In tempi oscuri colpisce chi usa parole limpide, senza timori reverenziali e senza mediazioni scolorite.
Oggi sei giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma decideranno sulla validità del trattenimento di sette persone migranti che si trovano nel centro Gjader in Albania. Sembra che il bottino politico del governo ancora una volta si scontrerà con la legge e la Costituzione. Il decreto legge dello scorso 21 ottobre con cui il governo ha provato a superare la legge europea aggiornando la lista dei Paesi sicuri non funzionerà.
Questa volta non farà parte della commissione la giudice Silvia Albano che già una volta non ha convalidato il trattenimento dei migranti in Albania. Albano è anche presidente di Magistratura democratica, la corrente progressista dell’Associazione nazionale magistrati, e ieri è stata attaccata ancora una volta dal vice presidente del Consiglio Matteo Salvini.
In un colloquio con la giornalista Gabriella Cerami di Repubblica, la giudice dice: «Io ho sempre fatto la giudice civile – racconta – non era nei miei pensieri essere protetta, di solito succede ai penalisti. Ma non è questo il tema, il problema è ciò che si è scatenato in seguito alla sentenza». Ora è protetta dalle forze dell’ordine. Chi sono i responsabili? La risposta è cristallina: «questa è una campagna fomentata da alcuni giornali e trasmissioni ma anche da politici, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni in giù».
Detta semplice, lineare, senza paura. Come si deve fare.
Between the tides (tra le maree), A Gulf Quinquennial, co-curata dal direttore esecutivo della NYUAD Art Gallery Maya Allison e dal curatore della galleria, il professore Duygu Demir, è in realtà il frutto di un fitto dialogo con gli artisti e i curatori di tutta la regione. Espandendosi oltre il panorama artistico degli Emirati, questa esposizione riunisce e rende visibile un ecosistema condiviso più ampio. Il titolo “Between the Tides”, riflette il profondo legame del Golfo con i ritmi lunari e un senso del tempo modellato da modelli naturali. Essa presenta un’ampia varietà di stili artistici, da voci emergenti a personaggi noti, ed esplora temi importanti, come lo sviluppo urbano, il cambiamento climatico, il patrimonio della tradizione, l’identità e la rappresentazione.
L’ambizione di questa iniziativa è quella di raccogliere e divulgare le opere di artisti giovani e/o affermati, ma che, provenendo da Paesi che nel circuito dell’arte contemporanea hanno una scarsa visibilità, sono troppo spesso relegati in una posizione marginale. Questa mostra che dura fino all’8 dicembre dovrebbe essere il primo appuntamento di una manifestazione a cadenza quinquennale, e anche solo per questo motivo sicuramente merita una visita e una recensione.
Un’opera di Hazem Harb
Between theTides: AGulf Quinquennial presenta 21 artisti e collettivi provenienti da tutta la regione, tra cui Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Kuwait, Bahrein e Arabia Saudita. L’ambizione dei curatori è quella di catturare i momenti chiave della scena artistica del Consiglio di cooperazione del Golfo dal 2019, presentando opere nei campi delle arti visive, dell’architettura e del design, attraverso dipinti, video, installazioni e sculture che riflettono i paesaggi culturali e ambientali unici della regione.
La mostra, corredata da un catalogo bilingue (inglese/arabo), è stata inaugurata anche per celebrare il primo decennio della NYUAD Art Gallery, uno spazio che si è guadagnato nel corso di questi primi dieci anni di attività una crescente visibilità nel panorama locale dell’arte contemporanea. Commentando il decimo anniversario e il lancio di questa prima quinquennale, Maya Allison ha detto: «Nel primo decennio della NYUAD Art Gallery e del Project Space, insieme allo sviluppo della nostra istituzione culturale, abbiamo assistito a una proliferazione di artisti, in parte grazie al supporto di nuove iniziative nel Golfo, che stanno producendo opere complesse, sfumate e provocatorie, insieme ai loro colleghi più esperti. Ampliata oltre il panorama artistico nazionale, questa mostra riunisce e rende visibile un ecosistema condiviso più ampio. Un capitolo nuovo è stato aperto nella regione e sulla scena globale».
Un’opera di Alia Ahmad
Infatti, mentre è ancora in costruzione la nuovissima sede del Guggenheim di Abu Dhabi, va avanti dal 2011 (la conclusione dei lavori è prevista per il prossimo anno), la galleria in questione ha rappresentato un importante laboratorio per lo sviluppo di un nuovo linguaggio artistico locale connesso con quello dell’arte contemporanea attraverso mostre (tra le quali occorre citare almeno But We Cannot See Them, del 2017, un’indagine ventennale sulla scena artistica d’avanguardia degli Emirati), residenze di artisti e iniziative, tra cui merita una menzione la proiezione sold out del 5 novembre di From ground zero, una serie di 22 cortometraggi realizzati a Gaza con mezzi di fortuna, presentati in sala dal rinomato regista palestinese Rashid Masharawi. Ognuno di questi film, che dura dai 3 ai 6 minuti, presenta una prospettiva unica sulla realtà attuale di Gaza (il progetto, nel quale sono rappresentate diverse esperienze di vita nell’enclave palestinese, comprese le sfide, le tragedie e i momenti di resilienza affrontati dalla sua gente, è realizzato attraverso un mix di generi, tra cui fiction, documentario, docu-fiction, animazione e cinema sperimentale).
Tra le opere più interessanti esposte in questa mostra, occorre menzionare Notes of places (2022), una monumentale tela di quasi nove metri di lunghezza (880×338 cm) realizzata da Alia Ahmad, una giovane artista dell’Arabia Saudita, nata a Riyadh e diplomata presso la Royal College of Art di Londra, la quale, nelle sue tele dalle grandi misure, traendo ispirazione dal “deserto industriale” della sua città natale, dai colori dei tessuti Sadu e dalle forme della calligrafia araba, crea placidi paesaggi onirici e impressioni lineari che indagano le connessioni tra memoria, tempo e spazio. In particolare, nell’opera in questione, l’autrice si ispira ai paesaggi arabi ritratti sulle banconote saudite (era stata concepita per una lunga parete curva del Fenaa Al Awwal art center di Riyadh, una galleria realizzata in quella che fu la sede centrale della Saudi Hollandi Bank, la prima banca commerciale dell’Arabia Saudita). I riferimenti al paesaggio rappresentano solo un primo elemento di base, che poi l’autrice deforma e trasfigura attraverso il linguaggio e le pratiche dell’espressionismo astratto. Il risultato è una originale e fascinosa sintesi di linguaggi e culture che, anche grazie alla sua dimensione monumentale, non lascia indifferente il visitatore.
Collective Exhaustion (2023), dell’artista emiratina Afra Al Dhaheri è anch’essa un’opera dalle grandi dimensioni (338x52x880 cm), ma che si sviluppa nelle tre dimensioni e che consiste una struttura di tubi in alluminio nella quale i visitatori, nel corso di una performance, per tre ore al giorno durante tre giornate, erano chiamati a manipolare pile di corde nautiche di cotone (materiale molto amato dall’artista emiratina) al suo interno. A completare l’installazione, un sottofondo sonoro realizzato da Dario Felli e una illuminazione colorata ad opera di Cristian Simon, che si ripetono a loop ogni trenta minuti e che creano un suggestivo dialogo tra la struttura dell’opera, i suoni e le luci. L’autrice, nata ad Abu Dhabi, una città che negli ultimi decenni si è sviluppata in modo vertiginoso, in quest’opera dimostra di avere assimilato, e tradotto nel linguaggio dell’arte contemporanea, le scenografie e l’impetuoso ritmo con cui cresce la capitale degli Emirati, in cui gli scheletri dei grattacieli in costruzione si affastellano, addossati a quelli appena terminati, dando la sensazione di un enorme cantiere sempre in attività.
Ce ne sarebbero molte altre di opere esposte degne di nota, ma non possiamo non segnalare Gauze (2023) dell’artista palestinese originario di Gaza Hazem Harb, il quale ha lavorato in Italia e vissuto a Roma laureandosi presso l’Accademia e l’Istituto Europeo di Design e che oggi vive tra la Francia e Dubai. L’opera consiste in quattordici cartoncini marroni incorniciati sui quali l’autore ha incollato dei frammenti di garze e che assumono forme vagamente antropomorfe, figure eteree che potrebbero ricordare fantasmi o ectoplasmi. Malgrado non vi sia alcun nesso diretto, il visitatore non può fare a meno di ricollegare Gauze con l’attuale situazione di Gaza, territorio ferito e devastato dai continui bombardamenti israeliani.
Un’immagine dell’allestimento
Malgrado le ridotte dimensioni, se comparate a quella del vicino Louvre di Abu Dhabi o agli edifici monumentali più importanti della capitale emiratina, la NYUAD Art Gallery rappresenta uno dei pochi luoghi in cui il linguaggio dell’arte ha la possibilità di esprimersi liberamente e questa mostra, così ricca di spunti e di stimoli, lo dimostra. Il linguaggio dell’arte contemporanea può fornire gli strumenti e il terreno per instaurare un dialogo fecondo tra le culture, anche le più diverse, non attraverso l’omologazione, bensì attraverso la libera espressione dell’artista.
Hanno collaborato alla cura della mostra Abdullah Al Mutairi, del Kuwait, Ali Ismail Karimi, del Bahrain, Aseel AlYaqoub, del Kuwait e Ayman Zedani, dell’Arabia Saudita
L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e docente universitario
Indian summer è il nuovo lavoro di Francesco Venerucci, con Javier Girotto al sax, che sarà presentato il 10 novembre all’Alxanderplatz di Roma. Pianista e compositore attivo sia nell’ambito della cosiddetta “musica colta”, sia in ambito lirico e teatrale, Venerucci è un musicista di primo piano anche e soprattutto sulla scena jazzistica italiana ed internazionale.
Oltre ad una ricca produzione di composizioni di musica orchestrale e da camera, ha all’attivo la realizzazione di due opere liriche – il dramma musicale Kaspar Hauser, con libretto di Noemi Ghetti, e la profonda rielaborazione dello Scanderbeg, di Vivaldi, con nuovo libretto di Quirino Principe.
Come pianista e compositore Jazz ha finora pubblicato quattro album – Tango Fugato nel 2007, Early Afternoon e poi Tramas, in collaborazione con il grande sassofonista Dave Liebman tra il 2017 ed il 2019 – ed il recentissimo Indian Summer, uscito su Alfa Music il 18 ottobre scorso. Lo abbiamo incontrato in occasione della pubblicazione del suo nuovo lavoro.
Vnerucci e Girotto
Come è nata l’idea di questo disco e a che cosa allude il titolo?
L’idea di questo progetto risale a diversi anni fa ed ha avuto una genesi piuttosto lunga, anche se poi è stato realizzato in tempo relativamente breve. Il titolo dell’album Indian Summer proviene dalla suggestione per una frase ricorrente ripresa dalle lunghe conversazioni avute con Dave Liebman al tempo della nostra stretta collaborazione.
È un titolo in qualche modo evocativo – con un ricco passato sia in ambito letterario che teatrale – che gioca su di un doppio significato, visto che in realtà fa riferimento a quella che noi chiamiamo “l’estate di San Martino”, ovvero quella bella stagione effimera che spesso si avverte a metà autunno prima dell’arrivo dell’inverno.
Come ho appuntato nelle note di copertina, si tratta di una sorta di metafora che riguarda il proprio vissuto personale, la fiducia in una riconquista dei “giorni sereni” dopo le vicissitudini di un periodo particolarmente difficile. Quali sono i punti di contatto e le differenze rispetto alla tua produzione precedente?
Ho iniziato ad incidere dischi nel 2007, quindi abbastanza tardivamente rispetto alla mia attività di pianista e compositore in ambito jazz. Si tratta di una fetta molto importante nella mia vita nel corso della quale sono successe moltissime cose, e la distanza temporale – cinque anni circa – tra gli ultimi due album è in parte dovuta al periodo del lockdown e della conseguente sospensione delle attività artistiche. A ben vedere tutti e quattro i miei lavori sono tra loro collegati, innanzitutto sono tutti album di brani originali, e avendo la pazienza di volendoli ascoltare uno di seguito all’altro, ci si rende conto che si caratterizzano come una sorta di diario intimo e personale dei miei sentimenti.
Sono inoltre dei brani abbastanza “scoperti” nei quali c’è una predilezione per la forma melodica della musica ed un gusto per l’armonia e per certe atmosfere, se vogliamo “alla Bill Evans”, che hanno un sapore in qualche modo “post romantico” e che tutto sommato sono un po’ fuori dalle tendenze attuali o che vanno per la maggiore in questo momento.
L’altra particolarità sta nel fatto che comunque chi ascolta questo disco può farsi solo un’idea parziale delle mie attività, in quanto negli ultimi anni io ho composto musica per sale da concerto e pubblicato anche brani di musica da camera, ma in ogni caso tutte le mie esperienze restano collegate, perché in qualche modo anche in questi pezzi di jazz si sente un po’ del mio bagaglio culturale di musicista “classico”. Quindi questo lavoro ha un approccio diverso rispetto a quello dei dischi precedenti? Indian Summer, a differenza del precedente Tramas , è un classico disco per quartetto jazz, con me al pianoforte, Javier Girotto ai sassofoni, Jacopo Ferrazza al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria. Anche gli arrangiamenti non sono particolarmente elaborati, con l’esposizione del tema e poi gli assoli dei musicisti, per cui se vogliamo c’è anche una ricerca nella direzione di arrivare ad una sintesi, all’essenzialità di un brano. Al contrario il primo disco inciso con Dave Liebman – Early Afternoon – era essenzialmente un disco per piano solo in cui Dave interveniva con il suo sassofono solo in quattro brani, mentre in Tramas c’era un organico molto più articolato, con un classico quintetto Jazz (tromba, sax, piano, basso e batteria) arricchito dalla presenza di un quintetto d’archi e del bandoneon, così come pure nel primo album – Tango Fugato – c’erano i due archi, i fiati, il bandoneon e la sezione ritmica. In qualche modo ho di nuovo “saccheggiato” la formazione degli amici di Aires Tango; infatti, mentre in Tango Fugato avevo coinvolto Marco Siniscalco al basso e Michele Rabbia alla batteria, nel nuovo disco c’è Javier Girotto.
