprenditori che sono “scivolati” nell’area dell’insolvenza e, conseguentemente, sono stati segnalati dagli intermediari finanziari alla Centrale dei rischi della Banca d’Italia. Di fatto, questa “schedatura” preclude a queste attività di accedere a un nuovo prestito». Con la conseguenza che «chi finisce nella black list della Centrale dei rischi difficilmente può beneficiare di alcun aiuto economico dal sistema bancario, rischiando, molto più degli altri, di chiudere o, peggio ancora, di scivolare tra le braccia degli usurai».

Ora, esistono, sì, dei Fondi di solidarietà che hanno il compito di sottrarre le imprese alla spirale dell’usura. Ma si tratta di misure più che insufficienti, di fronte a problemi indubitabilmente strutturali. In un sistema produttivo provato dalla crisi industriale dell’intera Unione Europea – crisi che comincia ad aggredire, ormai, anche il terziario – e che si deve guardare dallo strapotere dei concorrenti globali, le misure proposte da Mario Draghi, accolte dallo scetticismo di molti, non sono un attacco di “benaltrismo”. Piuttosto, sono quel che si potrebbe definire il minimo sindacale per dare un futuro al nostro sistema economico.

 

Il fermaglio di Cesare Damiano. L’autore: sindacalista, già ministro del Lavoro, è presidente di Lavoro e Welfare

Il senso della Federazione laburista: la politica o è centrata sul lavoro o non è

Qual è l’attualità della Federazione laburista? A distanza di trent’anni dal congresso costitutivo (4-6 novembre 1994) della forza politica – presidente Valdo Spini -, oggi, 18 novembre, si tiene un incontro a Firenze (ore 16 presso lo Spazio Rosselli, via degli Alfani 101 rosso). Partecipano Fabio Martini inviato de La Stampa, Anna Salfi già sindacalista e presidente della Fondazione Altobelli, Roberto Speranza deputato ed ex ministro, Francescomaria Tedesco associato di filosofia politica all’Università di Camerino, Pierluigi Regoli già segretario dei giovani laburisti. Presiede Valdo Spini. Durante l’incontro verrà presentato il sito che raccoglierà i documenti della Federazione laburista, partito attivo fino al 1998. I documenti della direzione centrale della Federazione Laburista sono conservati nell’archivio storico della Camera dei Deputati che ne sta predisponendo un riordino in vista di una pubblicazione del relativo regesto.
Ecco alcuni brani della presentazione di Valdo Spini.

