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“Saperi liberi”, gli studenti in sciopero bocciano il modello-Valditara di scuola

Oggi, 15 novembre, in tutta Italia (oltre 30 città) sono scesi in piazza studenti e studentesse della scuola e dell’università. Lo sciopero ha visto la partecipazione di associazioni e sindacati studenteschi: Unione degli studenti (Uds), Rete degli studenti medi, Link coordinamento universitario, Rete della conoscenza. Questo è il documento di Uds in cui si spiegano le ragioni della mobilitazione.

Siamo in una fase storica e politica critica per la popolazione tutta, e nello specifico per quella studentesca. Le riforme e le proposte del ministro Valditara vanno nella direzione di una scuola estremamente performativa, in cui lo studente in quanto tale diminuisce sempre più di importanza, per lasciare spazio al voto, e alle sue future capacità lavorative. Il 15 novembre, come Unione Degli Studenti, abbiamo lanciato uno sciopero studentesco nazionale, per esprimere il nostro dissenso verso le politiche di questo governo. Come studenti pensiamo che in questa fase politica la mobilitazione sia la via necessaria per riuscire a far sentire la nostra voce, vista la disintermediazione e la repressione esercitate da parte delle istituzioni governative. Da oltre 30 anni rappresentiamo il sindacato studentesco a difesa dei diritti degli studenti. Pensiamo che sia necessario una forma di organizzazione fra gli studenti che riesca a tutelare i nostri diritti e a costruire partecipazione. L’azione che portiamo avanti all’interno delle scuole permette di avere strumenti vertenziali a servizio del corpo studentesco, su cui costruire coscienza dei propri diritti e mobilitazione per difenderli. Di fronte una narrazione generale che descrive i giovani come incapaci di interessarsi alla politica, intendiamo offrire un’alternativa fatta di vertenzialità, rappresentanza e mobilitazione. Tutto questo nel corso della nostra storia lo abbiamo fatto in maniera indipendente, seguendo l’idea del sindacato fatto dagli studenti per gli studenti. Nel corso della nostra storia sono state numerose le mobilitazioni che abbiamo avviato e a cui abbiamo partecipato, soprattutto negli ultimi due anni di fronte ad uno dei governi più reazionari nella storia repubblicana del Paese. Il governo Meloni sta mantenendo fede alle promesse preoccupanti annunciate durante la campagna elettorale, a partire dalla questione dell’autonomia differenziata e da quella imminente del premierato. La prima va a toccare profondamente il nostro sistema d’istruzione e in generale la qualità dei servizi pubblici, istituzionalizzando le disuguaglianze sociali ed economiche ingiustamente create nel nostro Paese.

Le stesse politiche verso la scuola portate avanti da Valditara annunciano uno scenario quanto mai preoccupante, a partire dalla riforma degli Its, che esplicita la volontà di rafforzare un rapporto scuola-lavoro sempre più subordinato al mondo delle aziende e che ha prodotto persino tre morti negli ultimi anni. Valditara intende agire però anche sul fronte della didattica e della valutazione tramite la riforma della condotta recentemente approvata, che va ad imprimere una cultura autoritaria e del rispetto fra gli studenti. Negli ultimi mesi di fronte all’approvazione di riforme come queste abbiamo manifestato il nostro dissenso e ci siamo attivati contro un ministro che rifiuta il confronto con le organizzazioni studentesche. Il Fast (forum delle associazioni studentesche maggiormente rappresentative), da regolamento andrebbe convocato almeno una volta ogni quattro mesi, ma non veniamo convocati da febbraio. Una disintermediazione come questa è perfettamente in linea con le intenzioni del governo di reprimere il dissenso in tutte le sue forme, come visto dall’avvio dell’iter legislativo per l’approvazione del DDL 1660. Di fronte una stretta repressiva e securitaria così forte scendiamo in piazza in primis per difendere la libertà di manifestare, a partire dal 15 novembre. Lo sciopero studentesco nazionale però non intende essere solo un appuntamento di opposizione alle politiche ministeriali e governative, ma anche di proposta. Nelle ultime settimane, infatti, abbiamo costruito tramite assemblee fra gli studenti di tutta Italia un manifesto dal titolo “saperi liberi per studenti liberi”. Intendiamo affermare infatti il ruolo trasformativo che le scuole hanno e di come questo non debba essere piegato alla propaganda governativa, ma piuttosto esercitato come strumento di emancipazione per crescere studenti coscienti e con capacità critica. Le nostre proposte toccano le aree più importanti per quanto riguarda l’istruzione pubblica e si dividono in sei punti principali:

● Liberi dalla subordinazione al mondo del lavoro: vogliamo interrompere il sistema
di sfruttamento e alienazione introdotto dalla Buona Scuola in poi, tramite l’abolizione dei Pcto. in favore dell’istruzione integrata. La nostra proposta mira a permettere un insegnamento al saper fare e in generale al mondo del lavoro, ma in ottica critica e all’interno dei plessi scolastici, senza il coinvolgimento di privati che intendono fare profitto sulle spalle degli studenti.
● Liberi dalla cultura della guerra: vogliamo abolire qualsiasi rapporto fra le scuole e le aziende belligeranti, che continuano ad inserirsi nei programmi didattici tramite i progetti di Pcto. Nel contesto bellico attuale la complicità delle nostre istituzioni con l’escalation bellica muove anche da quanto gli studenti vengono introdotti alla cultura di potenza che ne rappresenta la radice.
● Liberi da dinamiche autoritarie e performative: vogliamo un sistema didattico e valutativo che non si pieghi alla cultura del merito tanto difesa da Valditara, ma che riesca a fungere da reale interesse e partecipazione da parte degli studenti. Di fronte ad una didattica passiva e performativa ne opponiamo una partecipativa e problematizzante.
● Liberi da costi insostenibili: vogliamo la garanzia sostanziale del diritto allo studio nel nostro Paese, al momento inesistente. I costi del materiale scolastico continuano ad innalzarsi così come quelli del trasporto pubblico, senza nessun intervento a sostegno delle famiglie meno abbienti. L’impatto più significativo dell’assenza di fondi inadeguato è reso palese dai dati sulla dispersione scolastica in Italia.
● Liberi dal non poter decidere delle proprie scuole: vogliamo una riforma della rappresentanza studentesca che restituisca decisionalità agli studenti. Pensiamo che le scuole possano fungere da “palestra di democrazia”, solo se gli studenti hanno effettivamente spazi di rappresentanza adeguati per poter concretizzare le loro proposte.
● Liberi dal malessere psicologico e dal patriarcato: il sistema didattico e performativo continua ad opprimere gli studenti e continua a creare situazioni di stress e disagio. Per questo vogliamo una scuola dove sia realmente garantito benessere psicologico e che non sia esclusiva verso nessuna soggettività.