La cosa divertente è che mentre in Tramas ho fatto suonare ed improvvisare un tango a Dave Liebman, che non lo aveva mai fatto, in Indian Summer non c’è nemmeno un tango nonostante la presenza del mio amico argentino. In verità erano vent’anni che desideravo fare qualcosa con Javier ed è stata un’esperienza stupenda da tutti i punti di vista, ha fatto cose magnifiche sia al sax soprano che al sax baritono e ci ha regalato momenti particolari anche utilizzando dei flauti andini. La sua forza sta anche in questa sua immediatezza espressiva con la quale va dritto all’essenza del pezzo. Oltre a Girotto cosa ci puoi dire degli altri musicisti che hai coinvolto?
Trattandosi di un progetto per quartetto avevo bisogno della massima eccezionalità di ogni singolo elemento: Jacopo Ferrazza non solo fa degli assoli, ma ha anche molte parti obbligate, che ha sviluppato in maniera egregia, anche perché c’è sempre e comunque un approccio polifonico e contrappuntistico in tutti i miei brani che sono concepiti dal punto di vista compositivo in un’ottica potenzialmente orchestrale. Quindi, tenendo conto che abbiamo avuto un tempo piuttosto limitato per lavorare, e anche se non c’è stata una lunga gestazione del progetto, non avevo dubbi sulla sua riuscita finale avendo appunto a disposizione dei musicisti di questo livello, come lo stesso Ettore Fioravanti alla batteria, che resta una colonna portante del Jazz italiano, non solo come strumentista ma come musicista a tutto tondo, per cui mi sentivo assolutamente al sicuro da questo punto di vista. Come si inserisce un album di jazz piuttosto “classico” nel panorama della produzione attuale?
Come detto mi sento un po’ distante dalle tendenze attuali, la musica oggi sta prendendo tantissime strade diverse, molte di queste sono ahimé piuttosto ripetitive, molto preformate, si stanno affermando dei nuovi canoni stilistici che in un brevissimo lasso di tempo diventano dei nuovi format, ripetuti ed imitati; se qualcuno fa qualcosa di buono, accade che molti altri lo seguano facendo immediatamente qualcosa di molto simile, anche se di qualità, magari anche ben fatto, ma privo di originalità. Questo accade oggi a causa dell’enorme diffusione delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione?
Non ne sono del tutto convinto, se noi prendiamo un solo anno solare, per esempio il 1969, ci accorgeremmo che solo in quell’anno in cui fu pubblicato Bitches Brew di Miles Davis, uscirono una quantità di dischi, non solo di jazz, ma anche di rock o di canzoni d’autore, ad un livello compositivo, esecutivo e visionario assolutamente pazzesco, che oggi sarebbe assolutamente inconcepibile. Oggi non è più così, c’è molta musica in giro, fatta anche abbastanza bene, ma ripeto, piuttosto “standardizzata”.
Una musica che non riesce ad avere l’impatto culturale che poteva avere all’epoca?
Certamente parliamo di anni diversi, di periodi molto diversi, probabilmente incomparabili proprio per la grande energia innovativa che c’era all’epoca. Certo oggi ci troviamo in una fase storica che è al momento quasi impossibile decifrare, per il semplice fatto che ci siamo ancora totalmente immersi. Quello che veramente sta accadendo forse arriveremo a capirlo tra qualche anno; non c’è dubbio che ci saranno delle nuove idee, nuove direzioni, dei nuovi talenti e tante nuove cose da scoprire strada facendo.
Dal mio punto di vista io faccio il mio discorso personale, che poi è quello che dovrebbero fare tutti quanti, ovvero essere originali e portare avanti con onestà e coerenza quello che si sente in quel momento di poter dire e di poter fare.
L’autore: Roberto Biasco è critico musicale e collaboratore di Left
Israele ha sganciato più di 85mila tonnellate di bombe sulla Striscia di Gaza, causando danni devastanti che colpiscono non solo la popolazione, ma anche l’ambiente, l’agricoltura e le risorse idriche. Secondo le dichiarazioni dell’Autorità palestinese per la qualità dell’ambiente, i bombardamenti sono stati condotti con un’intensità e una forza distruttiva senza precedenti. La terra, già ferita, è stata marchiata a fuoco da munizioni proibite. Il fosforo bianco, come una piaga infetta, ha lasciato cicatrici profonde nel suolo, avvelenando l’aria e l’acqua. Un delitto contro la natura e contro le generazioni future. Un’atrocità che sfida ogni limite dell’immaginazione, una perversione che trasforma gli uomini in aguzzini.
L’impatto delle bombe si estende ben oltre il momento dell’esplosione, creano un deserto di morte che si espande a macchia d’olio. La terra, violentata e profanata, non dà più frutti, ma solo veleno. L’acqua, un tempo elemento vitale, ora è una sentenza di morte. Questa distruzione minaccia la sicurezza alimentare di Gaza, dove molte famiglie dipendono dall’agricoltura per il proprio sostentamento. L’Autorità palestinese sottolinea come le sostanze chimiche rilasciate dalle bombe abbiano impregnato il terreno, lasciandolo in condizioni tali da rendere l’agricoltura impossibile per decenni. Il rischio non è solo per la produttività agricola, ma anche per la salute pubblica, dato che i residui chimici possono accumularsi nei prodotti coltivati e, attraverso la catena alimentare, entrare nell’organismo umano.
La situazione delle risorse idriche è altrettanto allarmante. Gli attacchi israeliani hanno danneggiato le infrastrutture idriche, causando la penetrazione di agenti inquinanti nelle falde acquifere. La scarsità d’acqua pulita a Gaza, già critica a causa del blocco imposto da Israele, è ora aggravata dalla contaminazione delle risorse esistenti, generando una crisi sanitaria e ambientale senza precedenti.
Un sorso d’acqua, gesto tanto semplice quanto vitale, diventa per centinaia di migliaia di persone una roulette russa. L’acqua, che dovrebbe dissetare e rinfrescare, si trasforma in un veleno insidioso, portatore di malattie e sofferenze a causa delle contaminazioni. Dove l’accesso alle cure è un miraggio, ogni goccia contaminata è una condanna, un lento avvelenamento che erode la vita, un futuro rubato. La sete, da bisogno primario, si muta in un incubo, in una costante minaccia per la salute e la dignità di intere comunità.
La ricostruzione? Una chimera. Mentre le macerie fumano ancora, qualcuno parla di cifre e tempi. Ma dietro ogni rovina c’è una vita stravolta. L’Onu stima che rimuovere le macerie derivanti dai bombardamenti potrebbe richiedere dai 15 ai 20 anni, con un costo stimato tra i 500 e i 600 milioni di dollari. Il peso della distruzione non è solo economico, ma anche logistico: le operazioni di bonifica e ricostruzione devono tenere conto delle condizioni attuali di blocco e delle difficoltà di accesso per i mezzi e il personale specializzato.
Di fronte a questa catastrofe, la possibilità di ripristinare case, scuole, ospedali e altre infrastrutture è estremamente ridotta, rendendo difficile la vita di centinaia di migliaia di residenti che ora sono senza tetto e privi delle condizioni minime di sicurezza e comfort.
Questa devastazione si traduce in un pesante impatto economico. La Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) ha pubblicato un rapporto secondo cui, se anche il conflitto dovesse concludersi a breve, l’economia di Gaza richiederebbe fino a 350 anni per tornare ai livelli prebellici. Un dato particolarmente significativo, poiché sottolinea come la distruzione delle infrastrutture e l’interruzione delle attività economiche abbiano colpito in modo profondo la base economica della regione. Gaza dipende da un fragile equilibrio economico che si basa principalmente su agricoltura, piccole attività commerciali e aiuti internazionali. La guerra e il blocco hanno distrutto questa struttura, provocando una crisi occupazionale e alimentare che non potrà essere risolta con facilità.
