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Buongiorno, notte

Buongiorno, notte. Donald Trump è il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. Ha appena dichiarato che aiuterà “il Paese a guarire”, ringraziando il miliardario fondatore di Tesla, Elon Musk, definendolo «una stella, un genio».
Trump ha vinto, puntando sui suoi bersagli di sempre: omosessuali, migranti, poveri (anche quelli che ha illuso con guerre tra disperati), donne e giornalisti. Ma, soprattutto, la vittoria di Trump racconta il divario tra il Paese e chi prova a descriverlo.
Trump ha trionfato grazie a coloro che per mesi hanno tentato di convincerci della lucidità e salute di Joe Biden, per poi sostituirlo di corsa, avallando narrazioni che chiamavano “complottiste.”
Trump ha vinto per chi costruisce campagne elettorali sul “meno peggio” e scivola nel peggio. Ha vinto perché per molti l’erosione dei diritti è un boccone ghiotto, una deriva reazionaria che tenta gran parte dell’elettorato conservatore.
Mentre Trump trionfava, in Arizona i “sì” vincevano al referendum per estendere il diritto all’aborto.
Trump ha vinto anche per colpa di una stampa Usa – come quella italiana – affondata nella perdita costante di credibilità. La sua vittoria rappresenta il trionfo del consumismo informativo, una gigantesca eco di complotti amplificati.
Questa vittoria trasforma gli Usa nella prima grande teocrazia occidentale, mentre per anni si sono occupati di quelle degli altri. Buongiorno, notte. La strada davanti è lunga, ed è buia.

Buon mercoledì.

 

«Dolce sirena che vieni dal mare, lasciati amare…» La malìa di Parthenope

Chi glielo spiega a Vittorio De Sica che non ha speranze con la Loren ai Bagni della Regina Giovanna? Parthenope se la sogna quell’immediatezza naïve, ma che importa? È primo al box office quale migliore apertura di un film drammatico in Italia nel post pandemia. Paolo Sorrentino non ha interesse alcuno verso la realtà. È un poeta. E i poeti, si sa, sono «strane creature, ogni volta che parlano è una truffa». Perché «Napoli è un luogo comune – un’idea ricevuta – ma talmente comune da essere patrimonio dell’umanità». Francesco Durante citava “La nemesi del sole” di Mozzillo e pure Flaubert: «Si vous causez avec des savants, dire Parthénope. Voir Naples et mourir!».
Al regista premio Oscar interessa il disincanto di stare al mondo. La vita è breve per darsi spiegazioni. Un adagio popolare sostiene da sempre che “’a jurnata è nu muorzo”. E i morsi sono avidi. Non si possono gustare, manca il tempo. Sono permessi appena rapidi tentativi. L’esperienza arriva tardi. Quando saremo vampiri vagamente innocui. Non è mica un caso che a Capri spunti Gary Oldman? I giovani, intanto, sputano sentenze. Forse non dovrebbero. Certo, Celeste Dalla Porta è un caso a parte. È il vicino di casa “mostro” di Troisi in Ricomincio da tre. Bella, sensuale, ricca, elegante. Parla inglese, piglia la lode col bacio accademico. Pare “Wonder Woman” quando pagaia in kayak che nemmeno i fratelli Abbagnale… Alter ego immaginario dell’autore senza giovinezza, somiglia a zia Patrizia del capitolo precedente. La sofferenza di campare la smezza col fratello.