Trent’anni fa, dal 4 al 6 novembre 1994 si svolgeva al Palazzo dei congressi di Firenze l’Assemblea costituente della Federazione Laburista. Una struttura agile, di tipo federativo che riuniva varie componenti come Rinascita Socialista di Enzo Mattina.
La Costituente Laburista intendeva rispondere alla crisi, ormai manifesta, del Psi. Nelle elezioni politiche generali del 27 marzo 1994, nella quota proporzionale, il Psi aveva ricevuto il 2,19% dei voti e nelle successive elezioni europee del 12 giugno, era addirittura sceso all’1,83%.
Era necessario quindi quello che chiamammo un nuovo inizio. Un fresh start come mi disse, incoraggiandomi, uno dei leaders laburisti Robin Cook, quel ministro che poi si dimise in dissenso con Blair sull’intervento in Iraq.
Era un periodo di intensa modificazione del panorama delle forze politiche. Al congresso di Rimini del 1991 il Pci aveva completato la sua trasformazione in Pds, assunto come simbolo la quercia alla cui base era stato collocato il vecchio simbolo del Pci con la falce e martello, mentre la Dc, di cui Mino Martinazzoli aveva assunto la segreteria, si trasformava in Partito popolare italiano (l’antico nome di don Luigi Sturzo) proprio prima delle elezioni, nel gennaio 1994.
Pensammo allora, già nel luglio di quell’anno 1994, con molti compagni e compagne, che anche il Psi, il partito più in difficoltà tra quelli tradizionali, avrebbe dovuto essere capace di un vero cambiamento, scegliendo un nuovo nome, che appartenesse alla tradizione socialista europea, ma che segnasse una visibile discontinuità con quella italiana. Ci sembrava appropriato il nome laburista, il partito protagonista storicamente di quella che Piero Calamandrei aveva chiamato la rivoluzione socialista in Gran Bretagna (1945-1951), la più alta e concreta realizzazione del Socialismo liberale teorizzato da Rosselli. Del Labour party aveva appena assunto nel precedente luglio la leadership il giovane Tony Blair, che doveva riportarlo alla vittoria nelle elezioni politiche del 1997 in Gran Bretagna.
In Italia, nelle elezioni politiche del marzo aveva vinto Berlusconi alla guida del Polo delle libertà che nell’uninominale della quota maggioritaria aveva raggruppato Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega Nord, e battuto i Progressisti di Occhetto e il Patto per l’Italia di Martinazzoli-Segni, presentatisi separatamente. Ci sembrava che un’unità delle forze di centro-sinistra potesse partire proprio dai tre sindacati Cgil, Cisl, Uil. Riservammo una tavola rotonda della Costituente proprio alle tre centrali sindacali. La Cgil venne rappresentata da Guglielmo Epifani.
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In una situazione di disorientamento provocato dalla vittoria di Berlusconi e dalla sconfitta delle forze di centro e della sinistra, da un lato noi ci proponevamo un’azione di recupero di quell’elettorato socialista che di fatto non si era sentito rappresentato nelle elezioni politiche del 1984. Dall’altro, in un contesto così radicalmente nuovo, intendevamo esercitare una funzione di stimolo verso la sinistra democratica e in particolare verso il Pds perché facesse sul serio e fino in fondo la scelta della costruzione di un grande partito socialdemocratico o laburista come quelli che si stavano avviando a governare gran parte dell’Europa nella seconda metà degli anni Novanta. Partiti ad un tempo riformisti e radicati sul territorio.
Si ricorderà che nel dicembre 1992, all’Aja era stato costituito il Pse, Partito del socialismo europeo, di cui sia il Psi di Bettino Craxi che il Pds di Achille Occhetto erano stati cofondatori.
Non era quindi né pensabile né possibile ripercorrere all’indietro la strada elettorale del Psi, ma volevamo comunque costituire un punto di aggregazione che non disperdesse la tradizione socialista italiana pur nel contesto di un panorama politico nuovo. Era una condizione indispensabile perché un grande partito del socialismo europeo in Italia non nascesse solo come trasformazione del vecchio Pci. Ecco perché nell’anno successivo, 1995 presentammo dove potemmo liste laburiste ed eleggemmo in particolare in Toscana e in Basilicata, sia consiglieri regionali che comunali. In Puglia eleggemmo un nostro consigliere con una lista Laburisti-repubblicani-socialdemocratici. Ottenemmo un buon risultato anche in Umbria, ma non tale da conseguire un seggio.
Nelle elezioni politiche del 1996, che videro la vittoria dell’Ulivo di Romano Prodi, potemmo rieleggere od eleggere più di una decina di deputati e di senatori nei collegi uninominali, grazie ad un accordo con il Pds di cui era nel frattempo diventato segretario Massimo D’Alema.
La strada per la costruzione di un grande partito del socialismo europeo in Italia sembrava tracciata e nel febbraio del 1998 furono indetti a Firenze agli Stati generali della sinistra, che dettero vita ai Ds, togliendo dalla base della Quercia il simbolo del Pci e sostituendolo con quello del Pse, partito del socialismo europeo. La Federazione Laburista, che nel frattempo si fu tra i cofondatori firmatari della costituzione del nuovo partito, con Pds, Cristiano sociali, repubblicani di sinistra, comunisti unitari. Nella partecipazione agli Stati Generali ci eravamo federati con altre associazioni politiche della nostra area, tra cui quella di Giorgio Ruffolo.
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Nel gennaio 2000 i Ds celebrarono il loro primo congresso nazionale a Torino. Segretario era diventato Walter Veltroni dopo che Massimo D’Alema aveva lasciato il partito per assumere la presidenza del Consiglio. Largo spazio venne dedicato nel dibattito congressuale anche al riferimento ai Rosselli e al socialismo liberale, simboleggiato dal saluto che al congresso portò Alberto Rosselli, purtroppo recentemente mancato. Seguirono atti simbolici ma significativi, come l’intitolazione della sezione di Figline di Prato ai fratelli Rosselli, con una manifestazione cui parteciparono lo stesso Veltroni e chi vi parla nel frattempo eletto presidente della Direzione. Ma nel 2001 arrivò la sconfitta elettorale del centro-sinistra guidato da Francesco Rutelli, per effetto del ritorno della Lega Nord all’alleanza con Berlusconi. Walter Veltroni si candidò e fu eletto sindaco di Roma e lasciò la segreteria del partito. Cominciò nei Ds quel processo che doveva portare al Partito democratico, ma con modalità che di fatto ci escludevano.
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Oggi quale attualità riveste il nome laburista? Certo tutti noi guardiamo con speranza e partecipazione all’azione del nuovo governo laburista britannico di Keir Starmer, la cui vittoria ha rappresentato uno dei pochi momenti in controtendenza nel socialismo europeo, anche se purtroppo in una nazione fuori dall’Unione per effetto della Brexit.
Ma l’elemento significativo è un altro, è l’ancoraggio al lavoro. Il termine laburista ricorda che in quest’epoca di sconvolgimenti politici e sociali, c’è un ancoraggio solido che deve caratterizzarci, quello al lavoro, al suo sviluppo, alla sua tutela, in tutte le sue forme di lavoro dipendente e autonomo, per affermare una reale parità di genere, per restituire la sua attrattività in patria per i giovani italiani che vedono migliori prospettive all’estero.
Le delocalizzazioni e la concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro ci hanno fatto passare l’illusione che la globalizzazione portasse di per sé un miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice e dei ceti medi. Oggi la questione dei salari reali nel nostro Paese, dopo il triennio nero 2021-2023 che li ha visti falcidiati dall’inflazione, è centrale sia per il rilancio dei consumi e quindi della domanda interna, che per la stessa coesione sociale del nostro paese.
Una politica centrata sul lavoro non può che essere riformista, un riformismo inteso alla maniera di Giacomo Matteotti, di cui ricordiamo quest’anno il centenario, cioè un riformismo mirato non solo alla propaganda politica ma anche al miglioramento concreto delle condizioni di chi lavora e di chi produce, in un’adesione alla loro problematica.
Se quindi le azioni che ci proponiamo intendono essere un contributo magari piccolo ma indubbiamente significativo alla ricostruzione storica degli avvenimenti politici italiani, costituiscono anche un richiamo a considerare la centralità della questione del lavoro nella nostra vicenda politica, economica e sociale. In tal modo saremo fedeli e coerenti all’impegno che varie centinaia di militanti dimostrarono venendo a Firenze nel novembre di trent’anni fa alla Costituente laburista.