Le cifre delle perdite umane sono altrettanto drammatiche: 43.000 vittime accertate. Frammenti di un puzzle macabro, un mosaico di vite infrante. Donne, bambini, uomini, ridotti a statistiche in un conflitto che non conosce pietà. Ma i numeri non bastano a raccontare l’orrore. Dietro ogni cifra si nasconde una storia di dolore, di paura, di speranza infranta. Pezzi di corpo, brandelli di vita, testimoniano l’immane violenza di una guerra che non risparmia nessuno. Eppure, il numero delle vittime è destinato a salire, un monito amaro di quanto la vita umana sia fragile di fronte alla follia della guerra.
La catastrofe umana non si limita a chi ha perso la vita, ma colpisce anche chi è sopravvissuto: l’intera popolazione della Striscia di Gaza è stata costretta a spostarsi, abbandonando case, terre e affetti, mentre continua a vivere sotto un blocco che impedisce l’accesso a beni di prima necessità, come cibo, acqua e medicine.
Un’espropriazione in movimento, un’odissea di disperati che scappano da un inferno per trovarne un altro, ancora più crudele. Questo esodo interno è una beffa crudele al diritto internazionale. Donne, uomini, bambini, sospesi tra la vita e la morte, in baraccopoli fatiscenti, vittime di un’ingiustizia che li costringe a un’esistenza precaria, segnata dalla paura e dall’incertezza, condannati a un’agonia senza fine.
La distruzione di Gaza è una ferita che sanguinerà a lungo, una cicatrice indelebile sul volto di questa regione, destinata a segnare il corso dei prossimi decenni. Gli effetti a lungo termine dei bombardamenti, delle sostanze tossiche e della crisi idrica si tradurranno in una condizione di vita precaria per le prossime generazioni, che si troveranno ad affrontare i problemi lasciati in eredità da questa distruzione. Per questo, molti esperti ritengono indispensabile un intervento internazionale immediato e coordinato per fornire aiuti umanitari, supportare la popolazione e lavorare a una soluzione politica che garantisca una prospettiva di pace e stabilità.
Un’altra volta, dunque, l’umanità si trova di fronte a un bivio. Sceglierà la strada dell’indifferenza, voltando lo sguardo dall’altra parte, oppure troverà il coraggio di agire, dimostrando che la solidarietà non è un’utopia, ma un imperativo categorico?
Foto di Renato Ferrantini
L’autore:Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce
il presidente Mattarella visita la mostra su Marco Polo a Pechino
Il presidente Mattarella ha incontrato il presidente Xi Jinping a Pechino. Il capo dello Stato è arrivato il 7 novembre in Cina per una missione che punta a riequilibrare i rapporti bilaterali dopo l’uscita dell’Italia dalla Nuova via della seta. L’8 novembre Mattarella ha visitato la mostra “Viaggio di conoscenze. Il Milione di Marco Polo e la sua eredità fra Oriente e Occidente” nel World Art Museum di Pechino.
Ecco il profilo di Marco Polo tracciato per Left dal sinologo Federico Masini, docente de La Sapienza
Il presidente Mattarella a Pechino
Chi era costui? Chi non ha mai sentito questo nome? In qualunque città del mondo forse esiste almeno un albergo, una agenzia di viaggio o una libreria che porta il suo nome. Ma come è stato possibile per questo italiano del Duecento, mercante veneziano, di diventare uno degli italiani più famosi al mondo? Più famoso di Leonardo o Cristoforo Colombo? Si il più famoso, secondo solo – forse – a Dante Alighieri, che pure aveva scritto davvero una formidabile opera letteraria, dando vita ad una lingua nuova.
Marco Polo era nato a Venezia nel 1254; quando aveva sette anni, nel 1261 suo padre Niccolò, in compagnia dello zio Matteo partirono per uno dei tanti viaggi che a quel tempo i mercanti veneziani compivano lungo le coste del Mediterraneo fino a sbarcare in Medio Oriente, per poi da lì spingersi nel continente, attraversare la Persia e il Karakorum fino a raggiungere i confini dell’impero cinese, dove i mongoli stavano insediando la loro dinastia Yuan (1279-1368). Durante il Duecento i mongoli avevano conquistato tutte le vastissime praterie che separano l’impero cinese dai confini dell’Occidente cristiano, fermandosi alle porte di Vienna nel 1242. Gengis Khan aveva fondato il più vasto impero della storia dell’uomo e suo nipote Kublai Khan, oltre a controllare l’impero cinese, tentò di espandersi anche verso sud in Vietnam e condusse due tentativi, falliti, di invadere perfino il Giappone, unico caso in tutta la storia millenaria di quell’impero.
L’Asia centrale era talmente pacificata, che gli storici hanno parlato di Pax Mongolica, per indicare che, per oltre un secolo, tutto quel grande continente era governato da un unico regno, capace di assicurare via di comunicazione e scambi come mai era accaduto prima nella storia. Forse insieme al breve periodo della Pax Romana, fu questa uno dei primi casi di globalizzazione delle vie terrestri del continente euroasiatico. Famosa la frase di uno scrittore del Seicento: “una vergine con un piatto d’oro poteva girare indisturbata da un angolo all’altro dell’impero”. Sicuramente esagerata, ma certamente sensazionale.
Cosa spingeva al viaggio a quell’epoca? Pochi forse erano quelli che si imbarcavano in viaggi così lunghi e pericolosi come free rider; due erano i principali motivi per viaggi così rischiosi: diffondere la propria religione e quindi estendere il proprio potere politico, oppure il commercio, la mercatura.
Marco Polo in costume tartaro
La religione è stata nella storia uno dei grandi motori delle conquiste più violente; era accaduto con gli arabi che un secolo esatto dalla morte di Maometto dal 632 al 732 avevano conquistato tutto il sud del continente euroasiatico, dall’Arabia alla Persia, il Medio Oriente, la sponda meridionale del Mediterraneo e poi la Spagna fino alla famosa battaglia di Poitiers, quando furono fermati dai Franchi; poi ben otto sanguinose Crociate cristiane, dal 1095 al 1274. Lo stesso accadde con i Mongoli, nel Duecento, e sarebbe successo ancora nella storia dopo la scoperta dell’America: la religione come pretesto per conquistare nuove terre e nuove risorse.
Anche nel Duecento, approfittando della Pax Mongolica, il Papato di Roma, inviò suoi rappresentanti in Asia centrale fino a raggiungere la capitale dell’Impero mongolo Kambaluc, l’odierna Pechino. Abbiamo i nomi e qualche documento che ci hanno lasciato alcuni missionari cristiani, come Giovanni da Montecorvino e Andrea da Perugia, Odorico da Pordenone, che scrisse una Brevis Relatio e Giovanni de’ Marignolli che compose Chronicum Bohemicum. Lo scopo di questi viaggi era sondare la disponibilità dei potenti mongoli ad una alleanza per il controllo del sud del mondo, dominato dai musulmani. In questi testi troviamo qualche informazione dei mongoli, la più curiosa è forse la notizia che usavano il papirum pro latrinis, la carta igienica, evidentemente ancora sconosciuta in Europa a quel tempo. Ma erano racconti e notizie scritte in latino che ebbero poca circolazione. Ancora meno sappiamo dalle decine di mercanti italiani che sappiamo viaggiarono fino in Cina in quell’epoca: Andalò da Savignone, Pietro Lucalongo, Luchetto Duodo, Giovanni e Franceschino Loredan e una intera famiglia Viglione di cui sono state ritrovate le lastre tombali nel sud della Cina. Pechino o meglio Kambaluc, ospitava una piccola comunità italiana; connazionali che si spingevano fin laggiù alla ricerca di quelle merci pregiate per le quali i cinesi erano famosi in Occidente fin dall’epoca dell’Impero Romano. Prima di tutto la seta, quel meraviglioso filato di cui i cinesi riuscirono custodire il segreto per centinaia di anni, fin quando i primi bachi furono trafugati a Costantinopoli per ordine dell’imperatore Giustiniano intorno al 550 d.C. e la sua produzione si diffuse rapidamente in Europa.
Arrivavano dall’Oriente anche spezie e pietre preziose, come era accaduto nei secoli precedenti, forse nei millenni precedenti, lungo quel reticolo di vie carovaniere, che solo nel Ottocento è stata per la prima volta indicata come Via della Seta. Le merci e le persone viaggiavano per tratti più o meno brevi, forse il viaggio nei secoli precedenti era stato troppo difficile e quindi i mercanti ne compivano solo brevi tratte, preferendo scambiare le loro merci e tornare indietro, piuttosto che compiere direttamente tutto il lungo tragitto dalle coste del Mediterraneo alla Cina estrema. Grazie alla Pax Mongolica, invece, fu più facile tentare di compiere tutto il viaggio e così svariati o forse tanti poterono viaggiare da un capo all’altro del continente. Tutta questa è storia dei commerci e delle idee. Merci che vanno e vengono, forse idee e religioni che si incrociano, senza però che resti una traccia nella storia tramandata ai posteri; ci restavano solo i manufatti, le pietre, la seta, forse l’oro; alcune idee venute dall’Oriente attecchirono in Occidente: in fondo il Cristianesimo è pieno di miti di origine orientale.
Disponevamo di alcune informazioni su questi viaggi, scritti in latino dai religiosi o in altre lingue su tratte di questa imponente rete di vie di comunicazione. Ma mai un viaggiatore europeo aveva voluto raccontare tutto il suo viaggio e forse non c’è di che meravigliarsi di questo. Perché un mercante avrebbe dovuto raccontare dove faceva i migliori acquisti o dove conveniva scambiare pietre o oro per sete e broccati, fornendo così alla concorrenza informazioni preziose? Inoltre, se lo avesse scritto forse sarebbe stato solo un noioso elenco di posti e di merci, un prontuario o poco più.
Marco Polo, partito nel 1271 che era appena un ragazzo di diciassette anni, arrivò in Cina tre anni dopo e vi risiedette per oltre vent’anni, viaggiando in lungo e in largo per tutto l’impero. Tornò a Venezia nel 1295, seguendo la via marittima, dal sud della Cina attraverso lo stretto di Malacca, la Penisola Indiana e il Golfo Persico. Evidentemente aveva ancora voglia di viaggiare e di fare, se già l’anno dopo prese parte alla battaglia di Curzola, nella costa dalmata, dove la flotta della Repubblica di Venezia si scontrò con quella di Genova per il predominio sui commerci nel Mediterraneo. La Repubblica di Genova aveva già sconfitto Pisa ed ebbe la meglio. Marco fu condotto a Genova e tradotto nelle carceri di San Giorgio. Viaggiò come prigioniero facendo tutto il giro della penisola italiana per essere incarcerato. La storia ci racconta, che in una cella incontrò un altro prigioniero, il pisano Rustichello, che di professione scriveva racconti nella lingua letteraria dell’epoca, una sorta di franco-italiano, una combinazione di parole francesi ordinate secondo la sintassi del veneto.
La tradizione narra che così nacque il primo best-seller non religioso della storia occidentale. Il suo primo titolo su forse Le devisement dou monde o La descrizione del mondo. La stampa da noi non era stata ancora inventata e così questo racconto fantastico di un viaggio incredibile attraverso l’Europa e l’Asia, incontrando popoli e razze così diverse, ebbe un successo inimmaginabile, diventando la base per un’infinità di versioni diverse di quel sogno. Oggi, gli studiosi contano oltre centosettanta versioni differenti del libro, del quale, ovviamente, si è perso il testo originale; ciascuna scritta in diverse lingue e con particolari differenti. Come scrisse il grande storico francese Le Goff, il libro di Marco Polo trasformò l’Asia nello «l’orizzonte onirico dell’Europa».
Negli stessi anni in cui Dante Alighieri terminava la sua Commedia, divina, perché bellissima e perché in grado di contenere al suo interno tutto lo scibile dell’antichità classica e del cristianesimo, Marco Polo con Rustichello regalavano al mondo occidentale il sogno che potessero esistere altri mondi diversi: Paesi in cui le donne sceglievano i loro mariti, dopo averne conosciuti tanti; mondi in cui circolavano fogli di carta che valevano come le monete d’oro; popoli piissimi, ma che praticavano altre religioni. Dante Alighieri e Marco Polo erano a Venezia nel 1321, forse si incrociarono in una calle buia, ma certo si ignorarono; uno aveva deciso di viaggiare nella storia del passato, in verticale nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, l’altro, invece, aveva viaggiato veramente in orizzontale sulla terra, verso il futuro.
Famosissimo alla sua epoca e ispiratore del viaggio di Colombo che, giunto ai Caraibi, pensa di sbarcare per incontrare il Gran Khan, il Milione (Einaudi) di Marco Polo da romanzo fantastico diventa, durante il Cinquecento e il Seicento, libro di storia, riferimento geografico. È solo alla fine dell’Ottocento che il Regno d’Italia, alla ricerca che miti e personaggi, riscopre Marco Polo, come campione dell’esploratore italiano. In pochi decenni si impone come un mito, prima italiano e poi, grazie soprattutto agli inglesi, come una icona della globalizzazione.
Marco Polo diventa così l’immagine del viaggiatore curioso, aperto e disponibile, né condottiero, né missionario: non vuole convincere nessuno delle sue idee, ma resta a bocca aperta dinnanzi alle differenze; non lascia a casa una moglie frustata come il grande Ulisse al quale era invece consentito tutto, Marco viaggia, conosce e racconta con passione il mondo. Non contano coloro che fecero il viaggio come lui o prima di lui, ma egli fu il primo a raccontarlo in modo da contribuire all’apertura delle menti dell’uomo moderno.
Non basta scoprire ma bisogna anche sapere raccontare e tramandare, cosicché anche altri possano fare i tuoi stessi sogni.