Crediamo che un manifesto come questo, esplicitato in proposte concrete per realizzare gli obiettivi citati, possa rappresentare una proposta radicalmente alternativa di scuola, da opporre a quella del ministro Valditara. Nel momento in cui il ministro e il governo non intendono ascoltare e concretizzare le proposte delle forze sociali, queste vanno ottenute tramite uno sforzo mobilitativo che riesca a raccogliere un’ampia partecipazione.

Foto: Rete della conoscenza, 15 novembre 2024

La Fibromialgia colpisce 3 milioni di italiani, ma non è riconosciuta nei Lea

Di fibromialgia non soffrono solo donne in età adulta, ma anche uomini e bambini. Da tempo Cfu- Italia lo va ripetendo, cercando di fare capire che «siamo di fronte a un’emergenza che rischia di diventare una voragine per il Sistema sanitario nazionale», è il grido della Presidente Barbara Suzzi, e del direttivo. Non riconosciuta ancora nei Lea ( livelli essenziali di assistenza), rischia di “regredire” e “scomparire” dai radar della sanità pubblica con l’ipotesi dell’autonomia differenziata. A soffrirne sono in tanti ma è sui numeri – anzi, sull’assenza di numeri – che si gioca l’ambiguità del riconoscimento definitivo. «Non ci sono censimenti, anagrafi, nulla. Le uniche stime riconosciute sono quelle del 3 per cento della popolazione mondiale. Ma in Italia, siamo almeno 3 milioni. Mancano infatti, oltre ai censimenti territoriali e nazionali, le diagnosi. E, cosa ancor più grave, c’è chi non è conteggiabile perché essendo una malattia fortemente stigmatizzata, molte persone affette non lo dichiarano neppure alle visite del lavoro o nel posto di lavoro».

I tre milioni di persone affette da questa patologia sono dunque per difetto. Ma è sui piccoli che Cfu- Italia, come è stato ribadito nella conferenza stampa che si è tenuta a Montecitorio, per sensibilizzare la politica a fare sintesi dei disegni di legge depositati e fermi in Senato – tra cui uno di Cfu sottoscritto da tutti i partiti – ha deciso di porre l’attenzione. «Noi chiamiamo, la politica promette, presenzia, risponde agli appelli con una benevolenza che non si traduce in azioni. Ma le malattie croniche, come lo è la nostra, sono quelle che faranno scoppiare il Ssn e il fatto che ci siano molti ragazzini a soffrirne deve imporre atti di coscienza e se non di coscienza almeno di lungimiranza». Parole con cui tra l’altro si sdogana la fibromialgia come patologie delle donne, magari depresse, e come malattia di genere.

La storia è quella di Nicholas, 13 anni, del milanese. A dieci anni un giorno comincia a lamentare dolori alle gambe e in tutto il corpo. La mamma Katyuscia e il padre Marco non si preoccupano. Il ragazzino è molto vivace, gioca a calcio, si sarà sforzato troppo, succede. Dopo giorni la situazione non migliora. Nicholas non si lamenta mai, quindi va creduto, tanto più che accenna a una stanchezza e a una spossatezza descritte nei particolari. Nell’arco di poco più di una settimana, una mattina, all’improvviso, non cammina più. Panico. Viene portato al Pronto Soccorso dell’Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi seduto su una carrozzina che i genitori avevano in casa. Gli vengono fatte tutte le analisi e i genitori vengono liquidati come eccessivamente accudenti e viene indicato loro di toglierli il supporto, invitano la madre ‘a stare calma’. Possono però constare coi loro occhi che il ragazzino non riesce a reggersi in piedi, ipotizzano quindi di inviarlo a ortopedia. La madre, per evitare altre umiliazioni, decide di portarlo via. La coppia si dirige al San Raffaele. Stesso iter, stesse spiegazioni, stessi consigli.
Katyuscia ricorda all’improvviso di una collega al cui figlio anni prima era stata diagnosticata la fibromialgia. La contatta, prende appuntamento dal reumatologo cui si era rivolta, il bimbo viene accuratamente visitato, ascoltato, creduto. La diagnosi è chiara, fibromialgia.

Considerazioni: il ragazzino non mentiva, la madre non era eccessivamente premurosa, la fibromialgia esiste. I genitori da un lato hanno provato sollievo, quello di dare un nome alla patologia del figlio. Dall’altro, hanno subito compreso che la qualità della sua vita sarebbe stata fortemente penalizzata. E così è stato e così è. Nicholas, che frequenta la terza media, certe mattine non riesce ad andare a scuola, anche se fortunatamente il corpo docenti ha compreso la situazione e ha fatto in modo che tutta la classe avesse contezza delle difficoltà del compagno, cui in certi momenti viene concesso di riposare in una stanza destressante con un cuscino. Il che evita sul nascere potenziali atteggiamenti di sfottò o bullismo. «La stessa cosa, purtroppo, non era successa alle elementari, dove lo trattavano come se facesse una recita e nei momenti di fatica veniva ridicolizzato». Le attività sportive sono state azzerate, perché divenute impraticabili. La socialità è parzialmente compromessa, perché la stanchezza e il dolore impattano. Lui resiste. Sa quando può farcela e quando no, conosce i suoi limiti. Per ora cerca di non dimostrare neppure il suo rammarico, comunque percepibile da tanti piccoli gesti, quando ad esempio stringe i pugni di fronte a una richiesta di amici che è costretto a rifiutare, perché sa che non può mantenere il passo, tirare tardi, se non pagando pegno. Stringe i pugni, come si fa per non piangere. Ora non usa più la carrozzina, fa cure ad hoc con vitaminici etc, è correttamente seguito dal reumatologo di fiducia. Ma a preoccupare i genitori è il futuro, ossia la capacità di frequentare le scuole superiori e poi lavorare, o meglio trovare un lavoro adeguato. E la consapevolezza che condurrà una vita medicalizzata. Realizzarsi secondo quanto gli è consentito, non secondo quanto avrebbe desiderato. Sarà questo, i genitori lo sanno, lo scoglio. «Se ci fosse una legge – afferma la madre – non saremmo costretti a dover dipendere dalla sola benignità altrui. Potremmo esigere dei diritti e soprattutto di fronte a certi medici io non mi sarei sentita dire ‘Signora, lei lo sa vero che la fibromialgia non esiste?”.