Nella foto: Cartolina del Gruppo laburista Regione Toscana, Firenze, febbraio 1998

Un grammo di propaganda di Salvini, ogni giorno

I colleghi di Pagella Politica, il sito che smonta le falsità nelle dichiarazioni dei politici, li immagino seduti di fronte al rullo delle agenzie di stampa, sorseggiando un tè caldo con già pronta la bozza del prossimo articolo su Matteo Salvini.

«Un giudice questa settimana non è stato in grado di tenere in carcere un cittadino straniero trovato con 11 chili di cocaina in macchina, a Brescia, per un errore formale di traduzione. Questo tizio è fuori [dal carcere, ndr]». Così tuona il vicepresidente del Consiglio mentre è ospite della trasmissione Agorà su Rai3.

È una storia che sta particolarmente a cuore al leader leghista. Due giorni prima, intervenendo a Otto e mezzo su La7, aveva sbandierato un articolo de Il Giornale dal titolo: “Brescia: “Non capisce l’italiano”. E il giudice libera il pusher albanese trovato con 11 chili di cocaina in macchina”. Per Salvini, la vicenda dimostrerebbe la volontà dei giudici italiani di piegare le leggi e quindi «fare politica». Secondo lui, i giudici sarebbero interessati a «andare contro il governo», liberando presunti spacciatori albanesi.

Peccato che l’articolo dica tutt’altro. Al suo interno si legge che un cittadino albanese è stato sottoposto all’interrogatorio di garanzia avvalendosi di un interprete pescato tra i detenuti, e non di un professionista come sancisce la legge. Inoltre, l’ordinanza non era stata tradotta correttamente.

Il ricorso è stato accolto, ma il presunto spacciatore non è stato scarcerato. È stata semplicemente disposta una nuova ordinanza, questa volta tradotta come previsto dalla normativa.

«Se un giudice – insiste Salvini – non riesce a tenere in carcere un tizio con 11 chili di cocaina in macchina, è colpa di Salvini o di quel giudice che non riesce a fare il suo mestiere?».

La risposta è chiara: è colpa di Salvini.

Buon lunedì.