The dreamers incontra Io ballo da sola all’ombra del Vesuvio, dunque. La Capria e Bertolucci dentro a un unico pensiero. Agli spasimanti incerti non rimane mai speranza. Figuriamoci alle caricature in carne e ossa. Il comandante Achille Lauro, la controfigura di Agnelli, lo “scendiletto” liceale (altro che “friendzone”) di Gloria Guida. Ecco, andrebbe allargata l’esistenza. Altrimenti “si esce pazzi”. Specialmente se papà (che bravo Lorenzo Gleijeses!) è il nipote del professore Gennaro Bellavista. La risposta starebbe già in casa. Chi se ne frega, quindi, se Dio non ama il mare? Il sacro è profano. Lo cerchiamo tra le cosce come Tesorone. Peppe Lanzetta è il migliore. Diventa vescovo, mica lo interpreta? Col suo ingresso la storia s’accende. Fa uscire “Tony Pisapia” dal carcere. Qualcuno l’aveva cercato sul lungomare di Torre del Greco.
Il resto è mancia di lusso. Mette a pensare coi riferimenti. Il “funeralino” di un altro Marotta a via Caracciolo.
Gino Paoli strazia meglio di Cocciante («Da Gesù fino ai cantautori») che però con “Celeste nostalgia” calava il sipario a “Sapore di mare” dei Vanzina; la bocca della Ferrari è un atto di fede. Mentre la parrucca di Luisa Ranieri (divertente, sguaiata, irriverente) non ricorda Sophia ma Angela Luce coi capelli di Milva. Poi, ancora, Billy Wilder, “Il Segno di Venere” e “Cerasella”. Giuliana De Sio e Lina Sastri nei bassifondi di “Se lo scopre Gargiulo” e “Mi manda Picone”. Le montature degli occhiali. I Brionvega, La Honda e le Canon. Canale 21 e Angelo Manna. Fred Bongusto negli studi medici con le sedie verde pisello. Le mollette di legno coi fogli a macchina. Silvio Orlando antropologo dimesso che stavolta parla con gli occhi. Chissà se avrà conosciuto Thomas Belmonte? Le ricostruzioni d’epoca sono davvero sontuose. La fotografia di Daria D’Antonio è meravigliosa, vale da sola il prezzo del biglietto
E una volta fatto un lungo respiro chi non comprende è compreso. La copula camorristica, il bimbo Michelin rabelesiano, la cadenza dialettale forzata, i panari con le bacinelle azzurre, lo scudetto della squadra di calcio, l’annusata di mutande, la sigaretta tra i denti, il sesso anale, la contestazione studentesca in Wrangler, Nello Mascia e Biagio Izzo sprecati a comparse. Sarà che la gentrificazione c’era e non la volevamo vedere. I video di Liberato e le pubblicità di Dolce & Gabbana non hanno inventato nulla. Prima venivano da fuori a rubare il tesoro di San Gennaro. Manfredi e Mastroianni si facevano crescere i baffi arrangiando un napoletano di maniera. Invece la Sandrelli, dal 1950 al 2023, apre e chiude con la leggerezza ereditata da Pietrangeli e Scola. Appresso ai sottotitoli che ammiccano alla «disperazione spudorata dei giovani promesse d’amicizia, giuramenti che svaniscono e propositi da ubriachi». Adesso, vai a capire se il mistero dei belli e il fallimento dei brutti giustificano il silenzio. Chi non ha nulla da dire sovente unisce le intelligenze. Direbbe Woody Allen rivolgendosi allo spettatore.
Quello che conta sul serio, tanto, non è la trama. «La vita è fatta di stati d’animo» spiegava Riccardo Pazzaglia spacciando emozioni coi Mancini “pezzotti”. E Sorrentino fa uguale. Ci regala l’illusione che solo l’amore rende. «A cosa stai pensando?» – «Tu sei come una ragazza che ho letto in un libro.» Godard risponderebbe così.