Di Nicholas, assicurano in Cfu-Italia, ce ne sono tanti. I bambini non hanno sovrastrutture, vogliono giocare, vivere. «Davvero non vogliamo occuparcene? Non siamo il Paese della famiglia, dell’assistenza, della natalità, della sanità costituzionalmente garantita?», incalza Suzzi.

Intanto, a più di un mese dalla conferenza stampa a Montecitorio, la politica continua a tacere.

L’autrice: Camilla Ghedini è giornalista e collaboratrice di Left

La Corte costituzionale smantella la filosofia della legge Calderoli

Presidio No Ad al Pantheon, Roma 2024

La Meloni sarà certamente molto preoccupata per l'”infiltrazione” di giudici comunisti perfino dentro la Corte Costituzionale… La Consulta infatti, ha deciso (aspettiamo, ovviamente, di leggere tra venti giorni la sentenza, ma abbiamo letto uno stralcio emanato ufficialmente dalla stessa Corte) che, pur restando formalmente in vigore la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, sono incostituzionali sue parti essenziali senza le quali non può operare. Il costituzionalista Michele Ainis ha scritto: «la legge Calderoli è, ora, uno Zombie». Il Parlamento dovrà riconsiderare il tutto. Non sarà facile, probabilmente, ora trovare l’accordo mercantile che era stato stilato tra la Lega (a noi la secessione), Forza Italia (a noi la separazione delle carriere , colpendo l’autonomia del potere giudiziario) e, soprattutto, la Meloni (riforma costituzionale sull’elezione diretta, plebiscitaria, del presidente del Consiglio).

Senza enfasi alcuna, possiamo dire che le critiche che avevamo mosso da anni, come Left, insieme ai Comitati contro ogni autonomia differenziata, insieme alla Via Maestra, a partiti democratici, sono state ritenute giuste dalla Corte, dopo una analisi attenta e giuridicamente profonda, analizzando i ricorsi proposti dalle Regioni. Su due punti in particolare, fondamentali. L’ autonomia, ha spiegato la Corte, va, ovviamente, interpretata alla luce del complessivo impianto costituzionale, che detta principii che non possono essere violati, come l’unità della Repubblica (articolo 5 della Costituzione: Repubblica «una e indivisibile»), l’eguaglianza di tutte le cittadine e cittadini sull’intero territorio nazionale (non lo “ius domicilii”, la diseguaglianza secessionista prevista dalla legge Calderoli), lo Stato sociale (a partire da scuola laica repubblicana, dalla salute, dal lavoro).

Inoltre, aggiunge la Corte, il Parlamento non può essere scavalcato con un decreto, che è emanato da un organo che ha una legittimazione di secondo grado. Mentre la legge Calderoli permette che vengano assunte decisioni fondamentali attraverso deleghe generiche al governo o addirittura atti amministrativi emanati da fonti secondarie che svuotano completamente il ruolo primario del Parlamento. Nel rapporto tra Stato e Regioni, tra centro e periferia non sono possibili trasferimenti in blocco, sino ad arrivare alle venti tre materie fondative dello Stato di diritto, che scardinerebbero l’equilibrio solidale, ma solo trasferimenti di funzioni singole, motivate, mirate.

Lo smantellamento della filosofia (per così dire ) della legge Calderoli è netta; non comprendo come il presidente leghista del Veneto, Zaia,  faccia finta che nulla sia avvenuto. Trascrivo, per chiarezza: «La Corte… ha ravvisato incostituzionale.. la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione trasferisca materie o ambiti di materie, laddove invece la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà». Il che significa che va dimostrato, funzione per funzione, che solo a livello locale può essere svolta meglio una funzione (sempre singola, mai presa in blocco).

Calderoli, quindi, deve interrompere tutte le preintese con le Regioni che, clandestinamente, stava portando avanti. E, comunque, non potrà più attuare la secessione su materie decisive come la sanità, la scuola, l’ambiente, le infrastrutture, la protezione civile, il lavoro, i rapporti con l’estero, ecc. Ho segnalato solo alcuni temi. La Corte va oltre nel dichiarare l’incostituzionalità di intere travi della fantasiosa architettura della legge Calderoli, specificando che la distinzione tra materie lep e materie non lep non può pregiudicare la garanzia dei diritti civili e sociali, che la clausola di invarianza deve collocarsi un un quadro di valutazione complessiva della finanza pubblica, e dunque vanno definiti i fabbisogni per i livelli essenziali di prestazioni e su questa base decidere le poste finanziarie.

In definitiva, una sentenza importante che richiama il governo al rispetto della Costituzione. Spetterà ora al Parlamento il compito, irrinunciabile, di intervenire per colmare i vuoti che si sono creati con la dichiarazione di incostituzionalità di parti decisive della Calderoli. I Comitati No Ad, attivi in tutte le Regioni, partendo con passione e convinzione ancora maggiore, perché vedono riconosciute le ragioni della proprie critiche alla legge, rilanciano il referendum di abrogazione totale. Siamo convinti che la legge Calderoli viola gli articoli 2, 3, 5 della Costituzione perché frantuma l’unità e indivisibilità della Repubblica, lede il principio di solidarietà e eguaglianza dei cittadini. Per questo i Comitati, come hanno già scritto, «son certi che, anche qualora il Parlamento intervenisse per sanare le illegittimità costituzionali come richiede la Consulta, il referendum di abrogazione totale sarà ammesso e la legge Calderoli, attraverso il voto referendario, sarà cancellata».

L’autore: Giovanni Russo Spena è giurista, politico e costituzionalista

Ci vuole talento per continuare a scrivere leggi illegali

I predecessori, anche i più sfrontati come Andreotti o Berlusconi, almeno avevano il buon gusto di circondarsi di persone che le norme le conoscevano, le avevano studiate e possedevano abbastanza esperienza per riuscire a torcerle a proprio vantaggio.

Il governo Meloni ha scritto un costosissimo – per noi italiani, mica per loro – “decreto Albania” che anche uno studente al primo anno di giurisprudenza avrebbe riconosciuto come fallimentare. Bastava ripassare velocemente la gerarchia del diritto un secondo prima dell’interrogazione per sapere che il diritto europeo è superiore alle leggi del governo di turno e per ricordare che la Costituzione non si piega alle pulsioni autoritarie di nessun Consiglio dei ministri.

Ora anche la cosiddetta autonomia differenziata (che altro non è che una secessione morbida) riceve uno schiaffo dalla Corte costituzionale. La Consulta ravvisa sette profili di incostituzionalità su aspetti centrali della riforma, chiarendo che “il fine dell’autonomia non è certo di aderire alle pretese delle Regioni ma deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.

Nei corridoi della Lega ieri si bisbigliava che fosse andata «peggio del previsto». Prevedevano quindi di aver scritto una legge non del tutto legale, e nonostante questo, da mesi la peroravano come un’intuizione politica perfetta, mandando avanti il ministro Calderoli a fare il testimonial di una ciofeca.

Ora la maggioranza assicura che “interverrà in Parlamento”. Come non fidarsi?

Buon venerdì.

Aumentare le spese militari. L’obiettivo dell’Unione europea (in attesa di Trump)

Le sfide future dell’Unione europea riguarderanno conflitti militari sempre più vicini se l’Unione continua ad affidarsi alla postura militarista della Nato anche in fase di escalation delle crisi e se continuano a esistere comportamenti da autentici free rider della diplomazia come il Piano Mattei del governo italiano e le intemperanze di Orbán (dimostrate per l’ennesima volta nella sua visita post-elettorale in Georgia). Tuttavia è ulteriormente rischioso partire da questo assunto, come ha fatto l’ex-presidente finlandese Niinistö, per proporre un rafforzamento della difesa dei Paesi dell’Unione che continui a rimanere nell’alveo di un ligio atlantismo che spesso si nasconde dietro il (talvolta valido) principio della non duplicazione delle capacità Nato.
Il rapporto del politico ed attuale consigliere speciale finlandese contiene molti spunti interessanti, come una formale e netta affermazione dell’importanza della counter intelligence soprattutto per il contrasto al terrorismo. Sono a questo proposito notevoli le raccomandazioni sul rafforzamento dell’intelligence e counter intelligence sharing e sull’implementazione di una rete anti-sabotaggio comune. Tuttavia non può non preoccupare da una parte la riconferma dell’inquadramento di ogni capacità difensiva europea nella struttura Nato e una prospettiva di militarizzazione che giunge a consigliare di pianificare la trasformazione di strutture civili in strutture militari. Ad esempio nel documento, a pagina 125 e 126 si valutano positivamente gli sforzi che l’Europa sta facendo (e deve fare) per garantire un set di infrastrutture civili in grado di garantire a oltre centomila militari provenienti da Usa, Gran Bretagna e Canada di attraversare il suo territorio verso la frontiera (orientale). Nelle stesse pagine del rapporto si raccomanda una politica dual use civile/militare che venga applicata nella progettazione della maggioranza delle strutture pubbliche civili, strade comprese. Questo certo lascia pensare quantomeno a un adattamento ad una condizione di guerra anche nelle strutture e non solo nella pianificazione, come avveniva durante la Guerra fredda.

Si tratta insomma di un documento ancora fortemente sbilanciato verso l’atlantismo e che non fa distinzione tra la strategia militare vera e propria, che è allineata con la Nato anche per una questione strutturale e di principio (non duplicazione) e alcuni effetti come la deterrenza e l’influenza nelle crisi dei quali l’Unione potrebbe rendersi più indipendente dall’Alleanza. Mentre il lavoro dell’ex presidente finlandese e del suo staff dimostra sensibilità nel già citato campo della counter intelligence e nella frammentazione degli sforzi industriali per la difesa europea, non accenna se non di sfuggita, ad alcuna possibilità di una graduale emancipazione dalla Nato nella fase strategica di eventuali operazioni.
La reazione di primo acchito al documento di Ursula von der Leyen è stata eccezionalmente favorevole (come riporta www.pubaffairsbruxelles.eu), la Presidente della Commissione ha accolto il report come eccellente e ha ribadito la convinzione della necessità del lavoro dell’ex-presidente finlandese in un momento delicato per l’Europa. Ma quanto espresso dalla Von der Leyen è abbastanza naturale visto che l’incarico era stato affidato a Niinistö aspettandosi quanto avrebbe prodotto. Ciò che dovrebbe essere valutato è piuttosto l’effetto che il documento potrà avere sulle politiche economiche e militari dei 27.

Con il report si aprono decisive possibilità per gli Stati che vorranno investire in spese militari, seppure importanti in un periodo di decisiva instabilità come quello attuale, anche a discapito di altre voci del proprio bilancio (come avviene in Italia). Al contempo non viene evocata una via ulteriore per l’Europa che sia differente dalla strategia della non duplicazione dello strumento Nato e questo forse è il punto più preoccupante. Nel documento infatti si scende nei particolari del rilancio e di una strategia dell’industria di difesa europea e, come detto, della counter intelligence ma gli effetti strategici militari e la preparazione dello strumento militare sono completamente allineati alla strategia atlantica e, per forza di cose, ai dettami di Washington. Con l’elezione di Trump andrà poi visto come gli Usa saranno disposti a giocare ancora il ruolo che hanno avuto nella difesa europea e quanto questo rapporto rischi di divenire obsoleto a poche settimane dalla sua pubblicazione.

L’autore: Francesco Valacchi è cultore della materia, ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze politiche all’università di Pisa. Si occupa di geopolitica, con particolare riguardo all’area asiatica. E’ appena uscito il suo libro A nord dell’India, storia e attualità politica del Pakistan (edizioni Aracne)

Nella foto: parata militare in Finlandia (MKFIOpera propria)

 

Migranti e tribunali, la nuova linea: cercasi giudici che dicano sì al governo

la presidente Meloni con ol presidente Rama in Albania

Tradendo un’evidente difficoltà nella comprensione delle leggi italiane e una manifesta debolezza politica nel governarle, il governo Meloni decide ora di tornare alle vecchie tradizioni berlusconiane e punta direttamente sui giudici. Se la sezione immigrazione del Tribunale di Roma prende decisioni che vanno di traverso alla maggioranza, si cambia semplicemente il giudice, poiché non possono “licenziarli” come farebbe l’eccentrico Elon Musk.

L’emendamento è firmato da Sara Kelany, deputata di Fratelli d’Italia, che lo ha presentato nel Decreto flussi in Commissione Affari Costituzionali, proponendo di modificare la normativa sulle convalide dei trattenimenti e di spostare la competenza dalle sezioni dei tribunali specializzate in materia migratoria alla Corte d’Appello.

La sezione immigrazione del Tribunale di Roma è stata istituita nel 2017 in seguito al decreto Minniti-Orlando, che prevedeva la creazione di sezioni specializzate per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea. L’obiettivo principale di quella riforma era “migliorare l’efficienza e la specializzazione nella gestione dei procedimenti legati all’immigrazione, rispondendo all’aumento delle domande di asilo e alle sfide poste dai flussi migratori”.

L’emendamento proposto dalla deputata Kelany sembra suggerire che “l’emergenza migranti” sia quindi superata, spostando la gestione giuridica alla già sovraccarica Corte d’Appello. Oppure, più semplicemente, questo governo sarebbe disposto ad affidare le decisioni perfino ai salumieri, pur di trovare qualcuno che gli dia ragione.

Buon giovedì.

In foto la presidente Meloni e il presidente Rama il 5 giugno 2024 a  Gjader in Albania

I rischi che corre l’Europa

L’Europa attraversa un momento di particolare difficoltà. La stagnazione dell’economia è ormai un dato accertato che si accompagna alle tensioni accese dall’invasione russa in Ucraina e dall’esplodere del sovranismo. La Germania, locomotiva dell’Unione, si è fermata e la coalizione “semaforo” che la governa dal 2021 è giunta al capolinea. Altri fondamentali Stati europei, come la Francia, attraversano un periodo travagliato. Non ultima l’Italia alle prese con una legge di Bilancio particolarmente spinosa e dallo sviluppo assai confuso in una condizione economica quantomai severa.
In questo contesto si è tenuto, alla fine della scorsa settimana, a Budapest, un Consiglio europeo informale sulla competitività, argomento quanto mai caldo per un’Unione avvitata in una spirale recessiva.
Nella sua informalità, il Consiglio afferma nella dichiarazione finale che «accogliamo con favore i rapporti ‘Molto più di un mercato’ di Enrico Letta e ‘Il futuro della competitività europea’ di Mario Draghi che identificano sfide critiche e formulano raccomandazioni orientate al futuro. Forniscono una solida base su cui faremo progredire ambiziosamente il nostro lavoroı». Ancora, «cogliamo il loro campanello d’allarme. È fondamentale che colmiamo urgentemente il divario di innovazione e produttività, sia con i nostri concorrenti globali che all’interno dell’Ue. Lavoreremo in unità e solidarietà a beneficio di tutti i cittadini, le aziende e gli Stati membri dell’Ue». E questo perché «il business as usual non è più un’opzione. Oggi, sottolineiamo l’urgente necessità di un’azione decisa per affrontare queste sfide».
Prendiamo atto di questo impegno assunto, vale la pena di sottolinearlo nuovamente, in un consesso informale. Ma si deve avere la consapevolezza che se l’Unione non darà adesso un colpo di reni, il futuro che ci attende – e non su un lungo periodo – è più che allarmante.
I dati li ha messi in fila, con la consueta precisione, Mario Draghi, soffermandosi con i giornalisti all’ingresso del Consiglio al quale ha presentato il suo Rapporto. Fotografando un momento storico nel quale l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti segna un radicale cambio di scenario. «Le indicazioni di questo rapporto – ha spiegato il nostro ex presidente del Consiglio – sono già urgenti data la situazione economica in cui siamo oggi. E sono diventate ancora più urgenti dopo le elezioni negli Stati Uniti. Non c’è alcun dubbio che la presidenza Trump farà una grande differenza nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa. Certamente, noi dovremo prenderne atto».
In che modo? «Dalla prospettiva del Rapporto, quindi del rilancio della competitività in Europa, un paio di cose che vengono in mente sono che questa amministrazione sicuramente darà un ulteriore grande impulso al settore tecnologico, al cosiddetto High Tech, dove noi siamo già molto indietro. E questo è il settore trainante della produttività. Già ora la differenza nella produttività tra gli Stati Uniti e l’Europa è molto ampia. Quindi noi dovremo agire. E gran parte delle indicazioni del Rapporto sono su questo tema».
Ma c’è dell’altro perché «sicuramente Trump tanto darà impulso nei settori innovativi, tanto proteggerà le industrie tradizionali. Che sono proprio le industrie – le produzioni delle quali – noi esportiamo di più negli Stati Uniti. E quindi, lì dovremo negoziare con l’alleato americano, con uno spirito unitario, in maniera tale da proteggere anche i nostri produttori europei».
Dunque, uno stretto intreccio tra politica economica, industriale ed estera che richiederebbe all’Unione uno straordinario impulso di lucidità e sagacità politica.
E a proposito di questo, si pone, più che mai, il tema del funzionamento del governo dell’Unione. Perché, spiega ancora Draghi «ci sono grandi cambiamenti in vista e credo che quello che l’Europa non può più fare è posporre le decisioni. Come avete visto, in tutti questi anni si sono posposte tante decisioni importanti perché aspettavamo il consenso. Il consenso non è venuto. È arrivato solo uno sviluppo più basso, una crescita minore e, oggi, una stagnazione. Quindi, a questo punto, io mi auguro che ritroveremo uno spirito unitario con cui riuscire a trarre il meglio da questi grandi cambiamenti». Per «andare in ordine sparso, siamo troppo piccoli. Non si va da nessuna parte».
Rebus sic stantibus, le leadership politiche che guadagnano consensi solo assecondando le sia pur legittime paure dell’elettorato e indicando il nazionalismo come soluzione appaiono terribilmente inadeguate. Ci vorrà molto coraggio per proiettarci fuori dalle criticità odierne.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

“Dahomey”, indagine sul postcolonialismo

In occasione dell’uscita nelle sale del docufilm Dahomey di Mati Diop pubblichiamo l’approfondito articolo di Maria Pia Guermandi sugli effetti del colonialismo in Africa, da Left aprile 2024.