Extreme Tension a Berlino. Arte tra politica e società

La mostra, in corso alla Neue Nationalgalerie di Berlino fino a settembre del prossimo anno espone opere provenienti in gran parte dall’archivio della Galleria, ripercorre un periodo molto lungo e comprende anche opere e artisti della Ddr (Repubblica democratica tedesca), che dopo la riunificazione sono state acquisite dal museo. Ma l’attenzione dei curatori è focalizzata in particolare sul periodo che va dal 1961, anno in cui a Berlino viene eretto il celebre Muro, ai primi anni 70, in cui lo statuto dell’arte venne definitivamente sovvertito. In questi anni l’arte divenne un terreno di confronto/scontro ideologico che divise in due la città, nella quale anche gli artisti dovevano confrontarsi (o conformarsi) con due opposti orientamenti: il realismo a est e l’arte astratta a ovest. La radicale contrapposizione tra queste due tendenze tuttavia generò una forte tensione (a cui fa riferimento il titolo della mostra Extreme tension) che gli artisti hanno spesso “rappresentato” nelle loro opere. La stessa inaugurazione della Neue Nationalgalerie in quella che allora era Berlino ovest, nel 1968, fu parte di questa vicenda, che i curatori hanno raccontato attraverso un’accurata selezione delle opere del suo enorme magazzino, arricchito per l’occasione da nuove acquisizioni dalla Polonia (da cui provengono Marta Smolińska e Magdalena Abakanowicz, due delle curatrici della mostra in questione).
Il punto più interessante di questa mostra è la rilettura critica della scena artistica berlinese, che in quegli anni fu un “punto caldo” nel panorama dell’arte mondiale. Mentre il legame con la politica è più evidente e visibile nelle opere degli artisti della Repubblica Democratica Tedesca, dove i dettami del “realismo socialista” furono vigenti fino agli ultimi anni della sua esistenza, nella Berlino ovest il “gioco” fu molto più sofisticato e complesso. La scelta di puntare con decisione sull’arte astratta, seguendo i modelli statunitensi dell’espressionismo astratto di Pollock e di Rothko (anche grazie al supporto della Cia, come raccontano i curatori della mostra) si rivelò anche un ottimo espediente per “rimuovere” gli orrori del recente passato nazista. Solo di recente si è scoperto che Werner Haftmann, primo direttore della Neue Nationalgalerie, della quale fu a capo fino al 1974, nonché direttore artistico delle prime tre edizioni di Documenta (1955, 1959, 1964) a Kassel (una delle principali manifestazioni dell’arte contemporanea a livello mondiale che fin dai primi anni promosse l’arte astratta), in gioventù aveva aderito al partito Nazionalsocialista ed era stato membro delle SA (tra l’altro fu coinvolto nel rastrellamento dei partigiani durante l’occupazione tedesca dell’Italia nel 1944).

Se guardiamo alla pop-art nell’ambito di questo scontro politico-culturale, la sua intrinseca “ambiguità” e “ambivalenza” appare subito evidente (celebrazione o critica della società dei consumi?). Tra l’altro nella mostra sono esposte alcune grandi tele di Willi Sitte, un artista della Ddr che aveva avuto la possibilità di viaggiare all’estero, nelle quali sono visibili ispirazioni e influssi della pop-art americana.
Se in relazione ai linguaggi e alle rappresentazioni artistiche il Muro fu “permeabile”, alle istanze dei movimenti femminista e ambientalista, e più in generale al mondo della controcultura del ‘68, offrì una barriera invalicabile (la repressione della Primavera di Praga fu la risposta a quelle istanze da parte del “socialismo reale”). Tra questi, quello che effettivamente lasciò un segno nella società più duraturo e profondo, fu il movimento femminista. La performance di Joko Ono del 1964 Cut Piece fu pioniera in questo genere di espressione artistica. Potremo citare Spia ottica, la performance di Giosetta Fioroni alla romana Galleria ​La Tartaruga di Plinio de Martiis nel 1968, nella quale gli spettatori erano invitati a guardare da uno spioncino posto su una parete una camera da letto nella quale una donna svolgeva normali azioni quotidiane. Nel 1973 l’artista visuale nordamericana Carolee Schneemann (1939-2019) realizza Up to and Including Her Limits, una performance nella quale l’artista, nuda, legata a una fune, disegnava su un grosso foglio che copriva una parete e il pavimento. Partendo dalle pratiche dell’action painting di Jackson Pollock, la performer vi aveva aggiunto un elemento nuovo: la presenza del corpo femminile, che si fa strumento attivo nell’atto della creazione artistica. Nel 1976, In Freeing the body, Marina Abramovic danza nuda, con la testa coperta da un velo nero, per circa sei ore accompagnata da un persussionista fino allo sfinimento. La performance, che si svolse per la prima volta alla Künstlerhaus Bethanien a Berlino, terminava con il corpo esausto dell’artista riverso sul pavimento. Già nel titolo era messa in evidenza l’intenzione dell’artista serba: porre l’attenzione sulla mercificazione del corpo femminile e, allo stesso tempo, promuovere una “riappropriazione” del medesimo attraverso l’elemento dionisiaco.
Malgrado il controllo della censura, anche in alcuni paesi del Patto di Varsavia vi furono artiste che tentarono di dare voce e forma alle istanze del movimento femminista, come la polacca Ewa Partum, che nel 1980 realizzò la performance Women, Marriage Is Against You! a Poznań, nella quale appariva in un abito da sposa, avvolta in un foglio trasparente con l’etichetta “For Men”, che poi, al suono della marcia nuziale, tagliava con le forbici fino a rimanere nuda. Nella mostra in questione vi sono alcuni suoi fotomontaggi, acquisiti di recente dalla Neue Nationalgalerie, realizzati nel 1980, nei quali appare nuda tra i passanti in scene di vita quotidiana di Varsavia.

Accanto a questo filone legato ai “movimenti di protesta”, in parallelo, si sviluppò una “linea realista”, nella quale le nuove istanze dell’arte trovarono una differente risposta. Nelle sue tele dalle grandi dimensioni, Konrad Klapheck, un artista di Düsseldorf scomparso nel 2023, ritrae oggetti di uso quotidiano, come macchine da scrivere o da cucire, ingiganti e deformati, come per mettere in luce un “mistero delle cose”, l’assurdo nascosto nelle pieghe della quotidianità. Il suo stile, a metà strada tra surrealismo, dadaismo e pop art, ha influenzato artisti come Wolf Vostell, tra i protagonisti del movimento Fluxus, di cui fu co-fondatore nel 1962, pioniere della video-arte, il quale realizzò alcune sculture unendo pezzi di automobili, televisori e blocchi di cemento. Questo filone “realista” trovò una qualche corrispondenza anche tra alcuni pittori della Ddr, come Volker Stelzmann e Ulrich Hachulla, che nelle loro “nature morte” riuscirono a trovare una “via di fuga” dalla retorica del realismo socialista. Altri artisti, come Uwe Pfeifer, non mancarono di ritrarre nei loro quadri il grigiore della vita quotidiana nella Repubblica democratica tedesca (nel suo End of the work day del 1977 è rappresentata una fila di passanti in un sottopassaggio infagottati con cappotti grigi, viola e verdi che passano accanto a un cestino pieno di cartacce). Vi furono anche alcuni coraggiosi, come Hans Ticha, che nei loro quadri rappresentarono il regime di repressione militaresco nella Ddr (in German ballet del 1984 compaiono le sagome stilizzate di tre soldati che marciano).
Malgrado la vastità di temi e la quantità di opere esposte, la mostra  Extreme tension riesce a mettere a fuoco le dinamiche di un periodo cruciale nella storia dell’arte contemporanea nel quale ogni barriera, ogni limite vengono infranti, ma dal quale ci stiamo gradualmente allontanando. La distanza che ci separa dal periodo in questione ci permette di ri-leggerlo in modo critico, mettendolo in relazione con le grandi trasformazioni politiche e sociali di quegli anni e del recente passato. Ma si tratta di un lavoro che è appena cominciato, anche perché sono ancora molte le domande che ancora attendono una risposta.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e. docente universitario. Il suo nuovo testo teatrale “La caduta di Gomerosol” con la premessa di Marco Belocchi

Musk e l’immigrazione: portiamoli su Marte!

Lo scorso 5 novembre il mondo ha fatto un’altra piroetta con la rielezione di Donald Trump a presidente degli Usa, ottenuta puntando su due problemi: l’inflazione e l’immigrazione.
Se l’inflazione in Europa è stata meglio contrastata che in America, l’immigrazione è un problema comune, seppure di dimensioni diverse sulle due sponde dell’Atlantico: negli Usa gli immigrati sono milioni ogni anno; in Europa alcune decine di migliaia. Ma le soluzioni proposte dalle destre sono le stesse di là e di qua: se prima erano i muri e i blocchi navali, oggi sono la deportazione.

“Faremo una deportazione mai vista nella storia!”, ha promesso Trump agli Usa. “Li porterò tutti in Albania per rispedirli a casa loro!” ha giurato in Italia Giorgia Meloni.
Sennonché, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, quello Adriatico in Italia e, negli Usa, quello dei costi proibitivi. Sarà quindi una conferma che le soluzioni populiste convincono le anime semplici ma non risolvono un problema di portata antropologica.

Per dire: la nostra bisnonna Lucy, vissuta in Etiopia oltre tre milioni di anni fa, ebbe dei discendenti che, circa 1,7 milioni di anni fa arrivarono in Georgia e da lì si spostarono ancora migrando sia in Asia che in Europa. E qui, circa un milione di anni fa, troviamo a Ceprano, vicino Roma, un pro-pro-pro nipote di Lucy con un cervello di ormai più di mille cm cubici.

La deportazione di Trump finirà con l’innestare un movimento circolatorio di espulsioni e reimmigrazioni. Una sorta di moto perpetuo che già si manifesta tra Italia e Albania.
In Albania sono stati creati dei centri dove dovrebbero essere trasportati i naufraghi raccolti nel Mediterraneo dalla nostra Marina militare sul presupposto di poterli rimpatriare in quanto provenienti da “Paesi sicuri”. Si è dimenticato che la definizione di “Paesi sicuri” è già stata oggetto di pronunce in sede comunitaria e che le decisioni comunitarie si impongono sulla giurisdizione italiana perché il nostro giudice “deve” disapplicare la norma nazionale se non è allineata alla fonte sovraordinata europea.

La primazia europea su tutte le disposizioni nazionali dei Paesi Ue affonda le sue radici nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in particolare la sentenza Costa del 1964 e quella Simmenthal del 1978. Alla giurisprudenza, si affianca l’art. 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) che stabilisce il ruolo della Corte di giustizia nel garantire il rispetto del diritto dell’Unione. E più avanti anche l’art. 288 del Tfue ribadisce che i regolamenti, le direttive e le decisioni adottati a livello europeo sono vincolanti per gli Stati membri.

L’approssimazione con la quale l’operazione albanese è stata organizzata dalla destra italiana, trascurando aspetti ben noti agli studenti del secondo anno di legge, avrebbe dovuto indurre a desistere già dopo il primo viaggio andato male e, invece, si è insistito adottando un provvedimento normativo che pretende di dichiarare sicuri Paesi stranieri in base alla diffusione del sostegno popolare al governo, trascurando la definizione europeistica che si fonda sulla tutela di tutte le minoranze e la sicurezza in tutte le zone territoriali.

Tacciando la magistratura di fare politica con l’opposizione, la destra domestica mette in discussione quel fondamentale presupposto della democrazia liberale che è la separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – esaltata dal Montesquieu nella sua opera Lo spirito delle leggi del 1748.
La riprova di cosa possa accadere superando i principi fissati dal Montesquieu, l’abbiamo in Ungheria dove la magistratura è stata assoggettata al potere politico con un effetto illiberale che è continuamente oggetto di critica nelle istituzioni europee.Ma è curioso che anche negli Usa, tanto osannati per la loro democrazia liberale, la magistratura sia assoggettata al potere esecutivo, sicché abbiamo potuto assistere alle esuberanze di Elon Musk che, informato degli eventi italo-albanesi, dal suo social “X” ha tuonato: “Quei giudici se ne devono andare”. Si è così innescato un corto circuito istituzionale di livello internazionale che di Elon Musk ha messo in luce le deficienze diplomatiche, l’insensibilità ai fondamenti storici dello Stato di diritto e una pericolosa tendenza all’esercizio del potere. In tal modo egli ha perfettamente integrato il modello definito da Montesquieu quasi trecento anni fa quando scriveva: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]” e lo stesso Autore così ammoniva sul rimedio contro quelle tendenze: “Perché non si possa abusare del potere, occorre che […] il potere arresti il potere”.
Alla fin fine, tuttavia, queste diatribe non superano il problema dell’immigrazione che esiste e non può essere ignorato sol perché le Destre di qua e di là dell’Atlantico non sono in grado di risolverlo.
La migrazione è un fenomeno che deve essere analizzato nelle sue attuali declinazioni per poter essere arginato osservando che, da una parte, occorre agire sui luoghi di provenienza dei migranti e, dall’altro, sull’accoglienza che non deve lasciare nessuno a bighellonare in gruppi a volte assai numerosi intorno alle stazioni delle nostre città intimidendo la popolazione, quando non aggredendola per bisogno, non escluso quello sessuale.

L’errore diagnostico delle destre è quello di voler affrontare il fenomeno migratorio dagli effetti che produce nelle loro rispettive patrie e non dalle cause. Un po’ come voler arginare un getto d’acqua senza chiudere il rubinetto e la questione è particolarmente complessa perché il rubinetto non è nel tuo lavabo, ma in quello dei Paesi poveri vicini a quelli ricchi, vuoi economicamente vuoi, quanto meno, di maggiore tranquillità.
Non occupandoci qui dell’accoglienza, che è un problema interno ad ogni nazione e di soluzione più facile, magari imparando da chi la fa meglio, è fondamentale l’azione nei luoghi da cui le migrazioni hanno origine e, in questo senso, i propositi del Piano Mattei adottato dall’Italia nel 2021, presentano prospettive interessanti e utili anche per gli USA.
In breve, il Piano Mattei è una strategia ambiziosa che mira a rilanciare i legami tra l’Italia e l’Africa, focalizzandosi su cooperazione economica, sostenibilità energetica e sviluppo delle infrastrutture in linea con le sfide globali del XXI secolo. In teoria va tutto bene, ma benché si rivolga a qualche Paese africano coinvolto nelle migrazioni come la Libia, l’Egitto e la Nigeria, il Piano prevede anche interventi in Paesi meno esposti come l’Etiopia, il Ghana, l’Angola, il Kenya, il Mozambico e il Sudafrica sicché esso appare più votato agli aspetti economici e geopolitici che alla soluzione del problema migratorio determinando una forte dispersione di energie. Era meglio destinare quanto speso per i centri in Albania, per esempio, nel Senegal, nel Marocco o nella Somalia.

Forse la più efficace soluzione la sta organizzando Musk per permettere a Trump di mantenere la promessa elettorale quando dice di voler accelerare la corsa su Marte. Se gli riesce, farà colonizzare il pianeta rosso dagli immigrati ispanici un po’ come l’Inghilterra, nel 1786, fece colonizzare l’Australia dai sui condannati istituendo la colonia penale di Botany Bay.
Viene così in mente quella strip del Mago di Oz di tanti anni fa, quando il fido scudiero riferiva al Re, dapprima, che i coccodrilli del fossato del castello avevano fame e, poi, che con la siccità incombente il popolo aveva sete. E il Re: “Comincio a vedere una soluzione”.

 

L’autrice: Shukri Said è presidente della associazione Migrare, su Radio Radicale conduce la trasmissione Africa Oggi

La foto è la copertina di Der Spiegel, qui per leggere il numero

Il Global South sbarca in laguna con la Biennale arte (aperta fino al 24 novembre)

Aravani art project

Viva il meticciato, viva l’arte che nasce e cresce nel rapporto fecondo fra identità e culture diverse; viva la creatività nomade di artisti che si sentono cittadini del mondo, benché siano Stranieri ovunque, come recita il titolo di questa sessantesima Biennale d’arte di Venezia, che si presenta come una grande festa collettiva di talenti provenienti soprattutto dal cosiddetto Global South, dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia.

La mostra, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa (il primo proveniente dall’America Latina nella lunga storia della Biennale) inonda i Giardini e l’Arsenale con un tripudio giocoso e colorato di pitture, e sculture (potentissimi e rinnovati mezzi espressivi qui), installazioni e video che ci parlano di un mondo senza confini, dell’infinita varietà e creatività umana, arma essenziale per opporsi alla discriminazione, alla violenza visibile e invisibile, al colonialismo.

Prima ancora di avere il piacere di visitare questa mostra (aperta fino al 24 novembre 2024) la storia di Pedrosa ci aveva già lasciato intuire molto: collaboratore della Biennale di San Paolo, ha curato la collezione del Museu de arte de São Paulo, disegnato dall’architetta italiana Lina Bo Bardi (vedi Left del 9 aprile 2021), tracciando Historias, contro storie per immagini non più solo a misura di uomini bianchi e occidentali. Già lì si trovavano i semi di questa collettiva, concepita prima del nuovo corso politico meloniano e su cui Pierangelo Buttafuoco, da neo presidente della Biennale di Venezia nel catalogo ha provato a mettere il cappello evocando sotto testi religiosi di cui francamente non abbiamo trovato molte tracce in mostra, eccezion fatta per il padiglione del Vaticano.

Anzi, nel contesto attuale il messaggio radicalmente aperto, laico, panteista di Stranieri ovunque appare più dirompente che mai nel suo senso anche politico.  In rotta di collisione con le ideologie di vecchie e nuove destre confessionali e ultra capitaliste (che in America Latina hanno i volti di Bolsonaro e Milei) Adriano Pedrosa da subito prende posizione lasciando parlare la grande pittura murale colorata, che spicca sulla facciata del padiglione centrale ai Giardini, realizzata dal collettivo indigeno dell’Amazzonia Mahku, nato nel 2013 nell’ambito di workshop universitari nella regione dell’Acre in Brasile, vicino al confine del Perù.

il curatore Adriano Pedrosa

Il dipinto reinventa il mito indigeno dell’attraversamento del mare in groppa ad alligatori, affrescando un’origine culturale india a cavallo di più contesti. Evoca la grande apertura di orizzonte propria della cultura degli Indios che è stata crudelmente soffocata in recinti. «Fra tutti gli stranieri gli indios lo sono più di tutti, perché gli indigeni sono spesso trattati come stranieri nelle proprie terre», ha detto il curatore intervistato su Repubblica da Massimiliano Gioni, (già curatore nel 2013 della Biennale dal titolo Palazzo Enciclopedico e molto sintonica con questa, nello squadernare un universo modernamente tribale). Quella di Mahku non resta una voce isolata, assonanze si trovano con accenti diversi nell’opera di Jeffrey Gibson, il primo artista cheeroke a rappresentare gli Stati Uniti e in quella dell’aborigeno Archie Moore (Australia, Leone d’oro) e del groenlandese Inuuteq Storch (Danimarca). Mentre l’altro Leone d’oro va al collettivo femminile maori Mataaho (Nuova Zelanda). E non è che l’inizio.