Zoran-Mušič_Storia-di-Marco-Polo.(1951)
Marco Polo 700 a Venezia Le mostre
Con le celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Marco Polo, Venezia diventa sempre più il luogo dell’incontro con altre culture. L’evento di punta di “Marco Polo 700” è la mostra promossa da Fondazione Musei civici a Palazzo Ducale dal 6 aprile al 29 settembre. I mondi di Marco Polo. Il viaggio di un mercante veneziano del Duecento presenta oltre 300 opere provenienti da collezioni veneziane, italiane e prestiti dei musei dell’Armenia, Cina, Qatar e Canada. Opere d’arte, reperti, manufatti (come la scatola in argento sopra), che permettono di compiere idealmente lo stesso viaggio del mercante veneziano. Palazzo Mocenigo ospiterà dal 29 aprile al 30 settembre una selezione di abiti di scena e bozzetti, protagonisti dello sceneggiato Rai Marco Polo del 1982. L’Università Ca’ Foscari dedicherà nel corso del 2024 numerosi contributi scientifici alla figura di Marco Polo, tra cui la prima edizione digitale in inglese de Il milione. Tutte le iniziative pubbliche di carattere scientifico, espositivo, letterario, culturale, si possono seguire nel sito leviedimarcopolo.it
L’autore: il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e Letteratura cinese all’Università La Sapienza di Roma. È autore del podcast di Storie diplomatiche Marco Polo, chi?.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni – probabilmente credendo di essere simpatica – in diretta radiofonica durante la trasmissione Un giorno da pecora di Rai Radio 1 ha inviato un messaggio in cui dice di stare male ma di essere costretta a lavorare perché non ha “particolari diritti sindacali”.
La battuta sarebbe già di cattivo gusto così. Meloni, a differenza dei 3 milioni di italiani, il 13% del totale, non ha il problema di tornare a casa povera anche dopo un’estenuante giornata di lavoro. Sono persone che hanno una retribuzione annuale uguale o inferiore ai 6.000 euro, a cui andrebbero aggiunti altri 3 milioni di lavoratori irregolari e in nero.
Meloni, pur lavorando, potrà fare visite e accertamenti medici, al contrario di circa 4,5 milioni di italiani che hanno rinunciato a visite o accertamenti medici nel 2023 per l’incremento delle liste d’attesa, difficoltà di accesso ai servizi sanitari e problemi economici.
Ma i “diritti sindacali” a cui fa riferimento la presidente del Consiglio sembrano essere una stilettata allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil per il prossimo 29 novembre contro la legge di Bilancio del governo. Quando il segretario della Cgil Maurizio Landini ha detto che è «il momento di una vera rivolta sociale», Fratelli d’Italia l’ha avvisato di «stare molto attento», minacciando addirittura azioni legali.
La “febbre” di Meloni è stata la scusa per non incontrare i sindacati nei giorni scorsi. La sua battuta di ieri è stata l’infantile vendetta. Voleva essere simpatica, Meloni, e invece ha dimostrato per l’ennesima volta di essere maestra del gnegneismo, sconnessa dalla realtà e sana solo al cospetto di Orbàn impegnato nel baciamano.
Buon venerdì.
Nella foto: La presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il primo ministro ungherese Orbàn al vertice europeo a Budapest, 7 novembre 2024
Che la Legge Bossi-Fini sia al capolinea lo sanno tutti. L’immigrazione, del resto, è l’argomento su cui si identificano destra e sinistra in ogni Paese, è il perno su cui gira in ogni latitudine uno dei temi sociali più divisivi della nostra epoca. Per fare presa sul popolo basta dirsi paladini dei muri, dei blocchi navali o dei respingimenti e si va dritti in cima ai sondaggi. Che poi, una volta al potere, i muri dei sovranisti si sgretolino, i blocchi navali dei nazionalisti si sciolgano, i respingimenti dei conservatori evaporino, non attenua il consenso perché è sempre colpa di qualcun altro se le misure antistraniero non funzionano e si richiede al popolo di rafforzare la determinazione per arrivare o mantenere la vittoria.
Coloro che fanno notare come le immigrazioni siano un fenomeno universale che coinvolge da sempre milioni di persone ogni anno e in ogni continente, vengono trattati come nemici della patria. Quelli che ricordano come il tentativo di bloccare l’immigrazione sia velleitario come provare ad asciugare il mare col cucchiaio, sicché sarebbe meglio gestirlo piuttosto che esorcizzarlo, tanto più in quelle società che per motivi economici e demografici se ne avvantaggiano, vengono bollati come traditori delle patrie tradizioni.
Uno degli strumenti che più contribuisce in Italia a diffondere la paura dello straniero è la criminogena Legge Bossi-Fini che “crea” letteralmente l’immigrato clandestino.
La Legge Bossi-Fini 189/2002 sostituì la precedente legge Turco-Napolitano 40/1998 – che a sua volta aveva sostituito la Legge Martelli del 1990 – per dimostrare che la destra era capace di arrivare con l’immigrazione lì dove non era stata capace la sinistra. Il rincorrersi delle date di adozione delle normative manifesta come il fenomeno dell’immigrazione sia in continua espansione da almeno trent’anni, sicché ogni governo ha provato ad arginarlo a modo suo, ma nessuno aveva mai pensato di fronteggiarlo con una palese finzione così come fecero Fini, vicepresidente del Consiglio dei ministri, e Bossi, ministro per le Riforme istituzionali e la devoluzione nel governo Berlusconi II (2001-2005).
Di sensato la Legge Bossi-Fini aveva una vasta sanatoria e l’inasprimento delle pene per i trafficanti di esseri umani. Ma in negativo concedeva il permesso di soggiorno solo se legato ad un rapporto di lavoro già avviato.
È stato quest’ultimo il punto dolente della legge che ha fatto fallire tutte le politiche migratorie nei trascorsi vent’anni perché pretende: che un datore di lavoro assuma uno straniero sconosciuto residente nel suo Paese di origine; che il datore di lavoro non eserciti alcuna pressione sul lavoratore minacciandolo di licenziamento se non accetta formalmente uno stipendio superiore a quello effettivo o svolgendo un orario di lavoro superiore a quello contrattuale; che nessuno si finga datore di lavoro, sia pure solo per pietà, verso quell’immigrato che, di fatto, continua a lavorare in nero per qualcun altro. Si tratta solo di alcuni esempi delle finzioni ispirate dall’infelice regola della Legge Bossi-Fini per ottenere e mantenere il permesso di soggiorno. Ma ancora peggio sono state le conseguenze per coloro che hanno perso il lavoro e non sono stati in grado di recuperarlo entro sei mesi finendo in clandestinità per la perdita del permesso di soggiorno. Un gioco dell’oca: perso il lavoro, perdi il permesso di soggiorno e, senza permesso di soggiorno, non puoi trovare un nuovo lavoro. L’unico sbocco in questi casi è la clandestinità, finire sfruttati per ore ed ore dai caporali come braccianti nei campi, sottopagati e senza alcuna tutela; dedicarsi alla microcriminalità; venire reclutati da bande criminali di ogni risma per essere destinati allo spaccio, ai racket delle estorsioni e delle intimidazioni, così avvitandosi in situazioni di irregolarità impossibili da superare trovando un lavoro normale. Il contrario dell’immigrazione regolare che la legge prometteva di garantire.
Ma la finzione più grande della Legge Bossi-Fini è quella di intendere i confini impermeabili all’immigrazione laddove vengono bucati continuamente senza considerare che i nuovi arrivi spesso non si fermano in Italia ma proseguono verso altri Paesi europei dove l’accoglienza ha un significato da noi ancora sconosciuto. Tanto è vero che l’Italia, in aggiunta ai clandestini, vara ripetutamente ampi decreti flussi con i quali stabilisce quote di ingressi, suddivisi in vari Paesi, in base alle interlocuzioni avviate con le categorie produttive alle quali la manodopera non basta mai.
Poiché uno Stato per essere credibile non dovrebbe affidare le sue leggi a puerili finzioni, sarebbe bene che si abolisse la legge Bossi-Fini per adottare una nuova normativa che, traendo insegnamento dall’esperienza del passato, adottasse un “permesso temporaneo di soggiorno” per la ricerca di occupazione favorendo l’incontro tra datori di lavoro e lavoratori non comunitari. Inoltre, appare opportuno ripristinare la chiamata diretta con la figura dello sponsor – già previsto dalla Legge Turco-Napolitano – per l’inserimento nel mercato del lavoro di stranieri a cui siano garantite risorse finanziarie e alloggio durante la permanenza in Italia, agevolando chi abbia già avuto precedenti esperienze lavorative o abbia frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale. Sarebbe anche utile prendere spunto dalle esperienze di Spagna e Germania adottando un “permesso di soggiorno per comprovata integrazione”, rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro e destinato a coloro che pur irregolari, possano dimostrare l’esistenza di un’attività lavorativa o comprovati legami familiari. Tale “permesso di soggiorno per comprovata integrazione” dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro alle condizioni già previste per il “permesso in attesa di occupazione” e nel caso in cui lo straniero, in mancanza di un contratto di lavoro, dimostrasse di essersi registrato come disoccupato, aver reso la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego. Potrebbe prevedersi, inoltre, la possibilità di trasformare il “permesso di soggiorno per richiesta asilo” in “permesso di soggiorno per comprovata integrazione” anche nel caso del richiedente asilo che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione.
Sembrano soluzioni ragionevoli e sono già state oggetto di ampi studi e proposte nell’ambito dell’iniziativa “Ero straniero” che, con la raccolta popolare di oltre 90 mila firme in sei mesi, ha potuto presentare un’apposta proposta di legge in Parlamento il 27 ottobre 2017, poi travolta dallo spirare di quella legislatura. Ci riprova adesso il Partito democratico con una proposta di legge appena depositata in Senato dal primo firmatario Graziano Del Rio ed illustrata nella Sala David Sassoli al Nazzareno lo scorso 17 ottobre. La ragionevolezza vorrebbe che anche il centro destra convenisse su queste proposte, tanto più la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha già detto che la Legge Bossi-Fini deve essere superata affidandone le ipotesi di modifica ad Alfredo Mantovano.
Dunque, perché tardare ancora a discuterne col rischio che aumentino i Satnam Singh che ci hanno strappato lacrime di rabbia e di pietà la scorsa estate.
L’autrice: Shukri Said è presidente della associazione Migrare, su Radio Radicale conduce la trasmissione Africa Oggi
Nella vittoria di Trump Elon Musk non è solo l’imprenditore eccentrico e visionario, è il miliardario che ha trasformato la sua influenza in un motore politico capace di spostare masse e determinare risultati.
Con la sua super PAC “My America PAC” — un comitato di azione politica che può raccogliere e spendere somme illimitate di denaro per sostenere candidati senza coordinarsi ufficialmente con le loro campagne — Musk ha diretto l’operazione di mobilitazione elettorale più massiccia mai vista, spendendo oltre 175 milioni di dollari per raggiungere quasi 11 milioni di elettori nelle zone chiave. Mentre Trump affidava il suo destino politico a un outsider, Musk dettava le regole di un gioco che la democrazia americana stenta a riconoscere. Canvassers, ossia volontari o professionisti incaricati di contattare gli elettori porta a porta, venivano pagati, con bonus per reclutare voti, persino incentivi economici mascherati da appelli al patriottismo: tutto pur di accendere un riflettore su un sistema dove la voce di chi ha denaro urla più forte di quella degli elettori.
Il connubio tra Trump e Musk non è solo un’alleanza elettorale. È la prova che la politica si è fatta spettacolo per pochi ricchi protagonisti, e Musk – con la sua piattaforma X trasformata in megafono personale – ne è il regista e attore principale. Le tattiche sfacciate, dagli incentivi al controllo delle operazioni sul campo, mostrano come le campagne politiche si stiano trasformando in laboratori per esperimenti finanziati da miliardari.
“Una stella è nata”, ha detto Trump tra applausi e sorrisi, mentre Musk pianificava già le prossime mosse per influenzare le elezioni di midterm. E così, in un’America sempre più strattonata tra potere e capitale, resta una domanda inquietante: quanto è lontana la democrazia quando la politica diventa l’affare personale dei miliardari?
la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il segretario generale della Nato Marc Rutte
Il governo Meloni, che da oltre due anni è alla guida del Paese, sta rivelando alcuni dei suoi limiti: da un lato, è privo di una strategia efficace per affrontare i problemi economici dell’Italia; dall’altro, manifesta tendenze di compressione dello stato di diritto che rischiano di compromettere le libertà individuali, di limitare il dissenso e ridefinire lo spazio democratico.
Nonostante questo, il consenso al governo non sembra arretrare, forte di un impianto ideale ben radicato nell’immaginario italiano. Si basa su concetti identitari, come il patriottismo nazionalista, la difesa della famiglia tradizionale e un’immagine di governo decisionista. Tuttavia, questi valori spesso risultano incoerenti nella pratica dell’iniziativa governativa.
Il governo, infatti, non sembra avere un piano concreto per contrastare la crisi economica che affligge il Paese. Dal 2022, il settore manifatturiero ha registrato una contrazione significativa, con cali drastici in comparti chiave come quello tessile, metallurgico e automobilistico. Anche l’apparente crescita dell’occupazione è illusoria, poiché molte aziende, piuttosto che investire in innovazione e produttività, hanno preferito puntare su forza lavoro a basso costo.
Davanti a questa crisi, Meloni appare priva di soluzioni reali: il suo esecutivo si è presto allineato alle compatibilità neoliberiste, senza proposte di riforme strutturali, né misure redistributive significative. Le politiche di austerità e il taglio dei servizi pubblici restano invariati, con un crescente distacco degli interessi economici da quelli sociali.
In questo contesto, il governo ha spostato il proprio focus sulle misure di sicurezza e controllo sociale, che comprimono lo spazio delle libertà e dei diritti individuali e aggravano la repressione di comportamenti rappresentati come minacciosi per l’ordine pubblico. È stato così con il decreto Rave e il decreto Caivano. Lo è ancor di più oggi con il disegno di legge 1660.
Il Ddl 1660 o pPacchetto sicurezza” – ma che sarebbe opportuno chiamare ddl “Piantedosi” – rappresenta un salto di scala di questa deriva. Basti pensare alla riformulazione del reato di lesioni lievi o lievissime ad agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, che comporterebbe l’aggravamento delle pene, con l’aumento della custodia cautelare e della cosiddetta “flagranza differita”. Strumenti che rispondono a una concezione autoritaria dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, piuttosto che a reali esigenze di garanzia processuale.
L’orientamento complessivo del Ddl 1660 rivela intenti repressivi che non colpiscono solo coloro che adottano comportamenti classificabili come “violenti”: la criminalizzazione del blocco stradale o della resistenza passiva, specie in caso di rivolte nelle carceri o nei Cpr – luoghi in cui le condizioni di vita sono sempre più insostenibili – è infatti concepita per colpire coloro che esprimono dissenso o disagio, anche in modo pacifico.
La deriva autoritaria di Meloni non è isolata e si inserisce in una tendenza globale che spinge gli Stati occidentali verso forme di governance che concentrano il potere e limitano la partecipazione democratica. Il capitalismo contemporaneo sembra poter e voler fare a meno della democrazia per accumulare e prosperare.