l’autore: Francesco Della Calce è critico cinematografico, scrittore e curatore di mostre

Azar Nafisi: Trump non è diverso dagli Ayatollah

illustrazione di Mike Luckovich, The Atlanta Journal

Con il suo ultimo libro la scrittrice iraniana Azar Nafisi lancia un potente j’accuse contro le derive totalitarie, non solo denunciando quella iraniana, ma anche quella statunitense che si potrebbe concretizzare con la rielezione di Trump il 5 novembre.

Scritto in forma di lettera al padre, Ahmed sindaco di Teheran, intellettuale laico e democratico che fu imprigionato dal regime di Khomeini, Leggere pericolosamente (Adelphi, tradotto da Anna Rusconi) di Azar Nafisi è anche un omaggio a sua madre, Nezhat Nafisi, prima donna ad essere eletta nel Parlamento iraniano. Ed un omaggio a tutte le giovani donne che in Iran portano coraggiosamente avanti- e a rischio della propria vita – il movimento Donna, vita, libertà. Tuffarsi in queste pagine è fare il pieno di energia, riscoprire la potenza dell’immaginazione, per vedere profondamente la realtà da un altro punto di vista, da un’altra prospettiva e cominciare a prefigurare le strade che portano al cambiamento. La letteratura per Azar Nafisi non ha nulla di consolatorio, semmai è uno strumento di resistenza. Di più: è un mezzo per trasformare se stessi e il mondo, che mette radicalmente sotto inchiesta il potere politico e quello degli ideologi e dei filosofi più astratti. Per questo, scrive Azar Nafisi, Socrate era ostile a poeti e narratori. E Platone voleva ostracizzare tutti gli artisti. «In quel sistema gerarchico – nota – non c’era posto per quanti si crogiolavano nella natura irrazionale. Per Platone i poeti come Omero portavano confusione». Nafisi discuteva di questo con i compagni di dottorato negli Usa. Qualche anno dopo ritornò in Iran proprio sul nascere della rivoluzione islamica finendo per ritrovarsi «in mezzo a una moderna versione teocratica della Repubblica di Platone». Da allora poco è cambiato in Iran tanto che oggi il regime teocratico iraniano manda in prigione e al patibolo rappers, cantanti, scrittori. Ma attenzione, avverte Nafisi, la peste dell’autoritarismo non è qualcosa che riguardi solo il passato o che tocchi solo Paesi lontani dall’Occidente. Ci lambisce da vicino, dice la scrittrice che vive a Washington e guarda con grande preoccupazione alla possibile rielezione di Trump alla Casa bianca. «Lo so, lo so Trump non è Khomeini e l’America non è l’Iran. Tuttavia Trump condivide con gli ayatollah una specifica forma mentis, un atteggiamento mentale e io vedo agire qui le stesse tendenze, gli stessi aspetti» È aggiunge: « In Trump si manifestano segni di una deriva totalitaria che non vanno sottostimati. La mia speranza risiede nel fatto che l’America è ancora una società democratica dotata di istituzioni democratiche in grado di opporsi a lui e alla sua amministrazione», scrive Nafisi, ricordando come anche in Iran in tanti ignorarono i segni premonitori, fecero finta di non vedere la violenza nelle parole e nelle azioni di Khomeini. In molti credettero alle sue bugie come molti oggi credono a quelle di Trump. «Per questo dico che al posto delle menzogne propinate da Trump e dai suoi sodali abbiamo bisogno della verità offerta dalla letteratura». E di libri per resistere e opporsi alla deriva autoritaria e misogina di Trump Azar Nafisi ne evoca molti in questo libro, dall’ultimo lavoro di Salman Rushdie a un classico come Il racconto dell’ancella (Ponte alle grazie) di Atwood. «Lo lessi per la prima volta nel 1998 e mi colpì anche perché la storia è ambientata in una teocrazia, dopo che il governo Usa è stato rovesciato e a narrarla è una donna chiamata Offred, una delle ancelle che hanno il compito di procreare per l’élite maschile dei comandanti. Leggevo il romanzo accompagnata dai ricordi brucianti della Repubblica islamica», annota la scrittrice, che ben presto si è resa conto di quanto la storia fosse invece universale. «Sia in Iran che a Gilead a essere negata è l’autonomia della donna, la sua individualità, la sua identità». Una distopia non troppo lontana da quello che prospetta l’ultra destra del Project 2025 che sostiene Trump.

Azar Nafisi

Intervista alla scrittrice Azar Nafisi, uscita su left di agosto 2024

di Simona Maggiorelli

L’arte è la più potente arma contro l’oppressione. Non a caso è il principale nemico di dittature e teocrazie. Un filo forte del pensiero lega il nuovo libro di Azar Nafisi, Leggere pericolosamente (Adelphi), ai lavori precedenti della scrittrice iraniana che da tanti anni vive esule negli Stati Uniti. Questo appassionante saggio forma una tetralogia intellettualmente sovversiva con altre sue opere come Quell’altro mondo, Leggere Lolita a Teheran e La repubblica dell’immaginazione.
«I dittatori e i tiranni odiano le idee e l’immaginazione. Le idee e l’immaginazione si oppongono alle dittature e alla tirannia perché sono conoscenze che mettono in collegamento le cose e permettono il cambiamento della realtà», risponde Nafisi a Left. «I tiranni e i dittatori odiano i cambiamenti e la libertà. Non solo: dittature e tirannidi si basano su falsità e menzogne. Ogni vera narrazione si basa su una polifonia di voci in dialogo tra di loro. Niente di più lontano da quello che succede in dittature e regimi».

Con Leggere Lolita a Teheran lei piazzò una vitale bomba intellettuale nel cuore del regime di Khomeini e fu espulsa dall’università di Teheran dove insegnava, anche perché si rifiutava di indossare il velo. Cosa pensa oggi di quella esperienza?
Con il mio Leggere Lolita ho cercato di creare uno spazio di libertà in cui si potessero leggere i libri e usare gli insegnamenti di scrittori e intellettuali senza paure di censure, punizioni, gabbie e prigionie. La consapevolezza che ne ho ricavato è che la letteratura è esattamente questo: libertà. Così come mi è capitato di conoscere l’Italia prima di venirci per la prima volta attraverso Collodi, Calvino, e ancora attraverso Antonioni, Rossellini e De Sica, così i miei allievi imparavano il mondo senza essere mai usciti dall’Iran.

Approfondendo ancora potremmo dire che i regimi come quello di Khomeini – a cui lei si è sempre opposta – odiano gli artisti e le donne, perché sono incontrollabili ma anche perché parlano di sentimenti, di immaginazione, di una bellezza che ha che fare con il non cosciente?
Sì, concordo pienamente. Letteratura e arte servono per arrivare alla verità più profonda. Un dittatore, un tiranno deve nascondere e opporsi fermamente alla possibilità che la verità emerga. Pensate anche solo al tipo di politica e di strategie adottate da Donald Trump in un Paese democratico come gli Stati Uniti. Lo scopo dei dittatori è portare a credere a un mondo che non esiste.