Con oltre 300 artisti la mostra di Pedrosa declina, in ogni forma ed espressione, narrazioni di esseri umani e artisti che troppo spesso scompaiono sotto le etichette di migranti, rifugiati, apolidi, forestieri, outsider, stranieri. L’obiettivo non è tanto e solo ridare loro un volto e una voce, quanto dare spazio alla loro creatività, costruire nuove narrazioni plurali e complesse, capaci di contrastare l’oppressione di un mainstream piatto e omologante. Il risultato è una travolgente sinfonia di forme e colori, che porta alla ribalta artisti ostracizzati nella propria terra o che in terre lontane dal proprio luogo di origine hanno trovato nuovi contesti umani e sociali per potersi realizzare, come gli artisti italiani della diaspora a cui è dedicata una tappa della mostra: qui scorgiamo, fra altro, un affascinante bozzetto dell’artista emigrato negli Usa Costantino Nivola ispirato alle figurine preistoriche sarde ma anche la celebre foto in bianco e nero Falce, pannocchia e cartucciera (1928) di Tina Modotti rivoluzionaria, migrante ed esule al tempo stesso, che comparve nella sua unica personale in vita e che il muralista Siqueiros definì «la prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico».

Tina Modotti, Falce pannocchia e cartuccera

Particolarmente ricco e interessante è quest’anno anche il panorama offerto dai vari padiglioni nazionali, molti dei quali invitano a una profonda riflessione critica sul presente. A cominciare dal Padiglione di Israele che è rimasto chiuso e lo rimarrà fino al cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi per volontà dell’artista Ruth Patir e delle curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit.

La Palestina, senza Padiglione, ha trovato spazio sulla Freedom boat che ha attraversato il Canal grande. E questo la dice lunga su quale feroce contraddizione porti con sé la tradizionale organizzazione del percorso espositivo scandito da padiglioni nazionali. Va detto anche che gran parte dei padiglioni nazionali sono artisticamente attraversati da una riflessione anti nazionalista, a cominciare da quello del Cile affidato all’artista Valeria Montti Colque, nata a Stoccolma nel 1978 dopo che i suoi genitori erano stati perseguitati dalla dittatura cilena di Pinochet.

Il rifiuto della guerra è un tema molto presente nell’immaginario di questa Biennale così come il rifiuto dell’apartheid, in tutte le sue forme manifeste o meno. Di questo, fra molti altri, ci parlano le isole di paesaggio costruite dal progetto Madeyoulook, Quiet ground, ispirato all’opera di Njabulo Ndebele e alle sue pratiche artistiche anti-apartheid. Colpisce come in controtendenza a muri spinati e decreti di espulsione, fioriscano qui immagini che “fanno casa” con tende nomadi di stoffa sotto forma di arazzo, ricamo, stampa manuale, in ogni forma, sfidando la fragilità del mondo contemporaneo, segnato dal climate change, da conflitti e disuguaglianze sociali.

Pavilion of Benin in Biennale Arte 2024, Everything is precious is fragile Venice
@Jacopo La Forgia

Catalizza lo sguardo la bellezza e l’incisività della rappresentazione che incontriamo nel Padiglione del Benin, new entry in questa Biennale, curiosamente nello stesso anno in cui l’Orso d’oro di Berlino è andato al documentario di Mati Diop, Dahomey sulle opere d’arte del Paese africano, vittima della furia colonialista francese e recentemente restituite (vedi Left 4 aprile 2024). Al centro della scena del Padiglione del Benin campeggia una tenda circolare, tutt’intorno in gigantografia immagini vitali di donne dal copricapo che ha il colore del mare. Gli artisti e le artiste Hazoumè, Quenum, Akpo e Bello ne rappresentano la forza calma e sensibile. Da segnalare anche l’attenzione ai temi ambientali poeticamente e drammaticamente declinato, fra gli altri, nel padiglione di Singapore e in quello cinese, che dopo anni di pittura iper realista e ultra pop ci regala l’emozione di una affascinante ricreazione dell’antica pittura di paesaggio e calligrafica, declinata con i nuovi strumenti dell’arte digitale e della videoarte, parlando di una nuova auspicata armonia fra esseri umani e ambiente.

In apertura: Aravani Art Project, Diaspore, 2024, Mural painting La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque; courtesy Biennale di Venezia

Questa recensione è uscita sulla rivista Left uscita in edicola il 3 giugno 2024