Questa evoluzione potrebbe trasformare la democrazia in un retaggio del secolo scorso, sostituendola con un sistema in cui i cittadini diventano spettatori passivi. Le forze alternative, prive di una visione di società, sembrano limitarsi a un’opposizione di facciata, spesso esitanti nel proporre risposte radicali, per paura di apparire troppo estreme.
La battaglia parlamentare offre ancora uno scorcio per tentare di bloccare o apportare significative modifiche al pacchetto sicurezza. Se, però, i numeri della maggioranza saranno schiaccianti, cosa dovrà aspettare l’opposizione per bloccare i lavori parlamentari? Cosa altro deve accadere? In questo senso è importante e sarà fondamentale partecipare e costruire un’opposizione sociale che sia in grado di rivendicare e difendere gli spazi della democrazia.
Perché se il pacchetto verrà approvato, servirà un impegno immediato nel programma di governo delle forze di alternativa per riportare il diritto al dissenso nell’alveo della Costituzione. Accettare la deriva autoritaria vorrebbe dire, infatti, assumersi il rischio che la destra continui, passo dopo passo, a ridurre lo spazio democratico, avvicinando l’Italia a un modello di “post-democrazia” occidentale.
Ora che il risultato delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti è certo, possiamo tracciare un primo quadro di quanto possiamo aspettarci da una seconda amministrazione Trump sulla base di dichiarazioni e intenzioni già esposte da Donald Trump stesso e dai suoi collaboratori più stretti.
In politica interna, il quadro è fosco. Trump è intenzionato a subordinare alla Casa Bianca il dipartimento di Giustizia, utilizzandolo come strumento contro avversari politici, rilanciando su scala molto più grande una pratica già sperimentata durante il suo primo mandato. Il neo-presidente e i suoi collaboratori presteranno anche grande attenzione a riempire l’amministrazione federale, almeno in posizioni chiave delle varie agenzie governative, con personale selezionato sulla base del criterio della fedeltà a Trump. Quest’ultimo è un aspetto centrale dell’informale agenda di governo per un secondo mandato Trump, nota come Project 2025, preparato dal think tank ultra-conservatore Heritage Foundation.
L’ex e prossimo nuovo presidente ha anche più volte espresso la convinzione che sia necessario usare la Guardia Nazionale o anche le stesse forze armate contro i “nemici interni”, una qualifica dai contorni non definiti che però lascia intendere un potenziale uso arbitrario delle forze di sicurezza contro avversari politici o cittadini che protestano. Non è il caso di immaginarsi le forze americane trasformarsi in una Gestapo che opera razzie notturne. Ma è un segnale inquietante di una potenziale riduzione delle libertà civili di protesta. Del resto Trump ha anche dichiarato di volere agire contro i dispensatori di fake news, ovvero i media non allineati, sebbene non sia certo in che modo e con quale efficacia il governo federale potrà limitare un diritto tanto garantito in America (dalla Costituzione, i tribunali e i singoli stati, oltre alla società civile) come quello della libertà di stampa.
Sul fronte dell’immigrazione, Trump ha già espresso l’intenzione di costruire campi di detenzione per immigrati irregolari in attesa di deportazione, anche se l’obiettivo espellere tutti gli 11-12 milioni di migranti irregolari resta chiaramente fuori portata.
Già durante il suo primo mandato, Trump ha nominato un numero significativo di giudici federali conservatori, e continuerà a farlo almeno nei prossimi due anni grazie al fatto che i Repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Senato, a cui spetta l’autorità di approvare le nomine presidenziali per le corti federali.
In politica economica, non è da escludersi lo smantellamento delle misure a sostegno dell’industria verde previste dall’Inflation Reduction Act, che ha introdotto sgravi fiscali e investimenti del valore di centinaia di miliardi di dollari per favorire la transizione verso tecnologie a impatto ambientale zero o ridotto. Trump favorirà senz’altro l’industria del fossile. Trump continuerà con la tradizionale politica dei Repubblicani di tagliare le tasse – in particolare alle aziende – con beneficio soprattutto per le classi sociali più alte, nonché di deregolamentare la finanza e impedire la regolamentazione del settore high tech, almeno delle compagnie allineate. È in questo senso anche che vanno lette le partnership molto strette fra Trump ed Elon Musk, proprietario di X (ex Twitter); SpaceX, Spacelink e Tesla, e tra il vicepresidente in pectore JD Vance e Peter Thiel, proprietario di Palantir (società di analisi di big data di cui si servono il Pentagono, la Cia e numerose aziende private).
Sul piano internazionale, Trump sembra intenzionato a perseguire un aggressivo protezionismo, imponendo tariffe generalizzate sulle importazioni del 10-20%, con percentuali particolarmente alte sui beni cinesi (dal 60% in su addirittura).
Quanto alla crisi in Ucraina, i consulenti di politica estera del presidente in pectore parlano di una manovra ‘a tenaglia’ per forzare Russia e Ucraina al tavolo dei negoziati, minacciando la prima di aumentare gli aiuti a Kyiv e la seconda di interromperli. Quale accordo possa venirne fuori è incerto, se non che alla Russia verrebbe lasciato il controllo di fatto dei territori ucraini che ora occupa e all’Ucraina imposta la neutralità. Non è chiaro se gli Stati Uniti sarebbero disposti a fornire ulteriori assistenze militari all’Ucraina come garanzia del mantenimento dell’accordo, cosa che a prima vista sembrerebbe naturale. Altrettanto incerta è la posizione sulle sanzioni a Mosca. Naturalmente, questa è solo un’ipotesi speculativa, tanto più che né l’Ucraina né soprattutto la Russia sembrano al momento orientate al negoziato, la prima per evitare una sconfitta e la seconda per ottenere una vittoria più larga ancora.
In Medio Oriente, Trump sembra incline a offrire al premier israeliano Binyamin Netanyahu carta bianca su Gaza, Libano e forse anche verso l’Iran, purché ciò non porti a un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.
La politica nei confronti della Cina prevede, oltre alle tariffe, controlli all’esportazione in Cina di tecnologie avanzate e pressioni sugli alleati in Asia ed Europa per ridurre i legami economici e tecnologici con Pechino. Tuttavia, non è scontato che Trump sia disposto rafforzare in maniera significativa la deterrenza militare nella regione indo-pacifica a tutela degli alleati e soprattutto Taiwan, l’isola di fatto indipendente che però la Cina rivendica come parte del suo territorio nazionale.
Infine, in Europa, Trump cercherà rapporti bilaterali con i singoli Paesi, applicando tariffe differenziate e incentivando un incremento della spesa militare europea indirizzato all’acquisto di armamenti americani. Al contempo, è plausibile che promuova forze di destra che condividono una visione “nativista” dell’Occidente come entità culturalmente radicata nelle tradizioni europee e cristiane (e implicitamente bianche), invece che come una comunità ideale che ha definito e promosso valori come democrazia, stato di diritto, inclusività e autonomia della scienza dalla religione e dalla politica.
È bene concludere con un avvertimento: la realtà sarà immancabilmente diversa da quanto riportato sopra. Queste sono riflessioni istantanee elaborate sulla base delle dichiarazioni di Trump e dei suoi collaboratori il cui scopo è offrire una mappa di quanto potrebbe accadere nei prossimi quattro anni. Come recita un proverbio di dubbia attribuzione, “infelice chi vive in tempi interessanti”.
l’autore: Riccardo Alcaro è coordinatore delle ricerche e responsabile del programma “Attori globali” dello IAI. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo