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Quindi, chi sono i trafficanti?

No, non ha parlato con i giornalisti. Giorgia Meloni ieri si è accodata nel salotto di Bruno Vespa, che ha la qualità che piace più al potere: l’accondiscendenza. Ospite di Porta a Porta, ha potuto quindi esibirsi nella sua formula di conferenza stampa preferita, il monologo rabbioso accompagnato dai “sì, sì” ciondolanti del conduttore.

Tra una piccata rivendicazione e l’altra, la presidente del Consiglio ha raccontato di aver ricevuto minacce di morte dai «trafficanti» per la sua strampalata idea di piantare un centro di permanenza per il rimpatrio in Albania, dove stamattina agenti delle forze dell’ordine italiane stanno giocando a carte dopo una lauta colazione.

Una minaccia di morte a una capa di governo dovrebbe essere una notizia che monopolizza i sommari di tutti i media. Non accadrà, ed è un peccato, perché consentirebbe una volta per tutte di comprendere chi siano per la premier i cosiddetti «trafficanti» contro cui rumorosamente si arrabatta dall’inizio della legislatura.

Siamo convinti, insieme a molte organizzazioni internazionali, che la linea di comando dei «trafficanti» sia composta dagli stessi travestiti da politici che Meloni pomposamente incontra, dai ministri libici fino al premier tunisino. Avere le generalità del minacciante e il suo ruolo ci permetterebbe di sapere se stiamo parlando delle stesse persone, delle stesse responsabilità.

Non possiamo non notare, comunque, come Meloni sia solitamente prodiga di pubblico vittimismo anche solo per una scritta su un muro, e come invece, in questo caso, abbia adottato un insolito riserbo. Quindi, chi sono i trafficanti?

Buon giovedì.

Le mani sulla scuola: ecco come il governo Meloni vuole “educare” il Paese

Il vecchio adagio recita: la storia è scritta dai vincitori. Se si vuol dire che il corso degli eventi è determinato molto spesso da chi, nelle varie dinamiche (politiche, militari, sociali etc.), fa prevalere la sua posizione, la frase ha una sua validità, anche se da ciò non deriva di necessità la bontà stessa degli sviluppi.
Ma la frase proverbiale ha un significato deteriore: chi vince ha il diritto di raccontare la storia dalla sua prospettiva. Non si tratta più dei fatti in sé ma della storiografia, dello studio e racconto del passato. La raccolta di documenti, la loro lettura dovrebbero però portare a riscoprire la realtà, avvicinarsi il più possibile alla verità dei fatti, per condurre poi riflessioni critiche al riguardo, e trasmettere questa attitudine nella didattica. Il principio guida dovrebbe essere la verità e la sua ricerca, ma per il presunto vincitore tutto ciò decade, prevale l’auto-esaltazione giustificante.

L’attuale governo di destra, nella lotta per l’egemonia culturale e una nuova narrazione del Paese, ha dimostrato più volte di non essere estraneo a tale atteggiamento, con formule smaccatamente tendenziose come il ben noto «Dante fondatore del pensiero di destra in Italia». Il dibattito d’inizio ottobre è stato occupato dal triste caso del libro di Italo Bocchino, Perché l’Italia è di destra. Contro le bugie della sinistra (Solferino, 2024), lavoro che vorrebbe chiarire alcuni punti della storia del Paese, ma che fin dal titolo rivela la natura intrinsecamente faziosa, propria della propaganda di partito e totalmente estranea ad ogni forma di riflessione storica seria. Persone ben più competenti di me sono intervenute nel merito del testo, in particolare la storica e docente universitaria Michela Ponzani su Domani, e nulla io avrei da aggiungere per sottolineare le manipolazioni dei fatti, le omissioni programmatiche accompagnate a sottolineature subdole, il tutto per avallare una chiave di lettura che distorce la realtà storica. L’autore cerca di forzare l’atteggiamento politico-culturale complessivo dell’Italia repubblicana, come se la destra avesse fatto la storia del Paese sempre (mantra odierno), e lascia così nel dimenticatoio figure ed eventi che hanno veramente segnato le sorti o le aspirazioni del Paese: Matteotti, Gobetti, Gramsci, Terracini, Togliatti, Berlinguer e Moro, quando l’ala sinistra della Dc comprese la necessità di recuperare l’unità nazionale del periodo costituente e collaborare con il Pci (processo interrotto tragicamente, per ingerenze esterne, ma che stava per fare veramente la storia).

Ciò che più preoccupa in questa vicenda è l’aggancio di interventi di questo tipo al mondo della scuola, apertamente cercato dalla destra, in particolare con le parole di Ignazio La Russa e Arianna Meloni durante la presentazione del volume e l’auspicio per una sua adozione nelle aule. E scatta un importante campanello d’allarme quando i politici – anche fosse con presunta leggerezza – avanzano proposte di ingerenza sulla scelta dei libri di testo. Certo, questi oggetti hanno bisogno di revisioni e attente riflessioni, anche perché su alcuni fenomeni – fra i tanti ad esempio la Reconquista, più in generale i rapporti fra Europa e mondo islamico, il colonialismo, la questione del confine orientale e delle migrazioni interne all’Europa dopo il secondo conflitto mondiale – si sono fissate letture ormai superate e servirebbero aggiornamenti, per sfatare falsi miti e pregiudizi e trasmettere maggior consapevolezza ai ragazzi. Ma questi interventi dovranno essere funzionali al mondo plurale che viviamo, e si spera potranno esser frutto di un più ampio dibattito culturale, con gli studiosi protagonisti insieme ai docenti, e rigorosamente in assenza di ministro e altri politici (spesso impreparati). Altre forme di intervento sono invece insidiose. Già Victor Klemperer, nel suo Taccuino di un filologo, osservava in presa diretta la ‘politica culturale’ nazista, fatta di riscrittura del passato e diffusione di un’ideologia distorta per propaganda e manipolazione, e annotava come ulteriore prova a sostegno delle sue analisi l’azione di controllo sulla scuola, e la produzione di libri di testo grati al regime. Anche senza guardare indietro nel tempo, e per avvicinarci ad alleati di lungo corso di chi oggi sta al potere, basta pensare al caso ungherese, dove Orbán ha da tempo stretto una morsa attorno a scuola e università, modificando i programmi in senso nazionalistico, reprimendo voci di dissenso, e imponendo libri di testo approvati dal governo, con la scusa imbonitrice della gratuità (si veda Guido Crainz, Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia, Donzelli 2022). E non guasta ricordare che è la stessa situazione della Russia putiniana…

Il fatto non è però isolato, da un po’ di tempo questo governo mostra un atteggiamento ‘interventista’ sulla scuola, non rispettata nel suo valore ma vista come uno dei luoghi da cui far partire la diffusione della nuova narrazione del Paese (non nel rispetto della realtà dei fatti, ma per rivalsa del discendente missino). Si reprime il dissenso degli studenti, e si interviene sui programmi. Le nuove linee guida per l’Educazione Civica, prima di tutto, bocciate dallo stesso Consiglio superiore della pubblica istruzione, ignorato però dal governo. E così la scuola-Valditara ha fra i suoi obbiettivi: la valorizzazione dell’amor di patria e la centralità dell’identità italiana, criterio guida inappropriato proposto anche per l’integrazione (che dovrebbe invece basarsi su reciprocità di dialogo); incentivare lo spirito di impresa, la cultura della proprietà e del privato (in barba ai valori di uno stato sociale promossi dalla Costituzione). Si veda su questi temi, nell’ultimo cartaceo di Left, l’articolo “Il ministero del demerito” di Donatella Coccoli. Valditara vuole poi modificare anche i programmi, in particolare quello di storia, per ‘insegnare l’italianità’ (nazionalismo, chiusura dei propri orizzonti, l’opposto di un’autentica scuola), alludendo al titolo del libro-guida di Galli della Loggia preso a riferimento: promozione dell’identità italiana attraverso storia e materie umanistiche, come chiave di volta nella comprensione del mondo che ci circonda.