Ben poca risonanza ha avuto, sulla nostra stampa mainstream la vittoria alla Berlinale 2024 da parte di Dahomey, il film documentario di Mati Diop sulla recente restituzione di 26 opere d’arte saccheggiate dai francesi nell’omonima colonia alla fine del XIX secolo.
Difficile, del resto, che tematiche come quelle trattate nel lungometraggio di Diop risultassero appetibili ad una informazione come la nostra da sempre caratterizzata da una pervicace e generalizzata afasia sul nostro e l’altrui passato coloniale. Eppure l’attuale revival, sebbene velleitario e a tratti farsesco, di talune posture neocoloniali nel cosiddetto piano Mattei dovrebbe per lo meno sollecitarci ad approfondire un tema – quello del colonialismo europeo in Africa – che è radice ineludibile degli equilibri geopolitici di oggi e di domani.
È questo, d’altronde, l’obiettivo del lungometraggio francese, che unisce una prima parte di finzione onirica ad una seconda prettamente documentaristica e in cui gli oggetti di un tesoro artistico del passato sono l’innesco per raccontare le ambiguità e le incertezze del presente. Dahomey era la denominazione di un antico regno dell’Africa subsahariana occidentale, presente, come risulta dalle fonti, almeno dal XVII secolo e la cui ricchezza fu dovuta anche al commercio degli schiavi. La penetrazione coloniale francese, avviata fin dai primi decenni del XIX secolo, fu poi sancita nella Conferenza di Berlino del 1884-1885, durante la quale le principali potenze europee si spartirono a tavolino i territori africani, come se il continente fosse di fatto terra nullius. Fu il così detto struggle for Africa, ultima fase del colonialismo moderno europeo, caratterizzata da massacri generalizzati e dal primo genocidio del ’900, quello delle popolazioni Herero e Nama, nell’odierna Namibia, ad opera dell’esercito tedesco.
Esito collaterale delle aggressioni militari europee nel continente africano divennero i reiterati saccheggi del patrimonio culturale, considerato dalle truppe coloniali quale preda di guerra risarcitoria e che andrà ad arricchire sia i musei che, per molti decenni e ancora oggi, il commercio occidentale d’arte.
Le decine e decine di migliaia di oggetti – cerimoniali, d’uso comune, religioso, artistici – sottratti a popolazioni che si credevano – si volevano – in via d’estinzione, una volta esposte nei musei etnografici occidentali divennero, fra l’altro, elemento d’ispirazione straordinario per le avanguardie artistiche del primo Novecento.
Appena riacquistata l’indipendenza politica nella seconda metà del secolo scorso, le ex colonie africane hanno reiteratamente richiesto la restituzione o repatriation del proprio patrimonio culturale. Il rifiuto contrapposto, per decenni, da parte di musei e governi occidentali all’unisono è stato giustificato soprattutto con la mancanza di adeguate strutture di conservazione e ricerca nei Paesi africani, che si è quindi continuato a considerare incapaci di prendersi cura di quegli stessi oggetti che avevano prodotto. Sorvolando sul fatto che le condizioni di difficoltà e di carenza di infrastrutture culturali dei territori subsahariani fossero, per l’appunto, la conseguenza di decenni di sfruttamento e spoliazione coloniale.
Nel novembre 2017, il presidente francese Macron, in un passaggio di un discorso ufficiale tenuto all’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, annunciò la sua intenzione di restituire – temporaneamente o definitivamente – il patrimonio culturale sottratto in epoca coloniale presente nei musei pubblici francesi nel giro dei successivi 5 anni. Il discorso di Macron, nel suo insieme, era pienamente ascrivibile ad un orizzonte ancora pienamente neocoloniale (aiuti economici, tecnologici, infrastrutturali a sancire un ruolo esclusivo di “protezione” geopolitica del Paese africano da parte della ex madrepatria), ma l’inaspettata apertura sul fronte delle restituzioni culturali ebbe immediata risonanza mediatica, tanto più che il presidente francese commissionò immediatamente a due noti intellettuali – l’economista senegalese Felwine Sarr e la storica dell’arte francese Bénédicte Savoy – uno studio che analizzasse il problema e proponesse linee guida utili a superare, fra l’altro, l’ostacolo legale dell’inalienabilità del patrimonio pubblico propria del sistema giuridico francese come di molti Paesi europei, Italia compresa. Il report fu presentato l’anno successivo, nel novembre 2018, e, pur con qualche limite, rappresentò un decisivo punto di svolta nelle politiche patrimoniali sui materiali provenienti da contesto coloniale. Nel rapporto Sarr-Savoy si ribadiva, senza incertezze, la necessità etica, prima ancora che giuridica, di restituire quanto sottratto durante il dominio coloniale, senza limitazioni temporali. Il documento riconosceva pienamente – e per la prima volta in un testo dotato di tale autorevolezza politica – la gravità della ferita inferta alle popolazioni africane dalla sottrazione di un patrimonio vitale per innescare quei processi di identità e costruzione della memoria collettiva fondamentali perché una comunità si riconosca come tale. Non solo, nella loro disamina, i due studiosi sottolinearono come fosse ormai necessario, da parte delle istituzioni occidentali, abbandonare quella presunzione di superiorità culturale nell’uso e gestione del patrimonio, riconoscendo la validità di altre e diverse tradizioni culturali e superando, ad esempio, il totem di una musealizzazione e conservazione in aeterno come unico e possibile approccio all’uso del patrimonio.
Il report Sarr-Savoy scatenó discussioni a dir poco animate nel mondo museale europeo e ad un più ampio livello politico, ma a distanza di oltre un lustro, è oggi considerato uno degli elementi decisivi per la riattivazione, su base più sistematica ed operativa, del processo di repatriation.
A tre anni da quel documento e dopo aver varato una legge apposita, la Francia restituì alla Repubblica del Benin, erede dell’antico regno africano, quello che doveva essere un primo lotto di materiali coloniali. Le 26 opere – statue di sovrani teriomorfe, troni di legno, oggetti per il culto – accolte ufficialmente a Cotonou, la capitale, nel novembre 2021 erano state sottratte nel 1892 durante il saccheggio del Palazzo reale di Abomey da parte delle truppe francesi.
Il racconto narrato in Dahomey si riferisce a quell’episodio che nella propaganda mediatica francese divenne l’esempio della volontà e affidabilità francese, ma che la regista franco senegalese Mati Diop nella conferenza stampa di presentazione del film a Berlino, ha definito, al contrario, come umiliante, considerata l’esiguità quantitativa del materiale sinora restituito a fronte delle molte migliaia di oggetti sottratti nel saccheggio e durante il dominio coloniale.
Nella prima parte dell’opera è una delle statue restituite, quella che si presume raffigurare Gezo, uno dei re del Dahomey, a prendere la parola, nell’antica lingua Fon, e raccontare il ritorno dai depositi del Musée du quai Branly, il costoso e patinato riallestimento delle collezioni etnografiche francesi – per la maggior parte di contesto coloniale – voluto da Jacques Chirac e inaugurato nel 2006 come testimonianza della grandeur museale francese, ma ben presto divenuto oggetto di violente critiche in senso decoloniale. Dopo le scene che illustrano le fasi della cerimonia ufficiale svoltasi a Cotonou con le più alte autorità del Benin, Dahomey riprende la discussione organizzata dalla stessa regista nell’Università di Abomey-Calavi a commento di quell’evento. Sono proprio i giovani, cioè quella generazione che non ha avuto nessuna possibilità di confrontarsi con quel patrimonio culturale ora restituito e che oggi, come rimarcano gli stessi studenti, si esprimono nella lingua degli ex colonizzatori, ad interrogarsi sul significato di quel ritorno e sulle molte ambiguità politiche che disvela.
È un dibattito acceso e in cui le posizioni espresse sono estremamente divergenti, fra chi ritiene che quella restituzione potrà ricucire ferite e aprire una nuova fase e chi vede prevalere le ragioni della propaganda politica (francese e interna) e il pericolo di un uso elitario del patrimonio stesso. La vera risposta che ne emerge è la sottolineatura della complessità di una vicenda, quella di un presente postcoloniale in cui le lacerazioni del passato continuano ad agire, ma con una nuova consapevolezza.
A confermare come il processo di repatriation sia tuttora vissuto molto problematicamente anche dalle ex potenze coloniali è d’altro canto giunto il nuovo report commissionato da Macron all’ex direttore del Louvre, Jean-Luc Martinez, proprio in occasione del ritorno delle opere del Benin. In questo nuovo documento consegnato nell’aprile 2023, l’atteggiamento di apertura e disponibilità a quella che nel report Sarr-Savoy era stata definita una nuova “etica relazionale” con le ex colonie subsahariane, è profondamente mutato e, al contrario, sono i paletti invalicabili di un quadro giuridico di concezione eurocentrica a fissare un nuovo, asfittico perimetro di manovra. Le opere potenzialmente restituibili sono così ora drasticamente ridotte nel numero e la repatriation è vincolata ad accordi di “collaborazione” – fra istituzioni francesi e istituzioni africane – dallo sgradevole sentore neocoloniale, in cui cioè si dà per scontato che la trasmissione di competenze e di saperi sia a senso unico. E non negoziabile.
La diffidenza e lo spaesamento che Mati Diop fa esprimere a Gezo, la statua parlante, sono più che giustificati dunque dal perdurante atteggiamento di molte istituzioni occidentali nei confronti delle restituzioni, ispirato ad una perdurante pretesa di superiorità scientifica che rende ragione delle inerzie e della mancanza di trasparenza sulla grande maggioranza dei dati relativi alle modalità di acquisizione delle opere da contesto coloniale.
Ma anche laddove, come nella vicenda di repatriation narrata in Dahomey, qualcosa si muove, più che fondato è il sospetto di un uso del patrimonio culturale puramente strumentale alle persistenti ingerenze economico-politiche verso Paesi che sempre più spesso dimostrano la propria insofferenza verso quella stagione postcoloniale della cooperazione allo sviluppo quasi subito degradata nell’inefficacia e nella corruzione, come esemplarmente dimostrato dal così detto “sistema Françafrique”.
Viene allora da pensare, come affermato dagli studiosi decoloniali più radicali – da Ariella Aïsha Azoulay a Françoise Vergès – che le istituzioni culturali occidentali, e il museo in primis, siano – geneticamente – irriformabili ed impermeabili a qualsiasi operazione di decolonizzazione, repatriation compresa, non puramente cosmetica o tokenistica. E che i recentissimi musei di cui negli ultimi anni si sono dotati molti Paesi africani, si limitino a replicare, in una mimesi acritica, quegli obiettivi nazionalistici e di consolidamento dello status quo sociale che costituiscono il dna del museo moderno occidentale. È il sospetto che aleggia nelle ultime immagini del film dedicate al nuovo Museo dell’Epopea delle Amazzoni e dei Re di Dahomey del Benin destinato ad accogliere le 26 opere restituite e le molte altre in attesa di repatriation. Dahomey ha il pregio prezioso di ricordarci come il patrimonio culturale, in quanto pratica sociale, sia profondamente politico e sempre contemporaneo, anche se incarnato da opere del passato, in quanto le interpreta attraverso le aspirazioni, le idee, le contraddizioni di oggi.
Da italiana sommersa dalle retoriche governative sulla “superpotenza culturale globale” non posso che guardare con invidia a quella discussione così appassionata degli studenti beninesi per i quali quelle statue e oggetti sono al contrario materia viva su cui costruire un presente e un futuro diversi.
Di fronte alla povertà concettuale della nostrana e prevalente concezione mercantil-turistica di patrimonio culturale, ben si comprende come un quotidiano come Il Sole 24 ore del 24 febbraio 2024 abbia potuto scrivere che Dahomey è stato «premiato troppo generosamente».
Un giudizio che trova ragione in quella persistente inconsapevolezza della storia coloniale e sulle sue conseguenze contemporanee che ci condanna su posizioni di arretratezza civile ormai inaccettabili. Come giustificare che nell’anno di grazia 2024, in uno dei principali musei statali – quello di Villa Giulia – in una didascalia di reperti in esposizione, un frammento di antefissa che raffigura la testa di un africano, sia definito, prima in italiano e poi in inglese, “testa di n…”?