I giovani iraniani che hanno dato vita al movimento culturale Donna, Vita Libertà dopo l’uccisione di Mahsa Amini lottano in maniera nonviolenta. Hanno fatto tesoro della sua lezione. Lei che segue sempre con trepidazione la loro battaglia cosa pensa di quel che sta accadendo oggi in Iran? La premio Nobel iraniana Shirin Ebadi dice che il neo presidente Pezeshkian è un burattino nelle mani di Khamenei. Quale è il suo punto di vista?
Sono pienamente d’accordo con Ebadi. Ma il regime – e quest’ultimo regime iraniano in particolare – non è così forte come dice di essere. Se milioni di persone continueranno a opporsi con la nonviolenza e a scendere in piazza, a ballare e cantare e a esprimersi liberamente, nessun regime avrà mai armi a sufficienza per mettere tutti a tacere. Chiaramente siamo tutti sconvolti dalla quantità di persone che il regime uccide, specialmente giovani e anche nei giorni scorsi, ma si autodenuncia, denuncia la propria debolezza estrema chi usa le armi al posto del dialogo.

Illustrazione di Mike Lukovich per Atlanta Journal, ispirato al romanzo di Margaret Atwood e rilanciato dalla scrittrice

Foto di Azar Nafisi di Larry D. Moore, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44476478

 

La memoria corta ne ferisce più della pistola

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Il problema è che la memoria va allenata, tenuta lunga e invece gli italiani sono troppo occupati nella guerra tra bande, sono irretiti nella stanchezza del troppo lavoro troppo poco pagato oppure banalmente se ne disinteressano.

Per ricordare lo scorso capodanno basterebbe poca memoria. Il deputato di Fratelli d’Italia Emanuele Pozzolo si presenta molto allegro al cenone di Rosazza, paese biellese guidato dalla sindaca Francesca Delmastro, sorella del sottosegretario alla Giustizia Andrea, presente ai festeggiamenti. 

Pozzolo ha un piccolo revolver, sta nel palmo di una mano, e mentre lo gingilla parte un colpo che si conficca nella gamba di Luca Campana, genero del capo scorte di Delmastro. Intorno ci sono famiglie e bambini. I fatti successivi sono perfino peggio: testimonianze rabberciate, il parlamentare pistolero che si contraddice. Risultato politico: Pozzolo “sospeso” dal partito in una delle rare conferenze stampa della sua capa Giorgia Meloni.

Peccato che la “sospensione” di un parlamentare sia un fondotinta retorico che non esiste nei regolamenti. Un parlamentare o lo cacci dal gruppo o te lo tieni. Tertium non datur. 

Undici mesi dopo Pozzolo finisce per caso in commissione Difesa per sostituire il vice ministro Edmondo Cirielli. Sta lì in rappresentanza del partito, Fratelli d’Italia, che lo avrebbe allontanato. Dal partito dicono che «si tratta di appoggio tecnico, dovrà tornare alla commissione Esteri e Affari comunitari», confermando che Pozzolo prende e esegue gli ordini. Il pistolero sospeso in commissione Difesa. Sembra un film ma è solo l’effetto della memoria stanca.

Buon martedì. 

Valencia come simbolo: il pianeta non vuole lacrime ma soluzioni

“A Valencia assalto al re Felipe, la regina in lacrime, distrutta l’auto di Sanchez”. Alcuni giornali italiani la chiamano la rivolta del fango perché spostare l’inquadratura permette di calmierare l’allarme.

Invece quella di Valencia è una rivolta di persone – che siano bagnate e asciutte non importa – che presentano il conto al potere, regale e istituzionale, della sua inazione. Le immagini spagnole rendono plastico e immediato lo strabismo del dibattito pubblico. 

Quell’enorme parcheggio sotterraneo accanto al mastodontico ipermercato oggi è una tomba descritta dai soccorritori come un orrore. È anche il monumento dell’avventatezza umana che miope confida nell’immutabilità del pianeta di fronte ai mutamenti del clima. 

Quando la politica smetterà di colpevolizzare gli attivisti poiché sarà costretta a fare i conti con problemi ben più gravi si ritroverà di fronte la rabbia. Non sarà la rabbia di qualche automobilista nervoso e non sarà la rabbia dei difensori dell’igiene dei monumenti. Sarà rabbia a valanga, al limite della violenza, rabbia disperata come quella che si è accesa in Spagna. 

Le popolazioni colpite dalle alluvioni e le popolazioni consce dei cataclismi futuri non hanno bisogno di conforto. Non se ne fanno niente. Chiedono un allineamento alla preoccupazione e all’azione.