Qualcuno dirà, li hanno votati e fanno ciò che vogliono, perché è ciò che vogliono gli elettori. Primo, non è detto che sia così, ma poi, anche fosse, la politica vera non è un assecondare cieco, per accaparrarsi voti, in barba ad ogni principio: la politica vera, così come la didattica, è anche saper guidare, dare strumenti per riflettere a pieno sui problemi, non alimentarli e basta. Nessuno mette in dubbio l’importanza di conoscere bene la cultura in cui ci siamo trovati a vivere, anche come base solida nella formazione, ma questa base serve per un confronto continuo, per acquisire la consapevolezza che nella realtà la cultura è fatta di relazioni che non hanno confini, e bisogna educare i giovani a percorrere queste strade, a saper osservare e interagire con la complessità ricca e variegata, non a chiudersi in un sicuro orticello autoreferenziale, vana pretesa egocentrica, inutile oltre che infondata nel suo rifiuto dell’altro (come nelle politiche migratorie). Sempre sul cartaceo di Left si veda l’articolo Insegnare una Italia piccola piccola di Diana Donninelli.

Da ricercatore e professore di scuola superiore, sono preoccupato davanti questo panorama. La proposta di libri, e in generale l’intromissione interessata sui programmi, sono segnali gravi, e per l’ultimo punto condivido e sottoscrivo le riflessioni di Christian Raimo, su Lucy sulla cultura il 2 luglio scorso: “L’identità italiana non esiste, ma tra poco si studierà a scuola”. E proprio il professor Raimo è al centro di una questione che fa sistema con quanto finora abbiamo osservato: la repressione del dissenso, che non colpisce solo gli studenti che manifestano o occupano una scuola, ma anche i docenti, evidentemente non più liberi di avanzare critiche nei confronti delle politiche portate avanti dal ministro (con un’idea di scuola discutibile), o di esprimere in un’intervista – non in aula – personali posizioni politiche. Raimo è oggetto di due provvedimenti disciplinari, con rischio licenziamento, per aver contestato le politiche per la scuola della destra. Per deontologia, ogni docente deve astenersi dal politicizzare la lezione facendo ‘campagna elettorale’ in aula, ma scuola e università comunque non possono e non devono essere luoghi asettici: fra professore e studenti deve esserci un dibattito, che partendo dagli argomenti di studio possa portare anche ad un confronto sull’attualità, in cui il docente non si porrà certo come megafono di un partito o l’altro, ma potrà dare ai giovani delle coordinate, guidarli affinché possano percorrere con maggior consapevolezza il cammino che loro sceglieranno, evitando derive pericolose. E poi, ogni professore ha o può avere anche un ruolo intellettuale, e fuori dall’aula può benissimo prendere posizione: essere funzionari pubblici non vuol dire aver fatto voto di cieca obbedienza e silenzio. La critica, anche ironica, del potere e delle sue decisioni è e deve restare un diritto.

La cultura non può essere un giocattolo nelle mani dei politici, soggetta ai capricci di turno e al vento elettorale. La cultura e l’educazione sono e devono continuare ad essere palestra di pensiero critico, luogo in cui si coltiva ed esercita la più autentica e democratica forma di controllo e garanzia contro ogni possibile deriva del potere, la conoscenza.

L’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, ricercatore e insegnante

Per approfondire v. left di ottobre  

Foto: Gli studenti si liberano delle catene e lanciano lo sciopero nazionale del 15 novembre. Azione di protesta dell’Unione degli studenti davanti al Ministero dell’Istruzione e del merito, 25 ottobre 2024

Pd e il paradosso Schlein: colpevole di non aver sedotto la destra

Elly Schlein al comizio conclusivo per le elezioni in Liguria

Prevedibili come l’alba ieri in casa Pd sono arrivate le accuse alla segretaria Elly Schlein dopo la sconfitta del candidato del centrosinistra Andrea Orlando alle elezioni regionali liguri. All’osservatore disattento potrebbero risuonare poco comprensibili. Il Partito democratico ha collezionato dieci punti percentuali in più rispetto alle elezioni precedenti, senza contare la considerevole mole di voti della lista civica del suo candidato presidente. 

La componente interna dei cosiddetti “riformisti”, che dopo Renzi si è aggrappata a Bonaccini e ora sembra fedele solo alla sua natura, ieri ha strepitato – con la solita, falsa eleganza – contro Schlein, accusandola di aver scelto un’alleanza con il Movimento 5 Stelle, ignorando Renzi. In realtà, le divergenze erano tra Conte e il senatore fiorentino, come al solito.

«Ai veti è seguito un errore politico, pensare che si dovesse scegliere tra il 6% di Conte e il 2% di Renzi rilevati nei sondaggi», dice Alessandro Alfieri, ultimo portavoce della fronda dem, rompendo la pax interna inaugurata solo pochi mesi fa.

Se Alfieri stamattina scorrerà le pagine del Corriere oltre l’articolo che lo riguarda, scoprirà che oltre metà degli elettori di Italia Viva ha votato a destra, per quel Bucci di cui Renzi era compiaciuto alleato al Comune di Genova.

In sostanza, la critica alla segretaria consiste nel non aver inseguito i voti di chi ha un’attrazione fatale per la destra. Non male, no?

Buon mercoledì.

Deportazione dei migranti in Albania, la politica disumana che piace alle destre europee (e non solo)

Ad agosto 2023 Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio italiano, trascorre le vacanze in Albania, ospite del presidente Edi Rama, membro “associato” della famiglia del Partito socialista europeo, di cui sono parte anche il Pd di Elly Schlein e il Psoe di Pedro Sánchez.

Galeotta fu la vacanza. È lì, infatti, che si gettano le basi per raggiungere un accordo che sarà poi siglato il 6 novembre 2023.
Meloni e Rama firmano un protocollo che prevede la costruzione a Gjader e Shengjin, nel Nord dell’Albania al confine con il Montenegro, di centri a giurisdizione italiana in cui deportare i migranti dall’Italia.
A Gjader il progetto prevede la costruzione di un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo da 880 posti, di un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) da 144 posti e di una prigione da 20 posti.
Costo stimato: almeno 670 milioni di euro in cinque anni. Pagati con i proventi delle tasse dei lavoratori e delle lavoratrici italiane.

A un anno di distanza, in occasione del traguardo dei due anni di governo, Giorgia Meloni può vantare di aver trasformato quel protocollo in realtà (sebbene con sei mesi di ritardo sulla tabella di marcia) e, soprattutto, di aver individuato «una nuova rotta rispetto alle politiche sull’immigrazione» (Il Tempo, 22 ottobre 2024).