(articolo pubblicato su Left 4/2024)

L’autrice: Maria Pia Guermandi è archeologa ed è responsabile dell’Osservatorio beni e istituti culturali della Regione Emilia Romagna. Tra le sue pubblicazioni, Decolonizzare il patrimonio (Castelvecchi)

Dahomey nelle sale e un incontro a Roma

Il docufilm di Mati Diop è in programmazione oggi, 13 novembre, in 9 sale: in Toscana (Firenze, Flora Atelier), Emilia Romagna (Bologna, Lumiere, sala Cervi), Lazio (Roma, Greenwich, Mignon, Giulio Cesare), Piemonte (Torino, Massimo Nc), Lombardia (Milano, Anteo Palazzo del cinema), Liguria (Genova, Circuito Cinema). A Roma, in occasione della proiezione del film al cinema Giulio Cesare, oggi alle 20.30 Focus on appropriazione culturale, autodeterminazione e restituzione delle opere d’arte. Partecipano Igiaba Scego, scrittrice e ricercatrice, Andrea Viliani, direttore del Museo delle civiltà, Rosa Anna Di Lella, curatrice Collezioni dell’ex Museo Coloniale, Gaia Delpino, curatrice Collezioni di arti e culture africane e dell’ex Museo coloniale, Matteo Lucchetti, curatore Collezioni arti e culture Contemporanee

 

I “fantamiliardi” di Soros e il silenzio su Musk: l’ipocrisia sovranista tra complotti e veri miliardari

Matteo Salvini e Giorgia Meloni per anni hanno concimato l’idea che un miliardario americano (di cui non dimenticavano mai di sottolineare l’origine ebrea) George Soros decidesse le sorti del mondo con i suoi fantamiliardi favorendo l’immigrazione clandestina per rovesciare le democrazie europee. 