C’è un pezzo di mondo che vive un dramma che qualcuno nega. Lo iato storico sta tutto lì, tra chi gioca al tubo di scappamento più grosso e chi rimane senza casa. 

Buon lunedì. 

Elezioni in Uruguay. Il Frente Amplio alla riscossa. Nel segno del Pepe

Pepe Mujica e Gabriela Pereyra

Montevideo- Domenica 27 ottobre l’Uruguay è tornato alle urne per le elezioni nazionali, dopo 5 anni, molto faticosi per la popolazione; anni in cui ha governato una coalizione di destra, che oltre a ridurre il Paese in condizioni drammatiche, benché democraticamente eletto, è stato il governo più corrotto della storia repubblicana del nostro Paese. Alla lettera da quando nel marzo 2020, dopo 15 anni di governo del Frente Amplio (partito di centro-sinistra), il presidente Lacalle Pou ha assunto la presidenza della Repubblica  se ne sono viste di tutti i colori. Oltre alla ridda di promesse fatte in campagna elettorale e rimaste poi tali su tante materie la destra ha fatto l’esatto contrario di ciò che aveva promesso. Anche per questo la coalizione di destra che si è formata in questi giorni per cercare di battere il Frente Amplio, secondo politologi di diverse impostazioni politiche, non ha grandi possibilità di vincere al ballottaggio che si svolgerà il 24 di novembre 2024.
A questo importante appuntamento la sinistra si presenta dopo aver ottenuto il 44% alla prima tornata elettorale dello scorso 27 ottobre. L’opposizione di sinistra è guidata da Yamandu Orsi, professore di storia, ex sindaco per più mandati di Canelones (la regione più stessa del’Uruguay adiacente la capitale Montevideo) e dall’ingegnera Carolina Cosse, ex presidente dell’ente pubblico delle telecomunicazioni, dove ha svolto un lavoro straordinario (che viene pubblicamente riconosciuto anche dalla destra e perfino dall’attuale presidente della Repubblica) ed ex sindaca di Montevideo che gode di grande consenso da parte dei cittadini.
La destra guidata da Alvaro Delgado ha ottenuto soltanto 27% dei voti. Da ex segretario della presidenza dell’attuale governo sconta aver preso parte direttamente o meno alle politiche dell’attuale governo che ha ridotto gran parte del popolo in condizioni di povertà che gli uruguaiani non ricordavano nemmeno più dopo i 15 anni di governi di sinistra: una crisi economica aggravata dal crollo totale dell’istruzione e del sistema sanitario pubblico, per non dire degli aiuti sociali totalmente cancellati e dei numerosi casi di corruzione, di una gravità senza precedenti – a detta di molti storici – nella nostra storia, che coinvolgono anche direttamente il presidente della Repubblica e Valeria Ripoll, quarantenne passata per diversi partiti di sinistra e di destra, che ancora evidentemente non ha trovato la propria “strada”.
In molti si chiederanno perché la sinistra ha perso elezioni del 2020 in Uruguay, ed è una domanda più che legittima che necessità di una risposta articolata: nella regione si è venuto a  creare un contesto che ha portato le destre al governo anche grazie ai mass media che propagandavano i vantaggi che i conservatori avrebbero portato al popolo, facendo credere che ci sarebbe stata la possibilità di ottenere maggiori vantaggi economici e subito. A questo si sommano gli errori commessi dalla sinistra che successivamente in Uruguay è andata incontro a una giusta e inevitabile autocritica. Forse l’errore dei governi progressisti, e stato proprio dare, dare e dare, senza creare una vera coscienza negli strati popolari riguardo ai processi che permettono raggiungere certe possibilità: non si è riusciti a far capire che l’impegno deve essere collettivo e comunque ha i suoi tempi, non è un flusso continuo e non è ne anche inesauribile.

Ora ci troviamo di fronte a questo nuovo ballottaggio nel quale sebbene la possibile coalizione di governo, se teniamo conto dei tutti i partiti di destra che hanno partecipato a queste elezioni e loro risultati, avrebbe il 47% dei voti. Ma non è detto che tutti quei voti restino alla destra.

Secondo molti politologi, Yamandu Orsi che appartiene all’area di Mujica, il MPP, che fa parte del Frente Amplio, e Carolina Cosse della minoranza del Frente Amplio sono in realtà in vantaggio e potrebbero vincere le elezioni.
Dobbiamo anche tenere conto che nel ballottaggio del 2020 che fu vinto dalla destra, la sinistra perse le elezioni per soli 33.000 voti.

Nel frattempo la  sinistra ormai ha ottenuto la maggioranza al Senato, con 16 seggi, 9 dei quali occupati da rappresentanti del MPP di Mujica, un numero che nemmeno lui stesso si aspettava e che è un altro fatto storico, visto che nessun partito politico, né di sinistra né di destra, ha ottenuto mai 16 seggi, che significano più della metà di tutti i seggi del Senato che sono 30 in totale. Alla Camera dei deputati però la coalizione di sinistra, non ha la maggioranza.
Quindi, con questo panorama, anche nel caso in cui il Frente Amplio non riuscisse a vincere, per la coalizione di destra sarà molto difficile governare.

Dovremmo attendere quindi il 24 di novembre per conoscere chi sarà il nuovo presidente di questa piccola ma particolare repubblica, la più stabile di Latinoamerica. C’è molta fiducia che sia il Frente Amplio a vincere, anche perché comunque ha vinto nel primo giro in 11 delle 19 regioni del Paese, anche se è vero che tutta la coalizione di destra messa insieme supera al momento il candidato di sinistra di quasi 4 punti, ma non è detto che al ballottaggio conseguano gli stessi votanti rispetto a quelli che gli hanno votato quando si presentano in modo indipendente, non a tutti quelli che votano la destra piace questa coalizione.
L’ultima parola, nelle vere democrazie, c’è l’ha il popolo, e questo accadrà il 24 novembre prossimo in Uruguay.

L’impegno de Il Pepe

Vorrei anche spendere qualche parola per parlare di un uomo unico e irripetibile come José “Pepe” Mujica, Presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015. Con un passato da guerrigliero nei Tupamaros ai tempi della dittatura.

Il mondo ha lo sguardo puntato su questa terra per seguire lo stato di salute de Il PEPE come viene chiamato in Uruguay da tutti.
Sappiano già che è ammalato, ha un tumore e il suo corpo di uomo di 89 anni ha avuto una vita difficile, ha conosciuto il vero inferno in prigionia, perché è stato uno degli 9 ostaggi della dettatura civico-militare. E come in tutti i casi degli altri ostaggi, che si sono ammalati, abbiamo visto una resistenza incredibile, non è facile portarsi via la vita di questi uomini.
Tuttavia le sue condizioni di salute sono difficili, lui ne è consapevole, e ne parla con molta tranquillità, sente la fine vicino, ma non è disposto ad abbassare la testa. Ha accompagnato, appoggiato questa campagna elettorale in prima persona il più possibile, e quasi al 100%, perfino andando a parlare in diversi regioni molto lontane da Montevideo. Ha giorni buoni e altri non tanto, a volte non è prevista la sua presenza a un incontro con la gente e a sorpresa appare.
È diventato più “ubbidiente” a Lucia Topolansky, ex vice presidente del Paese, e la sua compagna di vita da sempre, anche lei vittima della dettatura, incarcerata per più di 13 anni, torturata, violentata, e comunque ha sempre quel sorriso dolce. E Pepe segue i consigli della sua dottoressa di fiducia, che va ovunque lui vada, e degli altri medici. È capitato che dopo una di queste presentazioni sia finito in ospedale, ricoverato per qualche giorno, ma appena dimesso, lo si vede di nuovo a parlare alla gente come solo lui lo sa fare.
Alla chiusura della campagna elettorale del suo settore, il MPP 609, da cui proviene la metà dei voti del Frente Amplio, oltre al Pepe, a Lucia, ai candidati che hanno fatto i loro discorsi finali, ci sono stati tanti artisti uruguaiani per lo spettacolo finale, e anche l’argentino Leon Gieco che accompagna da sempre il Pepe. Lui in privato ha regalato a Leon le sue scarpe da lavoro, cosi, sporche di terra. Ho visto l’emozione di Leon, e ho detto…difficile mettersi in quelle scarpe, una grande responsabilità…e già, ha detto Leon, non credo di poterne essere all’altezza, ma è un grandissimo onore.

Personalmente ho l’opportunità di sentire Pepe e vederlo spesso, e vi posso dire che ad esempio questa mattina era a lavorare la sua terra sul trattore, “a piantare i suoi sogni” cit. Pepe Mujica 31 ottobre 2024.

Ci sarà senza dubbio un prima e un dopo Mujica, non solo nel Uruguay ma in tutta la regione.
Ma è ancora con noi e non smette di lottare per un mondo migliore, e abbiamo tutti, in tutto il mondo, bisogno di “Più Pepe a sinistra”.

Gabriela Pereyra con Pepe Mujica e Left nel 2017

L’autrice: Gabriela Pereyra è avvocata e collaboratrice di left.

Fra le sue interviste : https://left.it/2018/08/26/piu-pepe-nella-sinistra-un-tempo-per-lavorare-un-tempo-per-vivere/

https://left.it/2017/10/27/jose-pepe-mujica-esiste-un-tempo-per-lavorare-e-un-tempo-per-vivere/

Ken Loach, arte e vita dalla parte giusta

il regista Ken Loach

Quando uno storico del pensiero politico, Giorgio Barberis, e uno psicologo e critico cinematografico, Roberto Lasagna, dialogano incrociando metodologie e percorsi diversi, ciascuno con le lenti del proprio ambito di studi, si dà vita ad un libro stimolante, che indaga, in questo caso, la valenza politica della produzione cinematografica di uno dei più notevoli registi degli ultimi decenni. Ken Loach. Il cinema come lotta e testimonianza (Edizioni Falsopiano, Isral, Alessandria 2024), presentato in occasione dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, non vuole essere una biografia tout court del regista britannico, ma intende mettere in luce la straordinaria coerenza della produzione di Loach e il rigore etico che contraddistingue non solo la sua opera, ma la sua stessa vita. Basti ricordare il rifiuto del premio conferitogli dal Torino film festival il 21 novembre 2012 per solidarietà con alcuni lavoratori licenziati a causa dell’esternalizzazione dei servizi del Museo nazionale del cinema (episodio ricordato dallo stesso Alberto Barbera, allora direttore del Museo, nella nota in esordio al volume).
Il volume si apre con un saggio di Barberis, che ripercorre le tappe principali del «presente impresentabile» nel quale viviamo, caratterizzato dalla fase terminale dell’ideologia neoliberale, che ha dominato negli ultimi decenni, dalla fine della Guerra fredda e dal simbolico crollo del “muro di Berlino”, nel novembre 1989, quando si decretò a gran voce la “fine della storia”, ovvero, il massimo livello di benessere raggiungibile dall’umanità, «con una forma di governo in grado di assicurare la “sovranità” ad ognuno (la democrazia) e un sistema economico (il capitalismo), capace di garantire a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio». Sistemi politici deboli, inconsistenti e miopi hanno lasciato spazio al “Finanzcapitalismo” – magistralmente descritto dal compianto Luciano Gallino – con la conseguente polarizzazione delle ricchezze e l’aumento delle diseguaglianze e delle ingiustizie. La filmografia di Loach si inserisce perfettamente in questa «transizione epocale», descrivendo «i traumi, le rotture, le sofferenze, le contraddizioni, le aporie» della nostra epoca.

Marilena Paradisi, qui e ora, poesia

La ricerca musicale di Marilena Paradisi non si è mai fermata. La cantante e musicista romana è partita dall’improvvisazione tipica del jazz canonico, per poi andare ad esplorare i territori della musica colta contemporanea, in un originalissimo percorso di andata e ritorno nel corso del quale non è mai venuto meno l’approfondimento intorno all’espressività della voce umana e la ricerca sul “suono” e sulla sua essenza, ivi compreso il silenzio, che ne è il naturale suggestivo complemento.
Nel corso della sua più che ventennale carriera Marilena Paradisi ha avuto modo di collaborare con grandi musicisti jazz italiani ed internazionali come Eliott Zigmund, Harvey Diamond, Kevin Harris, Louiz Banks, Piero Leveratto, Renato Sellani, Dino Piana, e, in ambito contemporaneo, con il chitarrista Arturo Tallini, con il percussionista Ivan Macera e con la grande soprano giapponese Michiko Hirayama.
Abbiamo incontrato Marilena Paradisi in occasione dell’uscita del suo nuovo lavoro realizzato in duo con il contrabbassista Bob Nieske – Here and Now (Losen Records) – che conferma il suo ritorno al jazz, a sette anni da Some place called where inciso con il pianista Kirk Lightsey.
E a proposito di Bob Nieske, il contrabassista d’Oltreoceano ci tiene a sottolineare l’originalità del loro incontro musicale: «La prima volta che ho suonato con Marilena – dice – mi è sembrato tutto molto familiare, perché lei ha un approccio e una libertà simili a quelli di Jimmy Giuffre, il grande clarinettista con cui ho iniziato la mia carriera nel 1979. La voce di Marilena e il mio suono volavano insieme, come due uccelli che si rincorrono muovendosi l’uno intorno all’altro».
Ma in Here and now non c’è solo la voce di Marilena Paradisi: la musicista infatti ha scritto anche i testi che compaiono in tre brani del disco: “Portrait in black and white” nel quale ha tradotto in italiano il testo di Antonio Carlos Jobim, “Lawns” di Carla Bley in inglese, mentre sulla melodia di “Duke Ellington’s sounds of love” di Charles Mingus, ha inserito un celebre testo poetico da Il mercante di Venezia di Shakespeare («Dimmi dimmi dove nasce la fantasia»).
Marilena Paradisi, come è nata l’idea del progetto e del sodalizio con Bob Nieske?
Nel 2019 mi trovavo a Boston e ho avuto l’occasione di fare un concerto in duo in Cambridge con Bob Nieske. Non avevamo mai suonato prima e devo dire che siamo stati tutti e due molto contenti di come è andata. Un’inaspettata intesa musicale, come se ci conoscessimo e suonassimo insieme da anni. Capita davvero raramente una cosa del genere, e quando succede, la musica viaggia da sola e vola alta, e per un duo voce e contrabbasso è davvero una cosa notevole. Ci eravamo quindi riproposti di realizzare un progetto insieme. Poi con il Covid tutto è stato rimandato. Finalmente ci siamo potuti incontrare di nuovo nel maggio scorso sempre a Boston per registrare.

La storia negata di una città operaia

Nel pieno della temperie politica che sta spostando sempre più a destra l’asse politico arriva il libro di Alessandro Portelli, Dal rosso al nero. La svolta a destra di una città operaia (Donzelli editore) che trova la sua ragion d’essere nel percorso di ricerca pluridecennale dell’autore sulla città di Terni, con due libri all’attivo (Biografia di una città, 1985; Acciai speciali, 2008) che necessitavano di trovare un completamento. Un percorso che incrocia gli interrogativi comuni a tutto il mondo della sinistra. Da storico orale, Portelli non tenta una macro analisi ma sceglie il livello micro e fa di Terni un “laboratorio d’Italia”, punto di osservazione privilegiato contrassegnato da specificità proprie, in un’intersezione di piani che consente di osservare da vicino il “farsi” concreto della metamorfosi della città.
Portelli parte da due momenti di piazza, la contestazione al sindacato nel 2014, nel pieno della lotta alla Acciai speciali Terni (Ast), e gli applausi a Salvini nel 2018: due piazze distinte prese a simbolo del «Tramonto rosso» e della «Alba nera», già anticipata negli anni Novanta dall’elezione a sindaco di Gianfranco Ciaurro. Ma il punto non sono le elezioni bensì i processi storici, che muovono da un duplice registro: la rottura tra la classe operaia e la sinistra, un fenomeno generalizzato che in ogni luogo si complica di molteplici peculiarità; il declino industriale, che non sempre significa deindustrializzazione – a Terni, come altrove, la fabbrica continua ad esserci – ma è ridimensionamento, economico e culturale, dell’industria e della classe operaia, reso evidente dalla conclusione della vertenza all’acciaieria: «Quando l’Ast offre 60mila euro netti come incentivo per lasciare volontariamente il lavoro, il numero di quelli che accettano va oltre le aspettative aziendali … . L’esodo è il segno che tanti operai al futuro della loro fabbrica, o al loro futuro in fabbrica, non ci credono più» (p. 48).

Se è sfruttamento non è cultura

La gaffe dell’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e la sua patetica vicenda diventeranno presto un ricordo. Si chiuderà l’inchiesta, scopriremo chi ha revocato la nomina di Maria Rosaria Boccia e finiremo di parlarne. Rimarrà l’ilarità e forse persino un vago sentimento di pena per la goffaggine di un ministro certamente inadeguato al ruolo, che si è umiliato a reti unificate. Nel frattempo, siamo stati catapultati in un altro circo, quello di Alessandro Giuli e delle dimissioni del suo capo di Gabinetti Spano. Già direttore del MAXXI, Giuliè passato più o meno inosservato come sparring partner di Sgarbi nel 2023 all’apertura della rassegna estiva del museo di arte contemporanea di Roma, trasformata dallo storico dell’arte in un cabaret sboccato e sessista. Arrivato al MiC, il neo ministro è passato, nel giro di poche ore, dal dichiarare con orgoglio il “pedrigree” del nonno fascista che marciò su Roma nel 1922 fino a sproloquiare in Parlamento sulle linee guida del “suo” ministero, a metà tra il conte di Amici miei e la reincarnazione malriuscita del futurista Marinetti.
Intanto, un proprietario di autonoleggio diventa il presidente di Ales, società del MiC per il supporto alla conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale. E il libro di Italo Bocchino viene presentato nel tempio dell’arte contemporanea italiana, la Gnam, con la segnalazione dei lavoratori e delle lavoratrici che chiedevano di sospendere l’iniziativa perché evidentemente fuori luogo. Un lavoratore è stato anche trascinato via dalle forze dell’ordine, mentre l’ex missino Gramazio minacciava di prenderlo a schiaffi.
Sullo sfondo, aggiungete il clima di censura nei confronti di artisti e intellettuali andato in scena negli ultimi due anni: dalle polemiche per la frase «Stop al genocidio» di Ghali al festival di Sanremo, fino alla vicenda del monologo in tv dello scrittore Scurati cancellato, con l’allontanamento della conduttrice Serena Bortone dal suo programma, e la querela allo storico e filologo Luciano Canfora, ritirata soltanto all’ultimo momento.