I due centri sono stati aperti martedì 15 ottobre 2024.
A “inaugurarli”, un “carico residuale” – così li definì il Ministro degli Interni Piantedosi il 5 novembre 2022 durante una conferenza stampa presso la Prefettura di Milano – di 16 migranti.

Trasportati dalla nave Libra, pattugliatore della Marina militare italiana, dopo due giorni di navigazione arrivano in Albania. Sei provengono dall’Egitto, dieci dal Bangladesh. Tutti maschi, come da accordi tra Roma e Tirana (migranti maschi, non vulnerabili, provenienti da Paesi sicuri); soccorsi al largo di Lampedusa mentre erano a bordo di due imbarcazioni di fortuna salpate da Sabratha e Zuara, entrambe in Libia.
Costo stimato della traversata per l’Albania: tra i 250mila e i 290mila euro, circa 18mila euro a migrante. Una bella spesa per chi da anni lamenta che l’Italia “spreca” troppi soldi per il salvataggio e l’accoglienza delle persone migranti.
Per un’operazione che sa di “spot elettorale”. La pubblicità è l’anima del commercio ma, evidentemente, anche della politica.

Ad accogliere la Libra al porto di Shengjin ci sono anche attivisti che denunciano l’accordo tra Italia e Albania: “The European dream ends here”, si legge sullo striscione, mentre su uno stendardo sono ritratti Edi Rama e Giorgia Meloni vestiti da guardie carcerarie. «La crisi dei migranti non è una crisi che si risolve a scapito di altri popoli», spiegano alla stampa presente.

La contestazione è solo il primo degli intoppi che emergeranno in rapida successione.
Nemmeno il tempo di sbarcare e dei sedici migranti ben quattro devono fare immediato rientro in Italia: due, infatti, risultano minorenni e altri due presentano problemi di salute.

Il vero colpo, però, il governo Meloni lo riceve venerdì 18 ottobre: il Tribunale di Roma decide di non convalidare il trattenimento dei 16, perché provenienti da Paesi considerati “non sicuri”, vale a dire Egitto e Bangladesh. Per produrre la decisione, applica una sentenza del 4 ottobre 2024 con cui la Corte di giustizia europea stabilisce che per essere considerato “sicuro” un Paese dev’esserlo in tutto il suo territorio e per tutte le persone che ci vivono. Criteri che il Tribunale di Roma non ha riscontrato né per il Bangladesh né per l’Egitto – dal quale, tra l’altro, l’Italia attende ancora sia fatta luce e giustizia per l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, presumibilmente assassinato dagli apparati di sicurezza del Cairo nel 2016.
Di più: secondo la Corte di giustizia europea, che un Paese sia sicuro dev’essere verificato dal giudice per ogni specifica situazione, non potendo esser considerata sufficiente la compilazione di una lista di Paesi sicuri da parte di uno Stato.

La reazione di Meloni & Co. è furibonda e si dispiega tanto nel campo discorsivo quanto in quello normativo.

Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio, pubblica su X un post indignato. «Assurdo! Il tribunale non convalida il trattenimento dei migranti in Albania. In aiuto della sinistra parlamentare arriva quella giudiziaria» – si legge sulla grafica, accompagnata da un testo ancor più duro: «Alcuni magistrati politicizzati hanno deciso che non esistono Paesi sicuri di provenienza: impossibile trattenere chi entra illegalmente, vietato rimpatriare i clandestini. Vorrebbero abolire i confini dell’Italia, non lo permetteremo».

Salvini, impegnato quello stesso venerdì 18 nel processo di Palermo in cui rischia fino a 6 anni di carcere per aver sequestrato i 147 migranti a bordo della Open Arms quand’era ministro degli Interni, ai tempi del governo M5s-Lega, non è da meno e scrive: «Se diciamo che non possiamo espellere nessuno, se qualcuno di questi dodici clandestini portati in Albania domani commettesse un reato, rapinasse, stuprasse, uccidesse qualcuno, chi ne paga le conseguenze? Il magistrato che li ha riportati in Italia?».

Il potere mediatico dell’ultradestra è perfettamente allineato. Sabato 19 ottobre le prime pagine dei quotidiani nelle mani del parlamentare leghista e grande ras della sanità privata Angelucci suonano la carica: “Il blitz di giudici e sinistra. L’Italia riaperta ai clandestini” (Il Giornale); “Il golpe giudiziario. I giudici aboliscono i confini” (Libero).

In Tv il copione è lo stesso. Non solo sulle reti Mediaset della famiglia Berlusconi, dove lunedì 21 ottobre viene trasmessa un’intervista a Salvini nel talk show di prima serata Quarta Repubblica. Anche sulla Tv pubblica, in Rai. Sabato 19 ottobre, infatti, il Tg1, il principale telegiornale del Paese, lascia ampio spazio a un’intervista al vice-premier e capo della Lega che può affermare, senza contraddittorio, che «una piccola parte dei magistrati in Italia fa politica, usa il tribunale come un centro sociale».

L’ultradestra di Meloni e Salvini, insomma, sembra impegnata in una nuova crociata contro i giudici, accusati di essere “toghe rosse”, come ai tempi del berlusconismo.
In un’intervista a Repubblica, il presidente del Senato La Russa, che si vanta dei busti di Mussolini che custodisce a casa, avanza la necessità di cambiare la Costituzione per avere «maggiore chiarezza nel rapporto tra politica e magistratura».
Nel mirino, dunque, lo stesso equilibrio tra i poteri.

In campo normativo, Meloni & Co. conducono una battaglia lampo. Il Consiglio dei ministri riunito lunedì 21 ottobre predispone un disegno legislativo che contiene la lista di ben 19 Paesi “sicuri”: Albania, Capo Verde, Bangladesh, Costa d’Avorio, Algeria, Bosnia-Herzegovina, Egitto, Perù, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Senegal, Montenegro, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.
Spariscono tre Paesi prima presenti (Camerun, Colombia e Nigeria). La lista sarà aggiornata annualmente, secondo quanto riferito dal Sottosegretario Mantovano (Il 29 ottobre il Tribunale di Bologna ha rinviato alla Corte di Giustizia europea il decreto del governo sui Paesi sicuri Ndr).

Il governo Meloni agisce così direttamente sul piano della legge. La ratio emerge dalle parole del ministro della Giustizia Nordio: «nel momento in cui un elenco di Paesi sicuri viene inserito in una legge, il giudice non può disapplicare la legge».

Il tutto in attesa che nel 2026 entri in vigore il Patto per la migrazione, firmato ad aprile 2024, che sostituirà la direttiva del 2013 su cui oggi si fonda la definizione di Paese sicuro. Con il nuovo Regolamento per la procedura d’asilo, si allargheranno le maglie di ciò che è considerato “sicuro”: «La designazione di un Paese terzo come Paese d’origine sicuro a livello sia dell’Ue che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili». In sintesi, le sentenze della Corte di giustizia europea del 4 ottobre e quello del Tribunale di Roma del 18 ottobre non potrebbero più sussistere.

Sbaglieremmo a inquadrare l’accordo Italia-Albania e i suoi successivi risvolti semplicemente come una storia italiana. Non solo perché il quadro normativo è quello europeo.
Ma perché è davvero il terreno di sperimentazione di nuove politiche contro i migranti.

In prima fila Ursula Von der Leyen. La presidentessa della Commissione Europea, in vista del Consiglio Europeo del 17 e 18 ottobre 2024, invia una lettera in cui ribadisce che: «Dovremmo anche continuare a esplorare possibili strade da percorrere riguardo all’idea di sviluppare centri di rimpatrio al di fuori dell’Unione Europea, soprattutto in vista di una nuova proposta legislativa sui rimpatri. Con l’avvio delle operazioni previste dal protocollo Italia-Albania, saremo anche in grado di trarre lezioni pratiche».

Il vertice delle istituzioni europee legittima il patto Italia-Albania e considera il governo Meloni la necessaria nave rompighiaccio che possa aprire la strada ad altre imbarcazioni.

L’ultradestra europea è subito in coda.
Geert Wilders, leader del PVV olandese, vincitore delle ultime elezioni e oggi al governo: «L’Italia sta mandando persone in Albania: per noi è un buon modello, un buon esempio. In Olanda stiamo pensando di fare una cosa simile in Uganda».
L’ungherese Viktor Orban usa lo stesso concetto: «L’hub per in migranti in Albania è un buon modello, congratulazioni».

Ma non sono solo i “Patrioti per l’Europa” a essere entusiasti.
Si sommano alcuni importanti membri del Partito popolare europeo. A partire da quel governo austriaco che parla addirittura di un’Italia che “mostra come innovare”. Spiegando: «raccoglie il consenso del Ppe […]. Mi sembra che sia una iniziativa innovativa, che viene seguita con grande interesse».

Sorprendentemente per chi continua a considerarli alternativa alle destre, l’accordo Italia-Albania piace anche ad alcuni socialdemocratici.
La premier danese Mette Frederiksen ha chiesto «nuove soluzioni», sostenendo che «potrebbe essere la cooperazione che esiste ora tra Italia e Albania».
Il laburista britannico Starmer, arrivato a settembre in visita a Roma, dopo aver elogiato il Governo Meloni per i «progressi notevoli» in tema di migranti irregolari, aveva affermato di seguire il protocollo «con molta attenzione».

E se oggi il premier tedesco Olaf Scholz si mostra tiepido («concetti che possono assorbire pochissime piccole gocce, se si guardano i numeri, non sono realmente la soluzione per un Paese grande come la Germania»), è pur vero che fino non troppo tempo fa aveva aperto più di una porta al modello italiano.

Il terreno della “questione migranti” è il principale terreno su cui si dispiega l’egemonia dell’ultradestra, capace di trascinare a sé non solo le destre tradizionali, ma sempre più ampi settori della tradizionale socialdemocrazia e anche di pezzi di vecchia e nuova sinistra.

Si tratta di una delle più pesanti disfatte ideologiche dei “progressisti”, che hanno fatto propria buona parte dell’armamentario ideologico di Orban, Meloni, Le Pen, Abascal: dalla cornice “sicurezza” sotto cui inquadrare il tema migranti, passando per la sacra difesa dei confini, arrivando alla politica di esternalizzazione delle frontiere. Fino a poco tempo fa pronunciata da pochi solo sottovoce, oggi diventa politica ufficiale di uno dei principali governi europei ed esempio per tutto il resto dell’Unione.

Inseguire l’ultradestra non permette una vittoria, come pure suggerivano e continuano a suggerire famosi spin doctor. L’effetto che si produce è il disarmo ideologico, premessa di ogni sconfitta.
Non basta, allo stesso tempo, rimanere su posizioni di mera difesa dei diritti umani.
La questione non è trattare i migranti come esseri umani (anche se per nulla scontato con personaggi come Salvini che, di fronte a un ragazzo maliano ucciso da un poliziotto che stava aggredendo, arriva a scrivere «non ci mancherà», ma smetterla di considerarli “altro da sé” e trovare le forme, culturali e materiali, di costruzione comune di un progetto di trasformazione fondato su quel soggetto collettivo già oggi composto da autoctoni e migranti.

Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

In foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro dell’Interno Piantedosi e il presidente Edi Rama, Gjader, 5 giugno 2024

La giustizia del sofista Trasimaco e quella dei potenti di oggi

«La giustizia è l’utile del più forte», afferma il sofista Trasimaco. Chi era costui? Nato in Calcedonia, intorno al 460 avanti Cristo, è stato un filosofo (e oratore) greco. Della sua vita sappiamo assai poco: è incerta perfino la data del suo decesso. Forse morì suicida. Perché lo ricordiamo allora e perché lo ricordiamo proprio adesso? La sua fama è dovuta al Libro I della Repubblica  di Platone, dove è interlocutore di Socrate.
Cosa è giusto. Ciascun governo – spiega Trasimaco – «istituisce leggi per il proprio utile; la democrazia fa leggi democratiche, la tirannide tiranniche e allo stesso modo gli altri governi. E una volta che hanno fatto le leggi, proclamano che il giusto per i governati è ciò che è, invece, il loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore della legge ed ingiusto». Giusto, dunque – dice il sofista – è «l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza. Così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre identico all’utile del più forte». In tutti i casi, quindi, la giustizia si riduce «a uno strumento del potere costituito, che sia esso democratico, aristocratico o tirannico, finalizzato al suo utile».
Chi è il più forte. Socrate, nel frattempo, dopo aver detto di essere d’accordo sul fatto che il giusto sia qualcosa di utile, sostiene di non aver chiaro il senso dell’aggiunta “del più forte”. E comincia a interrogare Trasimaco: se il giusto è l’utile del più forte, e questi, ingannandosi, ordina ciò che gli sembra utile, ma non lo è, i deboli che gli ubbidiscono non fanno in realtà l’utile del più forte. Trasimaco pensa che Socrate voglia tendergli una trappola e precisa che per “più forte” intende colui che «è più competente e non sbaglia: il governante, in quanto è al governo e fin tanto che riesce a rimanerci, non sbaglia, e stabilisce il giusto come suo utile». La sua precisazione connette strettamente potere e conoscenza: «chi è al potere, lo è perché ha una competenza tale da permettergli di mantenere la sua posizione».
La competenza. Socrate, allora, passa a esaminare quale sia il contenuto di questa competenza. L’esperto di una “téchne” si qualifica come tale non tanto perché sa badare al proprio interesse economico, ma perché sa fare l’utile di ciò di cui la “téchne” stessa è oggetto: «un bravo medico, per esempio, non è in primo luogo un abile uomo d’affari, ma uno che sa curare i malati. Analogamente, un buon governante non si occupa tanto del proprio utile, quanto di quello dei suoi sudditi».
Obbedire. La giustizia secondo Trasimaco funziona, perciò, così: il più forte governa; chi governa fa leggi nel suo interesse; chi governa, finché conserva il potere, non può errare nella valutazione del suo interesse; il giusto è obbedire alla leggi imposte da chi è al potere.
I giusti e gli ingiusti. I “giusti”, sostiene Trasimaco, nelle relazioni con gli “ingiusti” “perdono sempre: sia nei contratti d’affari, sia quando si tratta di pagare le tasse, sia quando si tratta di ricoprire una carica pubblica. L’ingiusto, che sa soverchiare gli altri è, invece, felice: e la massima felicità si realizza con l’ingiustizia perfetta, cioè con la tirannide”.
Oggi. Che conclusioni trarre da questo dialogo tra Socrate e Trasimaco a distanza di quasi 2500 anni? Non assomiglia molto da vicino alle problematiche sollevate oggi da un governo in cui la ‘governabilità’, e suo efficientamento forzoso, deve essere a ogni costo sostenibile e sostenuta per potersi affermare come fondamentale principio politico in atto? Forza, giustizia, competenza (adesso trasformata direttamente in ‘merito’) vengono stravolte nel loro significato e in tal modo usate dal potere per coprire vuoti di pensiero e di azione. La distorsione dei termini non è solo linguistica, è contenutistica, come si diceva una volta. E la forma è da sé un contenuto.
Il giorno dell’anniversario dei due anni dell’esecutivo Meloni è stata pubblicato sul sito del governo un documento in 58 punti, dove il contrasto con i fatti che sono sotto gli occhi di tutti appare stridente (più sotto ne pubblichiamo la premessa ndr.); ricordiamo solo qualche effetto: provvedimenti autoritari molto contestati, riforme costituzionali non rispettose della Costituzione e/o inattuabili, caos nella giustizia nel tentativo di un riordino, difficoltà e inciampi in politica estera, crisi economica galoppante, tagli a sanità, scuola e ricerca tra i più vistosi della prossima finanziaria, un clima di forte tensione sociale, oltre a scandali, gossip e risibili baggianate della propria squadra e viciniori. Tra gli ultimi rumors, su cui peraltro è stata aperta un’inchiesta, la vicenda della “chiave d’oro (valore circa 12mila euro) – secondo il Corsera – donata dal sindaco di Pompei Carmine Lo Sapio a Gennaro Sangiuliano quando era ministro alla Cultura, che ora parrebbe in possesso dell’imprenditrice Maria Rosaria Boccia. Continuiamo quindi a chiederci se il problema sia di cultura (istituzionale) o esclusivamente del ministero della Cultura.
“Io sono Giorgia”, dunque, ma chi è veramente Giorgia? Io sono una donna – che vuole essere chiamata il Presidente – sono una cristiana (che ha vissuto con un uomo senza contrarre il ‘sacro vincolo del matrimonio’) – sono una madre (che ha avuto anche una figlia dall’ormai ex convivente Andrea Giambruno), sono italiana. E quando questa italiana farà pace con la realtà del Paese che governa, evitando inutili trionfalismi?

Due anni di Governo Meloni, due anni di risultati e traguardi per l’Italia?
«Il 22 ottobre 2022, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, i vicepresidenti Antonio Tajani e Matteo Salvini e i ministri del governo hanno prestato giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.
Il 22 ottobre 2024, il governo Meloni, il primo nella storia d’Italia ad essere guidato da una donna, compie due anni ed è diventato il settimo Esecutivo più longevo della Repubblica.
Questo documento elenca in modo sintetico i numeri più importanti e i provvedimenti più significativi approvati e avviati dall’insediamento ad oggi, frutto del lavoro corale del Governo con il prezioso sostegno della macchina amministrativa dello Stato.
Stella polare dell’azione di governo è il rispetto e l’attuazione puntuale del programma comune, con il quale la coalizione di centrodestra si è presentata al cospetto del popolo italiano e ha ricevuto la sua fiducia con le elezioni politiche del 25 settembre 2022.
È un percorso che ha consentito all’Italia di acquisire una nuova centralità e un rinnovato protagonismo a livello internazionale, di rilanciare la crescita economica e l’occupazione, di avviare riforme attese da molto tempo, di proteggere il tessuto produttivo e industriale dall’impatto del caro energia e dalle conseguenze delle crisi geopolitiche in atto, di mettere in sicurezza i conti dello Stato e difendere il potere d’acquisto delle famiglie, in particolare quelle con figli e più fragili.
In un orizzonte di legislatura, il governo continuerà a lavorare per consolidare i risultati raggiunti e per rispettare integralmente il patto programmatico sottoscritto con i cittadini». Sic!

L’autrice: Rossella Guadagnini è giornalista e attivista

 

182 giornalisti palestinesi uccisi mentre chi sopravvive affronta minacce e accuse infondate

L’ufficio stampa del governo di Gaza ha reso noto che dall’inizio dell’escalation di violenza con Israele, partita il 7 ottobre 2023, ben 182 giornalisti palestinesi sono stati uccisi in attacchi israeliani, un bilancio drammatico che ha portato l’ente a parlare apertamente di “guerra di genocidio” in corso contro la popolazione civile e contro la libertà di stampa. Non più voci libere, ma macchie di sangue su una mappa che si tinge sempre più di rosso. In una dichiarazione rilasciata recentemente, l’ufficio ha espresso una condanna netta per quello che considera un attacco deliberato e coordinato contro i professionisti dell’informazione nella Striscia di Gaza, ribadendo la piena responsabilità di Israele per queste morti e per i gravi rischi a cui i giornalisti palestinesi sono esposti. Il governo di Gaza ha anche invitato la comunità internazionale e le organizzazioni giornalistiche globali a intervenire, sollecitando le istituzioni preposte a far pressione per fermare il “genocidio” e, soprattutto, a perseguire Israele nei tribunali internazionali per quello che viene considerato un crimine di guerra.

L’appello per una protezione più efficace dei giornalisti si basa anche sui dati diffusi dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti, secondo cui Gaza è diventata il luogo più pericoloso al mondo per chi opera nel settore dell’informazione. La Striscia è diventata un cimitero per le parole. Una necropoli dove la verità viene seppellita viva, sotto il peso di proiettili e silenzi. L’organizzazione ha calcolato che, nel 2023, il 75% dei giornalisti deceduti a livello globale ha perso la vita proprio nel contesto del conflitto in corso a Gaza. Con un tasso di mortalità superiore al 10% per i giornalisti attivi nella Striscia, il conflitto israelo-palestinese rappresenta il punto di crisi più critico per la stampa negli ultimi 30 anni, evidenziando una situazione che rischia di precludere del tutto la possibilità di raccontare gli eventi in modo indipendente. La situazione diventa ancora più complessa considerando che Israele ha vietato l’ingresso ai giornalisti stranieri, ha alzato un muro di gomma intorno al suo regno di morte, sollevando sospetti sul fatto che questa decisione possa mirare a ridurre al minimo la visibilità di quanto accade nel territorio palestinese e delle condizioni in cui la popolazione civile e gli operatori dei media si trovano costretti a operare.

In parallelo all’escalation di violenza fisica, si è assistito anche a un’intensificazione delle accuse nei confronti dei giornalisti palestinesi, con le autorità israeliane che, il 23 ottobre, hanno dichiarato che sei giornalisti di Al Jazeera sarebbero affiliati a gruppi armati come Hamas o la Jihad Islamica palestinese. Le forze israeliane sostengono di possedere “documenti” che dimostrerebbero il coinvolgimento di questi giornalisti in attività militari, compreso l’addestramento e la retribuzione per le attività, ma finora non sono state rese disponibili prove tangibili a sostegno di queste affermazioni. I giornalisti in questione, tra cui Anas al-Sharif, Talal Aruki, Alaa Salama, Hossam Shabat, Ismail Farid e Ashraf Saraj, vengono così indicati come soggetti non solo scomodi, ma anche “nemici”, condannati a rischiare la vita in un ambiente sempre più pericoloso. Al Jazeera, unica testata internazionale con una presenza costante nel territorio, ha negato con fermezza le accuse, definendole “fabbricate” e mirate a ostacolare l’ultimo baluardo di informazione e trasparenza rimasto a documentare la crisi umanitaria in atto nella Striscia di Gaza, conseguente agli attacchi e all’assedio che la popolazione civile sta subendo.

Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha reagito con durezza alle accuse israeliane, sottolineando come la pratica di diffamare i giornalisti palestinesi etichettandoli come terroristi sia già stata osservata in passato e abbia contribuito a una percezione distorta della realtà sul campo. Il CPJ ha dichiarato che questo tipo di tattiche, in base al diritto internazionale umanitario, costituisce un crimine di guerra, poiché i giornalisti, a meno che non prendano parte attiva alle ostilità, mantengono lo status di civili e devono essere protetti come tali. Nel caso di Ismail al-Ghoul, un giornalista di Al Jazeera ucciso a luglio a Gaza City, il CPJ ha segnalato che Israele, dopo averne dichiarato l’affiliazione a Hamas, ha diffuso informazioni contrastanti sostenendo che al-Ghoul avrebbe ricevuto un grado militare nel 2007, all’età di dieci anni. Tutto ciò evidenzia una situazione in cui le informazioni sembrano essere manipolate e in cui la narrazione dei fatti rischia di venire compromessa da tendenze ideologiche, rendendo sempre più difficile ottenere un quadro veritiero di ciò che accade.

Le accuse israeliane contro i giornalisti palestinesi hanno inoltre sollevato serie preoccupazioni tra gli attivisti dei diritti umani e i difensori della libertà di stampa, che vedono in tali affermazioni una giustificazione per proseguire la violenza contro chi cerca di raccontare la crisi in atto. L’allarmante tendenza a criminalizzare il lavoro giornalistico a Gaza evidenzia quanto sia precario il contesto per i professionisti dei media, specialmente per coloro che, come i palestinesi, si trovano bloccati in una prigione a cielo aperto dove i margini per documentare gli eventi sono estremamente limitati.

La situazione dei media nella Striscia di Gaza riflette quindi non solo un rischio per la sicurezza fisica dei reporter, ma anche un grave attacco alla libertà di informazione. La chiusura dell’accesso ai giornalisti stranieri, le accuse di affiliazione terroristica e le minacce alla sicurezza di chi continua a lavorare nella zona rendono impossibile una narrazione trasparente e indipendente.La comunità internazionale, le organizzazioni per i diritti umani e le principali associazioni di stampa hanno espresso il loro supporto ai giornalisti palestinesi e l’urgenza di fermare queste dinamiche pericolose per la democrazia e la verità. Tuttavia, la combinazione di restrizioni e accuse infondate rende sempre più complicato l’accesso alle informazioni e il monitoraggio imparziale degli eventi, mettendo a rischio il diritto all’informazione e limitando la capacità della stampa di agire come un contrappeso indipendente nei conflitti.

A Gaza, la verità è un clandestino. Nascosta tra le macerie, inseguita dai proiettili, braccata dal silenzio. Eppure, c’è chi la cerca ancora, chi la protegge, chi la fa risplendere in un buio pesto. I giornalisti palestinesi sono i guardiani di questa fiammella, i portatori d’acqua in un deserto di menzogne. Continuano a lavorare, nonostante le minacce, le intimidazioni, la morte che li sfiora. Sono i nostri occhi in una terra di non-luogo, la nostra voce in un mondo che vorrebbe far finta di non sentire.
La resilienza dimostrata da questi giornalisti che continuano a lavorare in condizioni proibitive rappresenta una sfida aperta a chi cerca di ostacolare il diritto a raccontare i fatti. Il loro impegno nel portare alla luce le conseguenze umanitarie di questo conflitto appare essenziale, perché, nonostante le pressioni, rimane un mezzo per mantenere l’attenzione internazionale sulle violazioni dei diritti fondamentali nella regione.

L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce

Votare o patteggiare? In Liguria la risposta è l’astensione

Una regione decapitata da intrallazzi e corruzione, che legano gli interessi del suo presidente regionale a quelli degli affaristi, non spinge alle urne nemmeno la metà degli elettori. Il primo, insindacabile dato delle elezioni regionali in Liguria è questo: nemmeno gli scandali riescono a far recuperare la tessera elettorale dal cassetto.

Quando la politica diventa un esercizio per politici, affezionati, iscritti e fedelissimi, il ripetersi delle stesse logiche diventa altamente probabile. Ma l’astensionismo non è solo un indicatore dello stato di salute della democrazia: è anche un suo esercizio. Insistere sul ritornello «se non votate vi meritate i politici che avete» è un gioco sciocco, un po’ classista.

Le elezioni in Liguria ci dicono, ad esempio, che un patteggiamento per corruzione può essere visto come un peccato veniale. Qualche giorno fa, ospite di una trasmissione televisiva, il giornalista de Il Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto – uno che di corruzione se ne occupa da decenni – ha abbandonato lo studio perché trovava inaccettabile «essere costretto a sentire» l’ex presidente ligure Giovanni Toti, che «gli faceva la morale dopo aver patteggiato una pena a due anni e un mese per corruzione». Barbacetto ha spiegato che, nel patteggiamento, «il giudice ha l’obbligo di verificare se sussiste il proscioglimento, cioè se ritiene innocente la persona coinvolta, dopodiché accetta il patteggiamento».

Di fronte a quel gesto di ecologia civile di Barbacetto, molti hanno commentato che un giornalista avrebbe il dovere di rispettare le sentenze. Ma il punto è proprio questo: restituire la gravità di certe condotte. E su questo, il campo largo non esiste.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Marco Bucci, 28 ottobre 2024

La libertà accademica di dire no alle controriforme del governo Meloni

L’università dovrebbe essere un mondo libero. L’istruzione e la formazione, come la ricerca, dovrebbero sempre essere ispirate dal pensiero critico, aperte alla pluralità delle idee e al dissenso, orientate al cambiamento e alla costruzione di un mondo migliore. Lo dice anche la Costituzione italiana: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento… Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi” (art. 33). Allo stesso modo, la nostra Costituzione afferma il diritto di ciascun individuo di manifestare le proprie idee, considerando ciò una condizione essenziale per lo sviluppo di una comunità democratica.: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21),
Occorre ricordarlo, oggi più che mai, perché non sempre i docenti e i ricercatori sono liberi di agire e di dissentire, di criticare i valori imperanti e di ribellarsi alle tendenze centralistiche e autoritarie attualmente in atto, che minano alle radici l’autonomia universitaria e la libertà d’insegnamento. Da anni ormai, le politiche dirigiste che si condensano nell’attività dell’Anvur, la faraonica e autoreferenziale Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca che ha finito per creare sistema rigido, burocratizzato, con regole di governance che non lasciano spazio alla sana autonomia gestionale e l’utilizzo spesso improprio di concetti come “merito” e “eccellenza”, tendente alla concentrazione delle strutture di didattica e di ricerca in pochi e affollati poli o aree.
Così si mina il diritto allo studio e l’uguaglianza tra tutti i cittadini italiani; si concentrano le risorse nelle aree centrali penalizzando le regioni periferiche, si penalizzano drasticamente le università del Mezzogiorno e le discipline umanistiche che tanta importanza hanno nella formazione dei giovani.
A questa linea, ormai di lungo periodo, si aggiungono ora la proposta del ministro Bernini di istituire nuove figure pre-ruolo, che incrementerebbe il già esteso precariato, e il taglio di oltre 500 milioni di euro al Fondo di Finanziamento delle Università, per non parlare del moltiplicarsi degli atenei telematici nell’ottica di una progressiva privatizzazione del sapere.
Il restringimento degli spazi di libertà e di autonomia nell’Università fa il paio con il disegno governativo autoritario e repressivo che riguarda l’intera società e di cui è espressione il disegno di legge 1660, cosiddetto “Sicurezza”. La saldatura di questo binomio tra attacco al sapere critico e regimentazione sociale comincia ad essere esplicita e preoccupante, non solo nei comportamenti effettivi di repressione del dissenso e di delegittimazione dei conflitti aperti nella società e sul territorio (lavoro, casa, ambiente…), ma anche nei rituali delle istituzioni politiche e accademiche. L’Università del Molise ha invitato ad intervenire alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, che si tiene a Campobasso il 30 ottobre, il ministro dell’Interno Matteo Piantadosi. Chi si è chiesto cosa c’entra il ministro dell’Interno con l’Università? L’Università dovrebbe essere la sede privilegiata della libertà di formazione e ricerca, la fucina del pensiero critico e non un problema di ordine pubblico, né uno spazio da normalizzare.
Si tratta di una situazione generale che richiede una ampia e immediata mobilitazione in tutto il Paese, che chiama ad una responsabilità civile, ancor prima che politica, gli stessi partiti democratici, le forze sindacali e tutte le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei cittadini e gelose della democrazia a suo tempo faticosamente conquistata.
Proprio dal Molise, nella cui Università dovrebbe mettere piede il ministro dell’Interno, è partito un appello, già firmato da oltre 200 tra intellettuali, docenti, rappresentanti della società civile e tante personalità di rilievo del mondo della cultura e delle professioni, con un obiettivo principale: invitare i professori, gli studenti i rappresentati istituzionali, politici, sindacali e del mondo dell’associazionismo e del volontariato a disertare l’inaugurazione dell’anno accademico alla presenza di Piantedosi, come atto visibile e concreto contro le politiche repressive che il governo Meloni sta mettendo in essere. All’appello ha fatto eco un documento del movimento studentesco “Dal Basso”, inviato ai docenti e dirigenti Unimol, nel quale si afferma che l’università deve restare libera e si ribadisce l’invito a disertare la cerimonia di inaugurazione. Anche la FLC, il sindacato CGIL dei lavoratori della conoscenza, con un documento ha fatto sapere che, pur essendo invitata, non parteciperà all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Ateneo molisano: “Noi non ci saremo”, hanno scritto la Camera del Lavoro e la FLC-Molise.
L’attività del Ministro Piantedosi – si legge nell’appello dei 200 – in questi due anni di Governo è stata tutta rivolta alla repressione e alla criminalizzazione del dissenso e della solidarietà. Piantedosi è il ministro del DDL sicurezza 1660 che inasprisce la repressione e le pene per chi dissente, è il ministro che definì “carichi residuali” gli esseri umani morti a Cutro, venendo meno ai principi costituzionali di uguaglianza e di dignità della persona umana. Sembra un paradosso dover ricordare la Costituzione ai ministri che su di essa hanno giurato e che dovrebbero essere i primi ad applicarla e rispettarla.
Tra i primi firmatari dell’appello figurano docenti universitari di diversi Atenei (Molise, Bologna, Firenze, Cassino, Pisa, IUAV Venezia, ecc.). Tra questi Rossano Pazzagli, Adriano Prosperi, Enzo Scandurra, Pietro Bevilacqua, Anna Marson , Alberto Ziparo, Pasquale Beneduce, Ilaria Agostini, Daniela Poli, Pino Ippolito Arminio, l’ideatore di Cammina Molise Giovanni Germano, il giurista Giovanni Russo Spena, il segretario nazionale di FLAI-CGIL Giovanni Mininni, il presidente di Antigone Molise Vincenzo Boncristiano, il coordinatore dell’Osservatorio Repressione Italo Di Sabato, l’assessore alla cultura del Comune di Campobasso Adele Fraracci, i consiglieri regionali del Pd Vittorino Facciolla e Alessandra Salvatore, gli ex consiglieri regionali Nella Astore, Pasquale Di Lena, Domenico Di Lisa, Michele Giambarba, Michele Petraroia, il direttore della rivista “La Fonte” don Antonio Di Lalla, l’artista CROMA. L’appello integrale è disponibile sul sito www.osservatoriorepressione.info
Sarebbe importante che la scintilla accesasi nel piccolo Molise attecchisse nel resto del Paese e la mobilitazione si estendesse a macchia d’olio perché, nelle circostanze date, la costruzione di un mondo migliore può passare solo attraverso la difesa degli spazi di libertà, dei diritti fondamentali e del rispetto del pluralismo, del dissenso e delle lotte sociali che sempre nella storia, insieme al sapere, hanno costituito la principale molla di avanzamento civile e morale.

L’autore: Rossano Pazzagli è docente all’Università del Molise e fa parte della rete di studiosi dell’Officina dei saperi

Non è in vendita la coscienza dei giornalisti (nemmeno su Amazon)

C’è qualcosa di tremendamente affascinante nella dignità di chi sa ancora alzarsi dalla sedia, di chi sa ancora dire “no, grazie” anche quando quel “grazie” vale milioni di dollari. È successo al Washington Post, dove l’ombra lunga di Jeff Bezos ha tentato di soffocare una tradizione quasi cinquantennale di endorsement democratici, scatenando un terremoto che ha fatto tremare le fondamenta del giornalismo americano.

I giornalisti del Post non hanno esitato: hanno sbattuto la porta. Robert Kagan, penna storica del quotidiano, ha definito “facile” la scelta di dimettersi. Facile come sono facili le scelte quando si ha ancora una spina dorsale che funziona, quando si comprende che il giornalismo non è un esercizio di equilibrismo ma una questione di responsabilità.

Mentre in Italia ci culliamo ancora nell’illusione dell’oggettività giornalistica – questa chimera che ci raccontiamo per non affrontare la verità delle nostre scelte – i colleghi americani ci mostrano cosa significa essere intellettualmente onesti: scegliere da che parte stare e dirlo apertamente. Non c’è niente di più trasparente del dichiarare le proprie posizioni, niente di più rispettoso verso i lettori del mostrare le proprie carte.

L’oggettività è un feticcio che abbiamo inventato per nascondere le nostre paure, un velo sottile dietro il quale mascherare le nostre convinzioni. Ma la verità è che ogni parola che scriviamo è già una scelta, ogni virgola è già una presa di posizione. E allora tanto vale avere il coraggio di ammetterlo.

Bezos, con la sua decisione di bloccare l’endorsement a Kamala Harris non ha solo tradito una tradizione: ha mostrato quanto il potere economico possa piegarsi al ricatto del potere politico. Ma ha anche, involontariamente, permesso ai suoi giornalisti di darci una lezione di dignità professionale che dovremmo appendere in ogni redazione italiana.

Forse il vero giornalismo non è quello che si nasconde dietro una presunta neutralità: è quello che ha il coraggio di dire “io sto qui” e di pagarne il prezzo.

 

Foto di Michael Fleischhacker – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11161982

Inquinamento, record negativo in Campania. Il movimento Rigenera presenta un esposto in Procura

Se le classifiche sull’inquinamento dell’aria e segnatamente per le polveri sottili fossero fatte piuttosto che per città capoluogo di Provincia per bacini territoriali di riferimento delle centraline di rilevamento, avremmo un quadro più veritiero della situazione del Paese.
Ad esempio, in una classifica così composta, con riferimento ai dati del 2023, nelle prime 9 classificate per livelli di sforamento dei limiti massimi di concentrazione di polveri sottili e giorni consentiti dalla legge, ben 4 sono di un’unica area della Provincia di Napoli: al primo e secondo posto ci sono le zone di Acerra con 89 giorni di sforamento, contro i 35 massimi consentiti, San Vitaliano con 74. Al settimo posto Volla con 59 giorni e al nono un’altra centralina di Acerra con 54 giorni.
Davanti a Frosinone, Torino, Milano, Mantova, Verona.
Che accade in questo fazzoletto di chilometri quadrati tra i più densamente abitati del Paese che raccoglie oltre 400mila abitanti e a cui se ne aggiungono non pochi scorrendo la classifica nella parte confinante di Provincia di Caserta?
È l’interrogativo che il Movimento Rigenera, che raccoglie in Campania oltre 100 tra Associazioni e singole personalità del mondo della cultura, stanco di mille richieste, sollecitazioni, proposte ha rivolto nei giorni scorsi direttamente alla Procura della Repubblica di Nola con un esposto-denuncia contro la totale assenza di intervento istituzionale e di palese omissione di azione in violazione di precise norme legislative nei confronti di governo nazionale, regionale, della Città metropolitana di Napoli e Provincia di Caserta, dei sindaci di 33 Comuni.
Il legame tra esposizione a forti livelli di inquinamento dell’aria e diffusione di patologie dell’apparato respiratorio, cardiovascolari, oncologiche ed anche abbassamento dei livelli di fertilità è sempre più corroborato da studi e ricerche.
L’esposto-denuncia è corredato proprio dagli studi più avanzati in materia ed anche da una analisi dei dati epidemiologici che confermano che in questa parte del territorio campano, lo ripeto, nella più assoluta inerzia istituzionale, si è consolidata negli anni una situazione di assoluta insostenibilità che si traduce anche in uno dei livelli più bassi, e calante di anno in anno, di attesa di vita: i dati del 2023 infatti si ripetono almeno da 10 anni.
Siamo in presenza di una vera e propria emergenza ambientale e della salute che reclama interventi urgenti di risanamento e conversione ecologica oramai indifferibili: la misura più diretta di cosa vogliano dire i cambiamenti climatici favoriti poi in un territorio che è terzo in Italia per consumo di suolo e ad alto dissesto idrogeologico.
È per spingere per la necessaria svolta che tante Associazioni, organizzazioni sindacali, circoli e movimenti giovanili, mondo delle competenze si sono uniti nel Movimento Rigenera che ha elaborato in modo partecipato attraverso Laboratori di Scrittura in tutti i territori della Campania una Proposta di legge di iniziativa popolare regionale; ha raccolto oltre 13mila firme, a fronte delle 10mila necessarie, in calce alla Proposta che è stata approvata anche da circa 20 Consigli comunali della regione e ha depositato il tutto lo scorso 16 maggio al Consiglio Regionale che a termini di Statuto aveva l’obbligo di esaminare il tutto e deliberare entro i successivi 90 giorni: ad oggi nulla di tutto questo è accaduto.
E così, il Consiglio regionale della Campania viola lo Statuto che esso stesso ha approvato e fa ostruzionismo per impedire la discussione di una Proposta nata in un percorso così partecipato e che articola interventi e misure per il blocco effettivo del consumo di suolo; la spinta decisa alle fonti rinnovabili, ad una inedita strategia di risanamento ambientale e dell’aria – ecco la vera risposta all’emergenza della Provincia di Napoli da cui siamo partiti -, ad una gestione effettivamente pubblica dell’acqua; la conversione ecologica della produzione agricola destinando alle sue forme più naturali e bio esattamente quello che invece, con grande vergogna, ancora oggi è destinato ad agricoltura e allevamenti intensivi, ad altissima azione climalterante: l’80% delle risorse comunitarie gestite dalla Regione.
Su questa azione ostruzionistica sempre nei giorni scorsi il Movimento ha scritto anche al presidente della Repubblica quale supremo garante del corretto funzionamento delle Istituzioni.
È evidente che il blocco di potere legato alla rendita fondiaria e all’economia del cemento piuttosto che a quella della riqualificazione e del recupero, nonostante la crisi climatica che esaspera tutte le ingiustizie sociali, rimane di gran lunga influente anche nella sua trasversalità: non è un caso infatti che tutte le norme più ‘climalteranti’ approvate dal Consiglio regionale, da ultimo quelle di una nuova scellerata legge urbanistica consumasuolo contro cui si è battuto fino alla fine una figura straordinaria di urbanista come Alessandro Dal Piaz proprio di recente scomparso, è stata approvata nella più palese consociazione tra centrosinistra di governo, Verdi compresi purtroppo, e centrodestra di opposizione.

L’autore: Gianfranco Nappi è direttore della rivista Infinitimondi, bimestrale di pensieri di libertà, è autore del libro J’accuse Regi Lagni

Il libro e l’appuntamento il 26 ottobre a Nola con Luciana Castellina

“Terra dei fuochi che può diventare giardino d’Europa e la nuova illusione che si sta consumando ignominiosamente. Rimaniamo a guardare?”. Questo è il sottotitolo del libro J’accuse Regi Lagni di Gianfranco Nappi edito da Infinimondi in libreria dal 25 ottobre. Il 26 ottobre alle ore 10 a Nola, la prima presentazione del volume, con l’autore e Alfonso De Nardo in dialogo con Luciana Castellina (Complesso di Santa Chiara Sala Mozzillo, via Santa Chiara). I Regi Lagni  sono la rete di canali di epoca borbonica che necessitano di una grande opera di risanamento ambientale. Il libro prospetta una nuova ipotesi di futuro, fondata su sostenibilità ambientale, valorizzazione del patrimonio paesaggistico, storico, culturale. Quella che era la Campania Felix non accetta di rimanere Terra dei fuochi. Con un saggio storico sui Regi Lagni di Alfonso De Nardo, esperto di bonifiche e di loro storie, ed una intervista del 1980 a Luigi Cosenza, ingegnere e pianificatore territoriale della seconda metà del ‘900.