I loro più fervidi seguaci propugnano tutt’oggi questa ipotesi, soprattutto su quella latrina che è diventata l’ex Twitter ora X. Nessuno è mai riuscito a spiegarci perché Soros avrebbe scelto come hobby quello di boicottare Lega e Fratelli d’Italia ma questo sembra non interessare a chi lamenta “le ingerenze di un miliardario” nel placido sovranismo italico. 

Un miliardario americano di origine sudafricana, Elon Musk, con i suoi soldi ha comprato il social X trasformandolo in un contenitore di propaganda e di ingerenza politica. Padrone dell’algoritmo il miliardario Musk sfrutta la sua vasta eco per rilanciare calunnie, millanterie e rutti sui sistemi democratici del mondo (ieri contro il sistema giudiziario italiano). 

Musk è la dimostrazione di come denaro e social rendano un soggetto ricco anche un soggetto politico, alla faccia del “popolo”, della “democrazia” e di un altro paio di concetti su cui si poggiano le democrazie liberali occidentali. 

Meloni e Salvini in questo caso tacciono, anzi addirittura gongolano. Di Musk e di Trump hanno detto che sono il simbolo della “vittoria del popolo sulle élite”. E questo è tutto quello che c’è da dire sull’attuale momento storico. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Giorgia Meloni e Elon Musk (fb ufficiale G.Meloni)

Bande armate ed estorsioni sui camion di aiuti umanitari a Gaza

Palestina, foto di Action Aid

Una recente inchiesta condotta dal quotidiano israeliano Haaretz ha rivelato che l’esercito israeliano permette a bande armate di derubare i camion degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, privando le vittime di un conflitto già troppo lungo e crudele di ogni speranza di sopravvivenza. 

Le organizzazioni umanitarie internazionali riferiscono che queste bande, legate a potenti famiglie locali, prendono di mira i convogli di aiuti che attraversano il valico di Karem Abu Salem, imponendo un “pizzo” a ogni passaggio. Il sistema di estorsione consiste nell’installare blocchi stradali improvvisati per fermare i veicoli e chiedere somme ingenti ai conducenti, spesso ricorrendo alla forza e a minacce di rapimento o sequestro dei beni trasportati. Il pagamento richiesto dalle bande può arrivare fino a 15.000 shekel (circa 3.700 euro) per camion, costringendo le organizzazioni umanitarie a un difficile compromesso: cedere al ricatto o rischiare di perdere i beni di soccorso destinati alla popolazione in condizioni disperate.

Il crescente disordine civile a Gaza ha creato il contesto ideale per questa situazione. La maggior parte delle merci e degli aiuti umanitari deve ormai passare attraverso il valico di Karem Abu Salem, visto che il confine tra Gaza e l’Egitto è stato chiuso, limitando l’accesso ai rifornimenti. Con il controllo delle aree circostanti al valico in mano a bande armate e in assenza di un’autorità locale in grado e con la volontà di mantenere l’ordine, i tentativi di estorsione si sono intensificati nelle ultime settimane. A conferma della gravità della situazione, le Nazioni Unite hanno classificato la zona come “ad alto rischio”, poiché si è assistito a un progressivo collasso della sicurezza e delle strutture di controllo locale. Fonti internazionali riportano che l’esercito israeliano è consapevole di questi episodi di estorsione ma, nonostante le lamentele delle organizzazioni umanitarie, ha evitato interventi per fermare le bande.

A complicare ulteriormente la situazione vi è l’intervento della polizia palestinese, che ha tentato di contrastare queste bande ma si è scontrata con l’opposizione delle forze israeliane. Gli scontri si sono verificati proprio in quelle aree dove i camion di aiuti vengono intercettati, spesso con l’aggressione ai mezzi e ai conducenti. Diverse organizzazioni umanitarie hanno chiesto l’introduzione di una forza di sicurezza – palestinese o internazionale – che possa garantire il passaggio sicuro dei convogli, ma la proposta non è stata accolta favorevolmente da Israele. Le autorità israeliane, infatti, preferiscono mantenere il controllo diretto sull’area e hanno proposto che l’esercito israeliano gestisca direttamente la distribuzione degli aiuti. Questa soluzione, tuttavia, ha incontrato la resistenza delle stesse autorità militari israeliane, preoccupate per le implicazioni che una gestione diretta potrebbe avere.

La connivenza con bande criminali dedite a blocchi stradali e saccheggi sistematici dei camionisti rappresenta un chiaro tentativo di minare alla base l’ordine civile e la stabilità economica della Striscia di Gaza. Secondo osservatori internazionali, le forze israeliane avrebbero deliberatamente evitato di fermare questi gruppi armati, contribuendo così a generare un clima di insicurezza. In alcuni episodi, i conducenti hanno assistito impotenti mentre uomini armati li minacciavano con fucili AK-47 sotto gli occhi dei soldati israeliani, che hanno evitato di intervenire. Nonostante le ripetute richieste di protezione avanzate dalle organizzazioni umanitarie, l’esercito israeliano ha risposto proponendo un percorso alternativo per i convogli, ma, secondo i resoconti, anche lungo questa nuova via continuano ad avvenire estorsioni.

La popolazione civile si trova quindi intrappolata in una crisi che peggiora giorno dopo giorno. Gli aiuti internazionali faticano a raggiungere la destinazione a causa delle estorsioni, mentre il crollo della sicurezza e il disordine impediscono di ristabilire un controllo stabile dell’area.

Le organizzazioni internazionali esprimono profonda preoccupazione per l’impossibilità di far pervenire aiuti alimentari, medicinali e altri beni essenziali alle popolazioni colpite dalla crisi. Le bande armate, con i loro continui attacchi e i blocchi stradali, minacciano la vita degli operatori umanitari e mettono a repentaglio la sopravvivenza di milioni di persone.

Il rischio più concreto è che, in assenza di interventi significativi, la popolazione di Gaza continui a subire le conseguenze di una mattanza in cui anche la speranza di ricevere aiuti umanitari viene meno, ostacolata da interessi e giochi di potere che mettono a rischio la sopravvivenza di migliaia di persone.

Sotto le bombe, mani tese implorando un aiuto che non arriva. Dietro quelle mani, occhi spenti dalla fame e dalla disperazione. E in mezzo a questo dramma, bande armate, come sciacalli, impediscono che il cibo, le medicine, la vita stessa, raggiungano chi ne ha più bisogno. Un’umanità assediata, condannata a morire di lentezza.

 

L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce