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Come negare il diritto alla casa

Il disegno di legge “sicurezza” a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto è l’ultima tappa di un lungo percorso politico, che ha avuto inizio una ventina di anni fa con la nascita delle politiche di sicurezza urbana ma che affonda le sue radici in visioni e rappresentazioni della società elaborate in fasi storiche precedenti, e in particolare nell’Italia liberale e nel periodo fascista.
Si tratta, in sintesi, di un progetto di controllo sociale che prevede l’impiego di specifici strumenti per disciplinare categorie di persone considerate pericolose o sgradite. Uno spartiacque nel rapporto tra conflitto sociale e governi di questo Paese. Un ulteriore provvedimento emergenzialistico, che altro non è se non una risposta del neoliberismo in salsa italiana, rappresentato dalle ventate di populismo che devono molto del proprio successo alla paura e alla percezione di insicurezza. Tuttavia in questo caso la strategia è più fine: non punta solamente ad un tornaconto elettorale facendo “ammalare di terrore” e pompando odio sociale, ma individua e colpisce precisi soggetti. Ovvero tutti coloro che per l’uno o per l’altro motivo rappresentano presenze disarmoniche e incompatibili con lo spazio sociale. Ma a ben vedere, dietro non vi è solo una questione estetica, moralizzante e paternalistica puntata sulla sicurezza e sul decoro. Vi è piuttosto una strategia ben precisa di attacco repressivo contro tutta una grande fascia di composizione sociale a cui non possono essere garantiti diritti, reddito e assistenza.
Una volta individuate le classi laboriose a cui possono essere elargite elemosine (sia sul piano dei diritti che del reddito) senza inceppare la “legge del valore”, per tutti gli altri, la “feccia”, non c’è più posto: per questo bisogna attivare dei violenti meccanismi di espulsione e neutralizzazione.
Sulla scia di questa cultura forcaiola il governo vuole mandare anche un messaggio chiaro alle forze dell’ordine, incoraggiandole ad adottare un approccio repressivo nei confronti di categorie già vulnerabili, ora anche indesiderabili.

I giovani per il clima bollati come criminali

«In generale, il disegno di legge mostra alcune lacune che potrebbero impedire l’esercizio di diritti umani e libertà fondamentali, inclusi (…) le libertà di riunione, espressione e movimento». Questo in sintesi il contenuto di un’opinione legale sul Decreto sicurezza formulata in occasione del dibattito alla Camera dall’Ufficio diritti umani e democrazia (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che contiene una valutazione di conformità del decreto con le libertà fondamentali ed i diritti umani sanciti da convenzioni internazionali di cui l’Italia fa parte. Oltre alle norme che ampliano arbitrariamente il concetto di terrorismo, quelle sulle occupazioni, o sull’ordine pubblico, che restringono drammaticamente il diritto al dissenso o alla protesta, la valutazione dell’Osce-Odihr si sofferma anche sulla questione relativa ai blocchi stradali, modalità di azione diretta nonviolenta e di disobbedienza civile praticata da movimenti quali Ultima generazione o Extinction rebellion, e sulle aggravanti di pena previste dallo stesso decreto. Non a caso la norma in questione è stata ribattezzata “norma anti Gandhi”. L’Osce-Odihr sottolinea come il decreto in questione introduca, a differenza del passato quando il blocco stradale veniva sanzionato con pena amministrativa, una fattispecie di reato penale, con aggravante specifica in casi nei quali il blocco stradale viene effettuato da più persone, con pene detentive previste che andrebbero da sei mesi a due anni. In realtà i blocchi stradali, in quanto modalità di esercizio del diritto di riunione ed assemblea, andrebbero considerati come “uso legittimo dello spazio pubblico”, in egual maniera di altre modalità di uso dello stesso, quali il movimento di veicoli o persone o lo svolgimento di attività economiche. Pertanto, un certo livello di «interruzione della vita ordinaria causata da assemblee, incluso l’interruzione temporanea del traffico», andrebbe tollerato, a meno che non comporti conseguenze sproporzionate o pericolo imminente alla sicurezza pubblica. Infine, gli organizzatori di tali manifestazioni dovrebbero avere la libertà di scegliere, senza interferenza delle autorità statuali, quali possano essere le modalità più efficaci per far passare il proprio messaggio. Preoccupazioni e critiche riprese anche nel comunicato congiunto della rete “In Difesa di”, Ultima generazione, Extinction rebellion, Legal team Italia, Giuristi democratici e Osservatorio sulla repressione reso pubblico alla vigilia dell’inizio del dibattito in Senato.

La barbarie contro chi chiede asilo

Nella sua ottica repressiva, il ddl A.C. 1660/24 non poteva non prevedere delle misure specifiche rivolte agli stranieri; essi rappresentano infatti la categoria perfetta attraverso la quale alimentare quella ossessione della sicurezza che è la base su cui costruire politiche e normative repressive spesso sperimentate sugli stranieri, e successivamente, con i dovuti aggiustamenti, estese al resto della popolazione. Il ddl in oggetto è dunque una chiara espressione di quel “diritto penale del nemico” attraverso il quale vengono costruiti sistemi giuridici differenziati a seconda dei destinatari delle misure repressive che sono radicalmente incompatibili con l’ordinamento democratico.
Una delle normative che il ddl vorrebbe introdurre e che è destinata ad avere l’impatto maggiore sulla vita di un enorme numero di persone è quella prevista dall’articolo 32 in base al quale se il cliente di un servizio di telefonia mobile è cittadino di uno Stato extra Ue il venditore del servizio deve acquisire copia del titolo di soggiorno del cliente. La misura è priva di alcun collegamento con esigenze di controllo e di sicurezza perché la norma vigente già dispone l’obbligo della verifica dell’identità dell’acquirente.
L’articolo 15 della Costituzione garantisce ad ogni individuo (non solo al cittadino) che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». L’assenza di un rilevante interesse pubblico da tutelare che possa essere posto a giustificazione di una compressione così radicale di una libertà fondamentale della persona rende dunque la norma che si vuole introdurre nell’ordinamento di assai dubbia legittimità costituzionale. Colpisce la natura vessatoria della proposta normativa che vorrebbe proibire l’esercizio della libertà di comunicazione a un numero enorme di persone; l’esecutivo in carica non può certo non sapere che la condizione di irregolarità di soggiorno è di fatto la condizione normale nella quale si trovano a vivere, almeno per una parte della loro vita in Italia, un numero enorme di persone.

Ilaria Cucchi: Il pacchetto sicurezza lede le libertà fondamentali

Il pacchetto del disegno di legge 1236 non ha scadenza. Eppure la maggioranza ha una fretta terribile di portarlo in aula per approvarlo. Ci chiediamo quale possano essere i motivi. Per esso le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia operano insieme. Occorre procedere, per il suo esame, alle audizioni di esperti per fare tesoro dei loro pareri al fine di, eventualmente, comprendere se il testo di quel coacervo di norme, possa meritare una seria riflessione in chiave migliorativa, visti i delicatissimi aspetti inerenti l’assetto dei rapporti tra cittadini e Stato su cui interviene a gamba tesa. Assetto che trova la sua ragione d’essere nei principi fondanti la nostra Costituzione.
Si chiama “Pacchetto sicurezza” ma il titolo inganna perché la “tutela” strizza l’occhio soltanto all’autorità in sé e per sé considerata, in chiave sfacciatamente securitaria.
L’Osce (Organizzazione per la sicurezza in Europa) lo ha esaminato e così giudicato: «Nel complesso, il disegno di legge mira a introdurre nuovi reati, come gli atti preparatori di reati terroristici o l’occupazione arbitraria di proprietà, e nuove forme di misure amministrative preventive, insieme a sanzioni più severe, con l’obiettivo di dissuadere i potenziali colpevoli dal commettere futuri reati o altri illeciti (e fin qui tutto bene). Sebbene alcune clausole del disegno di legge possano mirare a correggere le lacune normative del quadro giuridico, la maggior parte delle disposizioni ha il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello Stato di diritto. Nel complesso, il disegno di legge presenta diverse lacune che potrebbero ostacolare l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali, tra cui il divieto di maltrattamento e i diritti alla libertà e alla sicurezza delle persone, le libertà di riunione pacifica, di espressione e di movimento, nonché i diritti a un processo equo e al rispetto della vita privata e familiare».
Un pacchetto sicurezza che può ledere il diritto alla sicurezza dei cittadini.
Parole gravi, durissime ma lucide nell’analisi, che non provengono dall’opposizione alla maggioranza di governo ma da un organismo europeo le cui imparzialità ed autorevolezza in materia specifica, sono indiscusse.
Nonostante tutto questo, vorremmo tanto che il popolo italiano avesse la voglia di osservare dal sito del Senato, le modalità con le quali si svolgono le operazioni in Commissione congiunta.

Dallo Stato sociale allo Stato penale

Siamo di fronte all’ennesimo “pacchetto sicurezza”? Sì, anche. Ma non solo. C’è qualcosa di più. Se diventerà legge, infatti, questo provvedimento produrrà cambiamenti profondi sull’intero assetto istituzionale e nella stessa vita delle persone, di ciascuno di noi.

Manifestare diventerà un lusso o, meglio, un rischio.
Le manifestazioni, infatti, saranno oggetto di interventi repressivi tali da renderle impossibili o, comunque, da disincentivarle in modo massiccio. Manifestare implica, anzitutto, scendere in piazza. Ebbene, la previsione come reato del blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incide direttamente e immediatamente sulla possibilità di scendere in strada. Detto in parole povere, saranno criminalizzati, in caso di manifestazione spontanea e priva di preavviso (ovvero vietata dal questore), anche i dimostranti pacifici che stazionano in gruppo in strada, di fronte ai cancelli di una fabbrica o all’ingresso di una scuola. Sarà cioè punito il semplice assembramento (consentito solo con preavviso e in assenza di indicazioni contrarie dell’autorità di polizia). C’è, sul punto, una cosa che merita segnalare. Il blocco stradale è stato introdotto, con una descrizione onnicomprensiva, nel 1948, ma nel 1999 è stato depenalizzato e trasformato in semplice illecito amministrativo (pur punito con una sanzione pecuniaria non irrisoria). Quasi vent’anni dopo, con il primo decreto Salvini, è iniziato un percorso a ritroso: il blocco stradale è ridiventato reato ma si è previsto che restasse un illecito amministrativo nel caso di ostruzione stradale con la sola presenza fisica. L’attuale disegno di legge riporta alla situazione del 1948, aggravata dall’espressa previsione dell’idoneità ad integrare il reato dell’ostruzione stradale con il solo corpo. Ma non c’è solo la criminalizzazione del blocco stradale, con tutto quel che comporta. Un ulteriore insieme di norme attribuisce alle manifestazioni di piazza in quanto tali una connotazione negativa, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate, se commessi al loro interno (arrivando al paradosso di prevedere una pena fino a vent’anni di reclusione per la resistenza o violenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica»: sic!). Queste previsioni ribaltano addirittura, in termini di maggior repressione, la disciplina del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto» (pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»).

Se il governo mette paura

Lui è un atleta famoso. Ha subìto a Milano un tentativo di furto. Sul suo profilo Ig poche ore dopo ha raccontato il fatto parlando di «città raccapricciante», di «giungla in cui può accadere di tutto» di «assenza di sicurezza». I tanti follower che lo seguono hanno immediatamente reso virale la notizia. Lei è una signora anziana della provincia toscana, che dichiara ad un giornalista, al mercato, di uscire di casa soltanto per le esigenze fondamentali perché “ha paura”. Teme i tanti ragazzi neri che passeggiano in strada ma, alla domanda se fosse mai stata vittima diretta o indiretta di atti di violenza, risponde candidamente: «No, però ho paura». Fra il secondo e il primo episodio sono trascorsi dieci anni. Vicende in parte esplicative per comprendere il successo raccolto oggi dai provvedimenti securitari della destra che governa il Paese. Torniamo indietro nel tempo: il 30 ottobre di 17 anni fa avvenne un delitto che ha inciso nelle vicende politiche e sociali del Paese, l’uccisione di Giovanna Reggiani, presso una stazione ferroviaria romana periferica, lasciata deserta. Era in carica un governo di centro sinistra e la reazione dell’opinione pubblica fu durissima. L’omicida era un cittadino rumeno. I suoi connazionali vennero additati genericamente come criminali da espellere ma, essendo la Romania entrata nell’Ue, era impossibile. Iniziò allora il piano per le “città sicure” che portarono a investire centinaia di milioni di euro per garantire la presenza rassicurante dell’esercito, l’aumento dei decreti di espulsione, l’acquisto di videocamere per rendere più efficace l’apparato repressivo. All’epoca era in carica il secondo governo Prodi, composto da un ventaglio di forze politiche che andava dall’Udeur a Rifondazione comunista e tutta la compagine approvò il primo “pacchetto sicurezza”, apripista per una lunga serie mai interrotta di normative, introdotte, di governo in governo, per fermare i reati cosiddetti predatori (scippi, aggressioni, rapine, molestie ecc). Decreti, disegni di legge, “pacchetti sicurezza”, circolari ministeriali, ordinanze comunali, si sono accumulati in questi anni provvedendo a realizzare una sorta di piramide dei comportamenti da reprimere.
La paura “percepita” da parte delle persone, spesso amplificata dai media, ha creato un cortocircuito cognitivo tale per cui ogni misura applicata ottiene soltanto un immediato effetto “placebo”.
Nonostante l’Italia risulti essere oggi il Paese in Europa con meno reati predatori in Europa, l’opinione pubblica sembra essersi assuefatta ad azioni unicamente repressive per risolvere questioni sociali. Col ddl 1660 (approvato alla Camera) si è raggiunto il massimo andando ad aumentare le pene per comportamenti che non hanno nulla a che fare con il cosiddetto “allarme sociale”.

Razza superiore

Il giochetto è semplice: si fa in modo di creare un “incidente”, sapendo perfettamente che chi fa un determinato mestiere è obbligato, dalla scienza o dalla legge o da un’etica personale o semplicemente dalla propria dalla propria realtà di essere umano ovvero dalla propria coscienza, di opporsi a quanto il governo determina. Ed ecco che il singolo diventa rappresentante di tutti e la professionalità e il fare bene il proprio lavoro diventa posizione politica e poi, delitto ancora peggiore, ostacolo all’attività di governo.
Ecco come funziona la propaganda continua del governo. Provocare un “incidente” per poter essere vittime e poter confermare il consenso. Mi riferisco ovviamente alla vicenda del centro di detenzione per immigrati costruito in Albania e alla inevitabile sentenza di un giudice che ne determina la non ammissibilità. È del tutto evidente che il governo ha scelto con cura gli immigrati che sono stati mandati là (in numero peraltro molto esiguo, appena 12) scegliendo quelli che provengono da Paesi non sicuri. Paesi che sono elencati in una lista facilmente reperibile in rete.
Era quindi ovvio e del tutto pacifico che un magistrato avrebbe applicato la legge europea che, in questo caso, è sovraordinata rispetto a quella nazionale ovvero in caso di conflittualità con altra legislazione prevale. In realtà nessuna azione contro il governo né opinione politica ma semplicemente applicazione della legge.
Ed ecco la mossa della Meloni, anche questa certamente prevista: i magistrati interferiscono nell’azione di governo e QUINDI è necessario modificare la Costituzione.
E ha ragione a preoccuparsi il magistrato. Ha capito perfettamente che qui non c’è un “semplice” attacco alla magistratura, come poteva essere quello di Berlusconi per i propri guai giudiziari, ma c’è un attacco alla Costituzione. Attacco progettato dalla presidente del Consiglio e verbalizzato dalla seconda carica dello Stato.
Dobbiamo dedurne che Meloni pensa che la Costituzione, che definisce i poteri del governo e i contrappesi a tali poteri, così com’è non permetterebbe al governo di fare ciò che è necessario.
Ed in effetti, se osserviamo attentamente, è possibile vedere che c’è un disegno nemmeno tanto nascosto, di attacco ai contrappesi ai poteri del governo, in maniera lenta ma apparentemente inesorabile.
Prima il premierato, che elimina ogni potere del presidente della Repubblica e di fatto elimina il potere del Parlamento di nominare un governo diverso da quello eletto. In sostanza si fa del Parlamento una corte e del presidente della Repubblica un maggiordomo, tutti al servizio del presidente del Consiglio che diventa un sovrano assoluto, senza possibilità di contestazione.
Poi la Corte costituzionale, con il tentativo di occupare e piegare il massimo organo giuridico a logiche di partito, cercando la nomina senza consenso della minoranza e candidando a giudice chi ha scritto la legge sul premierato e che dovrà certamente essere esaminata dalla corte stessa. Un conflitto istituzionale mai visto nella storia della Repubblica.
E adesso la magistratura e la sua indipendenza. Non è semplicemente un attacco ai Pm che sarebbero “politicizzati”, come ai tempi di Berlusconi. Qui vengono attaccati i giudici che interferirebbero con l’azione di governo e di conseguenza viene messa in discussione la separazione dei poteri. Il presidente del Consiglio, la sovrana, non deve mai essere contestata. Perché lei non può sbagliare visto che tutto quello che fa lo fa per gli Italiani tutti! Come si potrebbe pensare che non voglia il bene di tutti? Viola qualche legge? Non c’è problema, lo fa per il nostro bene, per proteggerci. Suvvia, che ne possono sapere i magistrati? Anche perché non devono occuparsi di politica… devono solo arrestare e mandare in galera i delinquenti, e se sono immigrati, non italiani, anche meglio. Ora l’ultima uscita, sempre nella stessa direzione, grazie alla solerte Roccella che probabilmente si aspetta una medaglia per il suo pensiero solare, talmente ovvio che quasi si meraviglia lei stessa che non la pensino tutti come loro. I medici e i pediatri, che sospettino di avere a che fare con bambini frutto di una maternità surrogata devono denunciare! I medici devono essere delatori.
Lo scopo è sempre lo stesso e non è solo di potere ma è soprattutto manipolatorio: lo scopo è piegare le menti, far pensare che sia ovvio che debba essere così. Lasciate decidere ad altri, lasciate decidere a noi per voi. E sospettate di chi vi instilla il dubbio, di chi vi fa pensare che la realtà è più complessa. Invece no, è solo bianco e nero e naturalmente il governo è sicuramente dalla parte giusta.
La società del sospetto, instillare nelle menti dei cittadini che dobbiamo sospettare di chiunque non la pensi come dicono loro. Left del giugno 2023 aveva la copertina di 1984, il romanzo di Orwell. Lo abbiamo sostenuto fin dall’inizio del governo Meloni che lo scopo era ed è questo.
Quale sia il seguito di questa manipolazione dell’opinione pubblica è difficile capirlo. Certamente i segnali non sono rassicuranti. Perché è in corso non solo un’occupazione politica dei posti chiave, malcostume di tutti i governi, ma anche un’occupazione normativa e ideologica.
Ci sarebbe anche da parlare di alcuni provvedimenti minori, come il cosiddetto piracy shield. Strumento per combattere la pirateria che però, secondo i tecnici, rischierebbe di provocare danni e per come è progettato e per come funziona, potrebbe essere usato anche in maniera molto pericolosa se cadesse nelle mani sbagliate.
È uno strumento che permette di oscurare agli utenti di internet che sono in Italia, automaticamente e senza nessun tipo di controllo da parte di un organismo terzo (Agcom, giudici, etc.), parti di internet, senza nessuna eccezione. La legislazione prevede che è sufficiente la denuncia di un sospetto di attività legata allo streaming illegale agli incaricati e scatta il blocco. È certamente vero che ad oggi è stato pensato e viene usato contro la pirateria in particolare legata alla trasmissione delle partite di calcio.
Ma il fatto che si possa agire anche sulla base di sospetti lo rende uno strumento potenzialmente letale: che succederebbe se qualcuno avesse il sospetto che, per esempio, il sito di qualche importante quotidiano nazionale collabora allo streaming illegale? Lo si potrebbe oscurare? E se poi cambiasse la normativa e l’attività di blocco si allargasse ad altri contesti (in cui il governo è recentemente intervenuto), come per esempio il divieto di pubblicazione delle notizie di reato?
Sono scenari estremi, potremmo dire distopici e che quindi pensiamo e speriamo che non si realizzino mai.
Non sono quindi preoccupato nel breve periodo, anche perché ritengo che la Costituzione ci dia sufficienti garanzie e strumenti per la protezione dello Stato democratico.
Rimango però convinto che vada visto il disegno, vada vista con attenzione l’ideologia, la trama nascosta nelle azioni di questo governo. Va secondo me vista bene questa idea di umanità superiore che è chiaramente un pensiero ben presente nella Meloni e nei suoi compagni di partito.
Un’idea per cui questa destra, questa Compagnia dell’anello è riuscita ad arrivare al governo perché ha il compito di realizzare una missione e quindi ha un diritto-dovere storico e politico di governare e di far aderire a questa strana ideologia la popolazione italiana.
Loro sono i predestinati e tutti gli altri, cioè noi, dobbiamo adeguarci, acclamare la sovrana e la sua infinita saggezza e la sua umanità più umana di tutti gli altri e anche di noi.
Io credo che il pensiero politico di questa destra sia essenzialmente questo: affermare e propalare una propria superiorità. Ma questa non è altro che l’essenza del fascismo, un’idea che una volta veniva rozzamente definita come razza superiore. Adesso, forse più furbescamente, viene denominato «pensiero solare» ed è anche molto accondiscendente con tutte le opinioni altrui… almeno finché rimangono tali e non diventano di ostacolo all’azione politica degli “eletti”. La sinistra e in generale l’opposizione nel suo insieme, quindi il Pd e tutti gli altri partiti piccoli e piccolissimi, dovrebbero stare attenti a non farsi gettare la sabbia negli occhi dal fattarello, dal caso particolare che serve per distogliere lo sguardo dal vedere il disegno d’insieme. Da parte nostra continueremo a cercare di capire e denunciare questo pensiero subdolo e pericoloso.

Prove tecniche di Stato etico

Secondo il governo Meloni in Italia è emergenza sicurezza. Ma di quale sicurezza parlano? La loro? Come documentiamo su Left, dati alla mano, il nostro è un Paese sicuro. Da anni, calano i reati “predatori”, calano gli omicidi. Ma c’è un dato agghiacciante: non calano affatto i femminicidi e la violenza contro le donne. E non sono gli stranieri a stuprare e uccidere come certa narrazione “politica” vorrebbe far credere. Tutte le indagini ci dicono che a colpire e a uccidere le donne sono soprattutto mariti, fidanzati ed ex. Rileggendo i dati diffusi dal Viminale lo scorso agosto il dato più evidente è quello delle vittime di sesso femminile. Dall’1 gennaio 2023 al 31 luglio 2024 sono state 175. Sappiamo che il 31,5% delle donne in Italia ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Al primo settembre i femminicidi erano 65 su un totale di 192 omicidi. E mentre scriviamo sono sono 90 le donne uccise.
Checché ne dica Salvini l’Istat e le ricerche di Antigone documentano che nove volte su dieci la violenza è commessa da italiani. Ma il ministro Salvini, quando il Tribunale di Roma non ha convalidato la deportazione di 12 migranti in Albania ha commentato: «Se stuprano pagano i giudici». A fronte di questa inaccettabile piaga strutturale della violenza sulle donne per il governo Meloni, che ha tagliato i fondi ai centri antiviolenza, la priorità è approvare il ddl 1660/24, a firma di Piantedosi, Nordio e Crosetto, il cosiddetto nuovo pacchetto sicurezza. Il punto è che non si occupa di sicurezza, quanto di definire una ventina di nuovi reati, criminalizzando perfino le forme non violente di lotta e di espressione del dissenso. Non a caso è stato definito decreto anti Gandhi. Basti dire che con questo provvedimento, passato alla Camera e, mentre scriviamo, in discussione al Senato, diventa reato anche la resistenza passiva in carcere. Così i detenuti non potranno neanche ricorrere a tecniche di lotta nonviolenta per segnalare e denunciare le condizioni troppo spesso inumane e degradanti in cui si trovano a vivere nonostante quel che dice l’articolo 27 della Carta. Lo stesso vale per chi è rinchiuso in un Cpr o in un hotspot, peraltro non avendo commesso alcun reato. Inoltre se il ddl dovesse diventare legge, chi protesta pacificamente con lo strumento del blocco stradale, come hanno fatto gli ex operai Whirlpool e i giovani di Ultima generazione o Extinction Rebellion, sarà imputabile per un illecito penale, non più amministrativo.
Di questo panpenalismo meloniano, volto soltanto al controllo sociale e a zittire e reprimere il dissenso colpendo fasce sociali ben precise, scrivono su Left eminenti giuristi, avvocati, parlamentari, esponenti di Osservatorio repressione, Asgi e altri movimenti e associazioni. Fra loro anche Ilaria Cucchi. La senatrice di AVS denuncia la torsione autoritaria che – dopo i feroci decreti Caivano e Cutro – questo provvedimento impone ulteriormente, facendo fare un salto di paradigma alla ossessione per la sicurezza (selettiva) che già improntava i decreti Salvini e il “decreto Reggiani” che fu promosso da Veltroni .
Diciamolo chiaramente: il nuovo disegno di legge colpisce princìpi costituzionali fondamentali come il diritto a manifestare pacificamente e il diritto d’asilo. Ma si caratterizza anche per insensati sadismi, tra cui spicca il divieto di vendere schede Sim a immigrati senza permesso di soggiorno e la cancellazione del differimento obbligatorio del carcere per le donne incinte e le madri con figli fino ad anno. Colpisce questo accanimento, tanto più da parte di un governo che fa tanta retorica sulla maternità e sulla necessità che le italiane facciano figli “per la patria”. In questo quadro appare ancora più contraddittoria la persecuzione delle coppie italiane che ricorrono alla gestazione per altri in Paesi dove è legale. Peraltro la gestazione solidale, ora divenuta è già proibita in Italia dalla antiscientifica e clericale legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita.
Dunque che senso ha averla resa «reato universale»? Pur di perseguitare chi desidera avere un figlio e non può averlo, il governo Meloni impone una legge monstrum, senza contare che l’extraterritorialità della giustizia non può essere applicata. Intanto però il ministro Roccella vorrebbe che i medici abdicassero alla loro deontologia e al dovere di curare diventando delatori!
Condannare fino a due anni di carcere persone che a causa di una patologia si sono recati all’estero per la Gpa significa solo voler imporre, in nome di Dio patria e famiglia, una norma da Stato etico. «È un uso propagandistico della legge ai fini della Ragion di Stato» dice Marco Cappato dell’Associazione Coscioni che con l’avvocata Filomena Gallo giustamente promette battaglia sul piano legale. Ma occorre fare anche una battaglia culturale, ribadendo, su basi scientifiche, che la vita umana comincia alla nascita e solo da quel momento si diventa genitori, che sia un figlio biologico o meno, non cambia nulla. Cambia molto invece il fatto che il neonato sia amato, desiderato, che i genitori sappiano rispondere non solo ai suoi bisogni ma alle sue esigenze psichiche profonde, alla sua richiesta di affetto e di rapporto. Certo, è importantissimo che le donne che si prestano per la Gpa siano libere nella scelta e non sfruttate – per questo servono buone leggi come ce ne sono in Canada e altrove – ma perché impedire a una sorella, a un’amica ma anche a una sconosciuta di compiere un gesto così bello?
«La Gpa è una donazione di organo temporanea che ha il vantaggio di essere reversibile», ha detto il virologo e senatore Pd Andrea Crisanti in Aula. «Ma in Italia un’azione terapeutica diventa reato universale, mentre non lo è il traffico di organi, quello sì un abominio che colpisce i più deboli. E il governo rimane in silenzio». Per fortuna presto la scienza potrebbe dare ulteriori risposte. Da molti anni vari gruppi di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di dispositivi che si prefigurano come utero artificiale. E non è lontana la sperimentazione sull’essere umano, come ha scritto in un documentato articolo Roberto Manzocco il 20 ottobre su Il Sole 24 ore, evidenziando come questa tecnica potrebbe salvare bambini a rischio perché molto prematuri. Ed è un primo step verso applicazioni più estese. «Il termine tecnico per indicare questa tecnologia è ectogenesi ed indica la gestazione dell’essere umano in un ambiente completamente artificiale». Ma non lo diciamo a Meloni, altrimenti vorrà dare la caccia a questi scienziati in tutto il globo terracqueo.

Nella foto: Papa Bergoglio e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, Vertice G7, Bagna Egnazia, Brindisi, 14 giugno 2024

Il Senato degli Stati Uniti potrebbe virare a destra? Otto sfide da tenere d’occhio il 5 di novembre

Donald Trump

I democratici hanno una risicata maggioranza nella Camera alta del Congresso. Ma quel vantaggio potrebbe erodersi, con 34 seggi del Senato in palio e solo otto con corse competitive.
Tutti gli occhi sono puntati sulla corsa alla presidenza degli Stati Uniti, mentre l’ex presidente Donald Trump cerca di strappare una vittoria alla vicepresidente Kamala Harris. Ma mentre entrambi i candidati si sforzano di andare avanti nella loro corsa, altre sfide si stanno svolgendo in tutti gli Stati Uniti, con l’equilibrio del potere in gioco. Le elezioni generali del 5 novembre non solo decideranno il prossimo presidente, ma anche quale partito controlla le due camere del Congresso: il Senato e la Camera dei rappresentanti.
In questo momento, il Congresso è diviso. I repubblicani guidano la Camera, mentre i democratici detengono il Senato. Ma molti analisti politici ipotizzano che il Senato potrebbe essere sul punto di passare sotto il controllo dei repubblicani in questo ciclo elettorale, rendendo le gare dei suoi candidati da tenere d’occhio.
Ci sono 100 seggi totali al Senato, un terzo dei quali sono in palio ogni due anni. I democratici e gli indipendenti alleati (come Bernie Sanders e altri tre) attualmente rivendicano 51 seggi, un vantaggio risicato che potrebbe essere facilmente perso. Di fatto i democratici partono da 50, dato che con il pensionamento del senatore democratico moderato Joe Manchin del West Virginia, è praticamente certo che il suo seggio passerà al repubblicano Jim Justice, attuale governatore dello Stato.
Il modo in cui è strutturato il Senato nel complesso dà ai repubblicani un vantaggio intrinseco. Questo perché il Senato assegna un numero uguale di seggi a ogni Stato (2) e, in virtù del fatto che le aree rurali votano più repubblicano, ci sono più Stati tendenti al rosso che al blu. Questa tendenza è aumentata nel tempo, soprattutto perché il voto disgiunto (split-ticket) è diventato meno comune. Il seggio medio del Senato dopo le elezioni del 2020 era 5 punti più rosso rispetto al paese nel suo complesso, il che significa che i democratici devono vincere in tutti gli Stati blu, più una manciata di stati leggermente rossi, per ottenere il controllo del Senato.
Trentaquattro seggi del Senato sono in votazione quest’anno elettorale (i democratici ne hanno 19, i repubblicani 11 e gli indipendenti 4). Trentatré di questi seggi sono in palio per elezioni regolari, mentre uno è in palio per un’elezione speciale (in Nebraska). I democratici stanno difendendo tre seggi al Senato negli Stati vinti da Trump alle elezioni presidenziali del 2020. I repubblicani non stanno difendendo alcun seggio al Senato negli Stati vinti da Joe Biden nel 2020. Otto gare sono considerate molto competitive. E le probabilità non sono dalla parte dei Democratici. Sette di quegli otto seggi in difficoltà sono attualmente occupati dai Democratici. Solo un seggio in mano ai Repubblicani è considerato in palio. Per prevenire un potenziale Senato repubblicano, la campagna di Harris ha finora trasferito quasi 25 milioni di dollari al Democratic Senatorial Campaign Committee e ad altri gruppi concentrati sull’elezione di democratici di basso rango.
In definitiva, chiunque controlli il Congresso controlla la capacità di approvare la legislazione, le nomine governative e dei giudici federali e della Corte Suprema, tra gli altri poteri. E questo potrebbe sostenere o condannare l’agenda di qualsiasi presidente in arrivo.
Vediamo, quindi, quali sono i seggi del Senato che potrebbero cambiare schieramento.

Montana
Il controllo del Senato potrebbe essere giocato in Montana, uno Stato settentrionale di grandi dimensioni e prevalentemente rurale (grande più o meno quanto il Giappone e con più mucche che persone) con una popolazione di appena 1,1 milioni. Il senatore democratico moderato del Montana Jon Tester ha mantenuto il suo seggio per tre mandati, ma l’agricoltore diventato politico ha ripetutamente dovuto affrontare difficili sfide nello Stato solidamente repubblicano). Il Montana, ad esempio, ha costantemente votato per i candidati repubblicani alla presidenza dal 1968, fatta eccezione per una risicata vittoria del democratico Bill Clinton nel 1992.
Tester viene descritto come un “unicorno”, un raro democratico che ha avuto successo nelle elezioni statali e federali. Ma Tester/unicorno potrebbe anche essere una razza in via di estinzione. È un agricoltore e un democratico rurale, l’ultimo democratico rurale (che ha lavorato come agricoltore, insegnante, macellaio e senatore statale prima di candidarsi alle elezioni federali). Per cui, la corsa al Senato nel Montana è ampiamente vista come una cartina tornasole per verificare se i democratici possono ancora vincere negli Stati prevalentemente rurali che negli ultimi decenni hanno abbracciato il partito repubblicano di Trump.
Tester, 68 anni, è un simpatico e modesto contadino del Montana fino al midollo che incarna la politica vecchio stile (bussare alle porte, stringere mani, andare in giro per la comunità, conoscere personalmente le persone). Le sue campagne pubblicitarie sottolineano il suo background rurale, comprese le tre dita mancanti della mano sinistra, perse a causa di un tritacarne che possiede ancora. È al Senato da 18 anni ed è stato elogiato per il suo lavoro a favore dell’industria agricola, dei veterani militari e delle comunità dei nativi americani (circa 70 mila pari al 7% della popolazione) che vivono in sette riserve. Tester non ha tenuto alcun evento della campagna con Harris, anzi, ha rifiutato di sostenerla.
Lo sfidante di Tester in questa tornata elettorale è l’ex Navy SEAL e imprenditore Tim Sheehy, candidato repubblicano sostenuto da Trump. Sheehy, 37 anni, è un outsider al confronto. Si è trasferito nel Montana nel 2014 per crescere una famiglia e avviare un’attività di spegnimento degli incendi con una piccola flotta di aerei. È modellato sullo stampo di Trump: non ha precedenti esperienze politiche, è ostile ai media (ha rilasciato poche interviste) ed è stato perseguitato da una serie di controversie per affermazioni esagerate o fuorvianti sul suo passato.
Sondaggi recenti mostrano Sheehy in testa all’avvicinarsi del voto di novembre. Gli analisti notano che i numeri di Sheehy sono stati rafforzati da tendenze economiche e sociali. Ad esempio, la crescita della popolazione (prevalentemente bianca) del Montana negli ultimi anni, con tanti arrivati dall’Arizona, dallo Stato di Washington, dalla California e dal Texas. Ora quasi la metà dei cittadini del Montana non sono nati nello Stato e sono stati attirati dall’industria tecnologica e dal turismo. Un processo che ha contribuito a una crisi del costo della vita e all’aumento dei prezzi delle case in tutto lo Stato. Ciò ha intaccato il sostegno di Tester tra i sindacati e nelle tasche più liberal del Montana. Sheehy ha, prevedibilmente, tentato di adattare il problema a un quadro nazionale. Prendendo a prestito il tema centrale della campagna di Trump, ha sostenuto con poche prove che gli immigrati stranieri stanno arrivando nello Stato e stanno facendo aumentare il prezzo delle case. Da parte loro, i democratici hanno bollato Sheehy esattamente come il tipo di ricco proveniente da fuori che ha acquistato numerose case in tutto il Montana, contribuendo a far aumentare i costi per la gente del posto. Tester ha avvertito che Sheehy vuole vendere terreni pubblici a persone ricche e fare del Montana il suo parco giochi personale.
La politica dello Stato ha virato a destra. Quando Tester è entrato al Senato nel 2007, i democratici ricoprivano quasi tutte le cariche elettive statali nel Montana, da governatore, segretario di stato e procuratore generale e a due dei tre seggi dello Stato al Congresso. Ma i repubblicani hanno costantemente conquistato una roccaforte democratica dopo l’altra. Lo Stato è passato dal voto per il candidato repubblicano alla presidenza di 2 punti nel 2008 a 16 punti nel 2020. Tester è ora l’ultimo democratico in carica a livello statale. Prendendo le distanze dalla corsa alla Casa Bianca, sta chiedendo agli elettori di votare in modo disgiunto, cosa sempre più rara nell’era del tribalismo politico e del declino dei media locali. Uno dei fattori che determinano questa polarizzazione è il declino dei giornali locali e l’ascesa delle radio e della televisione via cavo, che offrono notizie nazionali attraverso una lente di parte. Allo stesso tempo, i repubblicani hanno cercato in tutti i modi di nazionalizzare la corsa per il seggio senatoriale, associando Tester a Biden o Harris. I gruppi allineati ai repubblicani stanno puntualmente pompando milioni di dollari nella corsa. Così, la quantità di denaro in questa corsa per gli standard del Montana è diventata semplicemente sbalorditiva: nel 2016 sono stati spesi 100 milioni di dollari, ora 250 milioni.

Wisconsin
Il Wisconsin faceva parte del “muro blu” dei democratici: un gruppo di Stati che votavano costantemente per il partito. Ma negli ultimi otto anni, lo Stato è diventato uno degli Stati indecisi più ambiti del Paese.
La democratica Tammy Baldwin è salita al potere durante gli anni del “muro blu”. Da quando aveva 24 anni, è stata politicamente attiva nello Stato del Midwest: il suo primo incarico elettivo è stato nel Consiglio dei supervisori della contea di Dane nel 1986. Nel 1999 venne eletta alla Camera dei rappresentanti federale, diventando la prima donna a rappresentare lo Stato al Congresso. Poi, nel 2012, divenne anche la prima persona apertamente gay eletta al Senato degli Stati Uniti. Si è vantata di essere un membro progressista affidabile del partito e ha vinto comodamente la rielezione nel 2018.
Ma le elezioni di quest’anno sono una storia diversa. Il suo vantaggio iniziale nei sondaggi è evaporato con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre. Affronta il repubblicano Eric Hovde, un dirigente bancario milionario. È anche l’amministratore delegato della società di sviluppo immobiliare della sua famiglia. Hovde ha investito milioni di dollari di tasca propria nella corsa e ha attaccato il suo rivale democratico per la spesa pubblica e l’inflazione. Ha anche chiesto la chiusura del confine tra Stati Uniti e Messico. Baldwin, nel frattempo, ha cercato di posizionarsi come la candidata con esperienza, rispetto a Hovde, che non ha mai ricoperto una carica pubblica.

Ohio
Il senatore Sherrod Brown è un altro democratico in uno Stato sempre più repubblicano: l’Ohio. Ogni Stato ha due seggi al Senato degli Stati Uniti e nel 2022, durante l’ultimo ciclo elettorale, la natura serrata delle elezioni dell’Ohio è stata pienamente messa in mostra, poiché il nuovo arrivato in politica JD Vance ha vinto una elezione competitiva per il secondo seggio al Senato dell’Ohio. Il senatore Vance è ora il compagno di corsa di Trump nel ticket presidenziale repubblicano.
A differenza del senatore matricola dell’Ohio, Brown è un politico di lunga data dell’Ohio che ha prestato servizio nel governo statale prima di essere eletto alla Camera federale e in seguito al Senato. Ha coltivato una reputazione populista e pro-sindacale. Si presenta come un professore in abiti spesso sgualciti. Brown è arrivato per la prima volta al Senato nel 2006, sconfiggendo un repubblicano in carica per due mandati. Nel 2018, aveva vinto con 7 punti percentuali. Ma ora è Brown il candidato in carica, e i sondaggi lo mostrano vulnerabile al suo sfidante repubblicano, Bernie Moreno, un immigrato colombiano proprietario di una concessionaria di automobili. Brown sta cercando di convincere una fetta degli elettori di Trump a votare in modo disgiunto.
Moreno ha il sostegno di Trump e l’Ohio si è sempre più orientato verso i repubblicani negli ultimi anni. Brown è considerato l’unico democratico ad aver ricoperto una carica elettiva a livello statale. Moreno e Brown sono attualmente testa a testa: un sondaggio del Washington Post di ottobre ha rilevato che il 48% degli elettori intervistati sostiene Brown, contro il 47% per Moreno.
Ad aumentare la pressione c’è l’attenzione nazionale sull’Ohio. Repubblicani come Trump hanno usato lo Stato, e in particolare la città di Springfield, come esempio delle presunte minacce che l’immigrazione pone (montando il caso dei rifugiati della comunità di Haiti che mangerebbero gatti e cani dei cittadini americani). Ma Brown ha cercato di ottenere un sostegno bipartisan. “Ho tenuto testa ai presidenti di entrambi i partiti”, ha detto ai media locali ad agosto. Negli ultimi giorni della corsa, Brown ha anche messo le mani su un filmato del cellulare che mostrava Moreno criticare le donne over 50 che sostenevano l’accesso all’aborto. “Pensavo tra me e me: ‘Non credo che sia un problema per te'”, si può sentire Moreno dire nella registrazione.
La famiglia di Moreno è emigrata dalla Colombia quando Bernie era bambino e lui ha sempre sottolineato un’infanzia di umili origini negli Stati Uniti, sebbene la sua famiglia sia ben collegata all’élite colombiana.

Nevada
La battaglia per il Senato rispecchia la battaglia per la presidenza, in quanto gli Stati indecisi avranno un peso sproporzionato. Questo è vero per il Nevada, uno Stato che si ritiene abbia una quantità pressoché uguale di democratici e repubblicani. Ciò rende la corsa al Senato molto combattuta.
La democratica in carica Jacky Rosen è stata eletta per la prima volta nel 2018, quando ha estromesso il repubblicano che in precedenza deteneva il seggio. Ora, è il suo turno di giocare in difesa, mentre cerca di respingere il candidato repubblicano Sam Brown.
Lo Stato, con un’economia che si basa fortemente sul turismo, sta ancora lottando per riprendersi dagli impatti economici della pandemia e ha sperimentato un elevato aumento del costo della vita e dei costi degli alloggi. Il Nevada ha anche una grande popolazione latina, una fascia demografica tradizionalmente democratica in cui Trump e i repubblicani hanno fatto notevoli progressi.
Brown è un veterano che ha prestato servizio con l’esercito statunitense in Afghanistan, dove ha subito gravi ustioni a causa di un ordigno esplosivo artigianale. Successivamente ha ricevuto un Purple Heart, un’onorificenza conferita a coloro che sono stati uccisi o feriti in combattimento.
Trump ha dato a Brown il suo timbro di approvazione, ma altri repubblicani nello Stato lo hanno criticato per la mancanza di una campagna elettorale di base. Rosen, nel frattempo, ha cercato di evidenziare la passata opposizione di Brown all’aborto e la sua affiliazione al movimento “Make America Great Again” (MAGA) di Trump. Uno spot televisivo prodotto dalla sua campagna ha definito Brown “un altro estremista MAGA che cerca di togliere i diritti all’aborto”.

Pennsylvania
Un altro Stato indeciso che potrebbe determinare la composizione del Senato è la Pennsylvania, parte della regione medio-atlantica degli Stati Uniti. Il democratico moderato in carica Bob Casey punta a un quarto mandato. Avvocato e figlio di un ex governatore, Casey è una figura popolare e un veterano della sfera politica dello Stato.
Ma a cercare di farlo scendere dal suo piedistallo è David McCormick, un ex CEO di un hedge fund che ha lavorato nell’amministrazione del presidente repubblicano George W Bush. McCormick ha tentato di dipingere Casey come un politico di professione fuori dal contatto con i cittadini comuni della Pennsylvania. “Non accetterò prediche da un tizio che ha trascorso 30 anni in una carica pubblica e non ha fatto molto”, ha detto il repubblicano in un recente dibattito. Ha anche evidenziato incongruenze nella posizione di Casey su questioni come l’accesso all’aborto.
Casey, nel frattempo, ha sottolineato la resistenza di McCormick alle normative sulle armi da fuoco e i suoi investimenti in aziende cinesi. La corsa, ha detto Casey, si riduce al “mio lavoro al Senato degli Stati Uniti e al suo lavoro come CEO di un hedge fund”.

Michigan
La senatrice democratica del Michigan Debbie Stabenow ha fatto esplodere una bomba nel 2023, quando ha annunciato i suoi piani di andare in pensione una volta scaduto il suo attuale mandato. Ciò significava che si sarebbe liberato un seggio al Senato, senza alcun candidato in carica a difenderlo.
Nei mesi successivi, si è svolta una serrata gara nello stato del Michigan, nel Midwest, che negli ultimi anni ha oscillato tra candidati repubblicani e democratici. I democratici sperano che la moderata Elissa Slotkin, attualmente membro della Camera federale, possa mantenere il seggio per il partito. Slotkin ha lavorato in passato con la Central Intelligence Agency (CIA) e il Dipartimento della Difesa e ha pubblicizzato il suo background nella sicurezza nazionale come fonte di appeal bipartisan. La rabbia degli elettori arabo-americani nello Stato per la gestione della guerra israeliana a Gaza da parte dell’amministrazione Biden potrebbe rappresentare un problema per la candidata democratica.
Il suo sfidante è Mike Rogers, ex membro della Camera dei rappresentanti federale dal 2011 al 2015 e analista della sicurezza nazionale per la CNN. Con il sostegno di Trump, sta tentando di diventare il primo repubblicano a vincere un seggio al Senato nel Michigan in 30 anni. Anche Rogers ha tentato di fare appello agli elettori “viola” del Michigan, affermando in un recente dibattito che “cercherà ogni opportunità per essere bipartisan”.

Arizona
Un altro pensionamento, questa volta in Arizona, ha anche aperto un campo di battaglia per il Senato. A marzo, la senatrice Kyrsten Sinema ha annunciato che non si sarebbe ricandidata a novembre, dopo un tumultuoso mandato di sei anni alla Camera. Prima senatrice donna dell’Arizona, Sinema ha iniziato come democratica moderata nel 2019, ma dopo aver rotto con il suo partito su diverse votazioni chiave, si è rinominata indipendente nel 2021.
Ora, la sua assenza sulla scheda elettorale ha lasciato un seggio indifeso in palio. Il democratico Ruben Gallego, un ex marine degli Stati Uniti, e la repubblicana Kari Lake, che un tempo era una conduttrice televisiva, si contendono il suo posto.
Lake ha guadagnato notorietà a livello nazionale come sostenitrice delle false affermazioni di Trump secondo cui le elezioni presidenziali del 2020 sono state rovinate da frodi. Ha utilizzato argomenti simili anche nella sua carriera politica: quando ha perso la corsa a governatore del 2022, ha contestato la sua sconfitta e ha messo in dubbio il risultato. Il suo messaggio è fortemente trumpiano e cerca di cavalcare il forte risentimento dei residenti dell’Arizona duramente colpiti dall’impennata dei costi degli alloggi.
Gallego, d’altro canto, è attualmente in carica alla Camera, e si è autodefinito un acceso critico progressista sia di figure di destra che centriste come Sinema. Si candida su un programma incentrato sul controllo delle armi e sull’immigrazione, entrambi argomenti scottanti in questo Stato di confine. I sondaggi per settimane avevano mostrato un comodo vantaggio per Gallego, ma la corsa si è inasprita con l’avvicinarsi del 5 novembre.

Texas
Il focoso repubblicano Ted Cruz è l’unico membro del suo partito ad affrontare un duro percorso per la rielezione al Senato quest’anno. Cruz proviene dal Texas, uno Stato profondamente repubblicano noto per la sua politica di destra. Ma i democratici hanno a lungo percepito il seggio di Cruz come vulnerabile a un rimpasto e stanno organizzando una campagna per battere il candidato in carica.
I cambiamenti demografici del Texas stanno pesando a favore dei democratici: lo Stato ha visto la sua popolazione crescere, in particolare nelle sue aree urbane più progressiste. Bisogna poi aggiungere a questo la capacità unica di Cruz di alienare sia i liberal che i membri del suo stesso partito, per cui il candidato in carica è pronto per una sconfitta, o almeno così sperano i democratici.
Ma Cruz ha comunque dimostrato la capacità di resistere alle sfide. Eletto per la prima volta come candidato di estrema destra del Tea Party nel 2012, Cruz si è candidato per la rielezione nel 2018, quando i democratici hanno lanciato una campagna simile a quella di oggi per batterlo. Quell’anno il loro candidato era Beto O’Rourke, un deputato alla Camera federale. Sebbene la gara fosse serrata, Cruz ha comunque battuto O’Rourke alle urne.
Quest’anno, Cruz spera di fare lo stesso con l’ex giocatore di football della NFL e avvocato per i diritti civili Colin Allred, che si è fatto avanti come ultima speranza dei democratici. Allred, attualmente membro del Congresso federale, ha virato a destra su diverse questioni, tra cui la politica sull’immigrazione. Nonostante i soldi dei democratici siano piovuti per sostenere Allred, Cruz è ancora ampiamente visto come in vantaggio. Il PAC della maggioranza del Senato allineato a Chuck Schumer ha annunciato in questi giorni un nuovo investimento pubblicitario da 5 milioni di dollari nello Stato. Il Democratic Senatorial Campaign Committee ha speso circa 13 milioni di dollari in pubblicità televisiva nella corsa finora e si prevede che spenderà diversi milioni in più da qui al 5 novembre. Allred da solo ha raccolto più di 80 milioni di dollari. Kamala Harris si è recata nello Stato venerdì per tenere un comizio con Allred.

Harris, una presidente debole e senza una maggioranza al Congresso?
Se Kamala Harris dovesse vincere a novembre, la sua amministrazione potrebbe iniziare nella posizione di partenza più debole di sempre in una generazione. I suoi alleati si stanno già preoccupando di cosa fare al riguardo. I democratici vicini alla vicepresidente sono sempre più preoccupati che i repubblicani possano capovolgere il Senato il 5 novembre, anche se Harris vincesse, uno scenario in cui il suo mandato non avrebbe la maggioranza nella Camera alta. Da quando Bush è stato eletto nel 1988, nessun presidente ha assunto l’incarico senza alleati che controllassero il Senato. L’ultima volta che un democratico ha vinto la Casa Bianca insieme a un Senato repubblicano è stato più di un secolo fa, quando Grover Cleveland fu eletto per la prima volta nel 1884.
I timori hanno scatenato una raffica di pianificazione di scenari post-elettorali in tutto il Partito Democratico, anche se Harris rimane bloccata in una gara serrata a meno di dieci giorni dalla fine. Gli alleati di Harris stanno pensando di ricorrere a soluzioni creative per installare un gabinetto nel caso in cui un Senato repubblicano si rifiutasse di confermare le sue scelte, tra cui estendere il mandato degli attuali funzionari di Biden (i membri del gabinetto di solito offrono le loro dimissioni alla fine di un’amministrazione, ma le loro conferme al Senato non scadono, fornendo una potenziale ancora di salvezza a un’amministrazione Harris), nominare una serie di segretari ad interim o, in uno scenario improbabile che sta circolando nei circoli democratici, persino ingaggiare alcuni candidati prima che Harris entri ufficialmente in carica, facendoli nominare da Biden durante il periodo di anatra zoppa post-elettorale, consentendo ai democratici di accelerare la loro conferma al Senato prima di perdere il controllo della Camera il 3 gennaio 2025. Harris potrebbe anche promuovere temporaneamente alcuni assistenti in incarichi di gabinetto senza la conferma del Senato, dove potrebbero quindi servire come segretari in carica per mesi prima di affrontare un voto. Altri stanno giocando le battaglie legislative sulla politica fiscale e sui finanziamenti governativi che definiranno il 2025, dibattendo su quali delle sue massime priorità politiche possano essere inserite in pacchetti da approvare obbligatoriamente e quali compromessi saranno necessari per garantirli.
Un Senato controllato dal GOP rappresenterebbe una minaccia immediata alle ambizioni presidenziali di Harris, restringendo le sue scelte di personale, limitando drasticamente il suo programma politico e frenando la sua influenza su eventuali posti vacanti alla Corte Suprema. Mancando molto in termini di relazioni personali trasversali con i repubblicani del Senato (apparentemente Harris non ha alcun rapporto con uno dei principali favoriti per il posto di leader repubblicano al Senato, il senatore John Thune del South Dakota), i democratici temono che Harris potrebbe dover trascorrere i suoi primi giorni cruciali impantanata nella ricerca di un compromesso. Nei primi tre mesi di mandato, Harris dovrà obbligatoriamente affrontare una serie di battaglie legislative, tra cui un importante disegno di legge sulla politica fiscale, scadenze per i finanziamenti governativi e un potenziale scontro sul tetto del debito che potrebbe mettere a rischio l’economia.
Sarà un periodo molto difficile per i prossimi due anni se lo scenario è che Harris vince la presidenza ma perde il Senato. Probabilmente troverà alcuni (pochi) repubblicani moderati (come le senatrici Susan Collins del Maine e Lisa Murkowski dell’Alaska) che saranno disponibili a lavorare con lei, ma la gran parte dei senatori del GOP bloccheranno sostanzialmente tutto ciò che cercherà di fare. Alcuni sperano che la sua attività di sensibilizzazione con i repubblicani moderati durante la campagna elettorale, tra cui l’evento con l’ex deputata Liz Cheney (R-Wyo.) e la promessa di nominare un repubblicano nel suo gabinetto, si possano rivelare utili quando si tratterà di governare. Soprattutto, sperano in una frattura del GOP post-Trump che potrebbe spingere una fazione di senatori repubblicani più vicino al centro, o almeno convincerli che vale la pena per il loro futuro politico aprire un canale verso un’amministrazione Harris.
I preparativi per la transizione di Harris sono già in forte ritardo, dato l’ingresso tardivo della vicepresidente nella corsa. I preparativi delle precedenti transizioni presidenziali sono iniziati negli ultimi tre mesi della campagna elettorale. Questo rende una pianificazione ancora più cruciale, per garantire che Harris entri nello Studio Ovale con una strategia chiara che possa superare un’opposizione repubblicana intransigente e ridurre al minimo le lotte intestine democratiche su politica e personale che potrebbero compromettere la sua stretta finestra di opportunità.
Il possibile controllo del Senato da parte dei repubblicani e, quindi, uno scenario di governo diviso, renderebbe una presidenza Harris necessariamente più moderata e orientata al compromesso pragmatico nella sua leadership e nelle ambizioni legislative, ma cercando di mantenere la barra dritta sulle aree in cui Harris ritiene di poter ancora costruire sui progressi dell’amministrazione Biden: assistenza sanitaria, tasse e alloggi. Ma, in questo scenario, dovrà probabilmente abbandonare alcuni degli obiettivi più ambiziosi che hanno energizzato gli elettori democratici, come la codificazione di Roe contro Wade , che richiederebbe prima 51 voti per eliminare l’ostruzionismo. Inoltre, sarebbe assai difficile per Harris riempire un ipotetico posto vacante alla Corte Suprema se i repubblicani si rifiutassero di concedere un’udienza al suo candidato. Harris vorrebbe espandere il Child Tax Credit ed estendere i sussidi Obamacare durante il primo mandato, così come altri investimenti per l’assistenza all’infanzia che i repubblicani potrebbero accettare in cambio del mantenimento di alcuni dei tagli fiscali dell’era Trump in scadenza l’anno prossimo. Harris potrebbe anche provare a far passare un pacchetto bipartisan per l’edilizia abitativa, concedendo ai repubblicani dei rilevanti incentivi per gli sviluppatori per costruire di più e aiuti estesi per gli affittuari e gli acquirenti di case.

Foto di Gage Skidmore from Surprise, AZ, United States of America – Donald Trump, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=95662195

L’autore: Alessandro Scassellati Sforzolini è ricercatore sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco (Derive e Approdi).

Tagli alla spesa sociale. Così il governo abbandona i malati cronici

Visibili e invisibili ma soprattutto croniche. Sono le patologie di cui in Dietro l’angolo (Giraldi Editore), si è occupata Paola Boldrini – cui si deve l’inserimento della Medicina di Genere nel Sistema Sanitario Nazionale, legge 3 del 2018, – oggi vice presidente dell’Intergruppo Parlamentare su diabete, obesità, malattie croniche non trasmissibili e già vice presidente della Commissione sanità in Senato oltreché fondatrice, con il deputato Nicola Provenza (M5Stelle), nel 2021, dell’Intergruppo parlamentare sulla cronicità: non mantenuto dall’attuale governo, era nato dalla consapevolezza che l’interesse su determinate patologie, con la pandemia, era sceso sotto le scale di cantina.

L’intergruppo aveva una doppia ambizione: ricordare che ci sono malattie non mortali che durano per tutta la vita e presidiare l’aggiornamento del piano della cronicità, fermo dal 2016, di cui proprio ora si torna a parlare, con una stesura – ancora non ufficiale – che vedrebbe l’inserimento di nuove patologie come obesità, epilessia, endometriosi. Da quell’esperienza era nato nel 2023 un testo, “La cronicità al tempo del Covid”, una sorta di dossier con lo stato dell’arte e le linee guida da seguire che Boldrini e Provenzano avevano presentato alla Camera e consegnato al ministero della Sanità. Anche questo, pare, rimasto parcheggiato sulle scrivanie del dicastero. Eppure sono 24 milioni gli italiani che soffrono di almeno una patologia cronica. E se la malattia oncologica è destinata ad aumentare, lo stesso vale per quella cronica. In entrambi i casi contribuiscono la denatalità e l’invecchiamento progressivo della popolazione. «La riflessione sulla cronicità deve essere uno degli assi portanti della sanità pubblica – ripete Boldrini – , diversamente il sistema sanitario e socio assistenziale rischia di scoppiare senza riuscire a farsene carico».

Boldrini, che sempre si è occupata anche di malattia oncologica, ed è componente del cda di Europa donna Italia ha così raccolto le testimonianze di 9 presidenti di associazioni di pazienti con cui negli anni ha lavorato per costruire percorsi legislativi. Tra le patologie ha selezionato quelle per incidenza più impattanti sulla popolazione e su cui sussiste lo stigma. Perché in effetti, in un Paese come il nostro che tra marketing e sensibilizzazione accende spesso nelle piazze luci di diverso colore, i pregiudizi e la scarsa conoscenza fanno la loro parte. Alcuni esempi: fino a non molto tempo fa chi soffriva di cefalea veniva considerato uno che non aveva voglia di lavorare o faceva poco sesso, soprattutto se donna; i diabetici che nei bagni dei luoghi pubblici si somministravano l’insulina erano additati come tossici; gli psoriasici venivano trattati come poco meno che lebbrosi; le fibromialgiche – questo ancor oggi – soggetti psichiatrici; gli emofiliaci, individui che con un taglio possono morire dissanguati, quindi meglio evitarli. E così via. Il tutto, ovviamente, senza distinzione di genere.

Scrive Boldrini nell’introduzione: «Desideravo fare il punto sulle patologie non ritenute prioritarie e che per questo creano rabbia e frustrazione in chi ne è affetto. Purtroppo in Italia ci sono malattie di serie A e di serie B. Le prime sono quelle che mettono a rischio la vita, le seconde ne penalizzano “solo” la qualità e quindi meritano minore attenzione. Sono invece quelle che rischiano di fare saltare l’impianto del welfare, per le implicazioni che hanno anche sul mercato del lavoro. Se è fuori dubbio che una buona sanità ha priorità legate all’aspettativa di vita, lo è altrettanto che il diritto di cura è costituzionalmente garantito. Nel diritto di cura stanno l’ascolto, il rapporto di fiducia medico-paziente, la scienza, la cultura, l’umanizzazione delle cure». Temi, tutti, che si scontrano con un sistema sanitario pubblico sempre più aziendalista, dove i tempi di visita sono ridotti a 15 minuti per cui è difficile valutare la storia medica pregressa – o anche recente – del paziente, praticamente costretto a selezionare la descrizione dei suoi sintomi». Dietro l’angolo non è la biografia di un politico che racconta cosa ha fatto, semmai quella di Paola Boldrini è in fondo la prima o la decima testimonianza, tra le altre. Nel testo racconta infatti per la prima volta pubblicamente di essere stata colpita dal tumore due volte, di sapere cosa significa sottoporsi alla chemioterapia, alla radioterapia, all’iter dei controlli, acquistare una parrucca da indossare, vivere con lo spettro della recidiva. Spiega anche il perché mai da parlamentare in ruolo ha voluto rivelare la sua condizione. «Non volevo l’attenzione su di me, volevo usare solo gli strumenti a mia disposizione. Non volevo essere l’esempio di chi “ha vinto”, “ce l’ha fatta”, “ha sconfitto il cancro”. E’ una narrazione che non apprezzo. Quindi ho fatto come tutti. Mi sono curata, ho continuato a lavorare, mi sono dedicata al libro». La prefazione è di Livia Turco, antesignana del riconoscimento della medicina di genere, che scrive. «L’universalismo concreto è quello che riconosce le differenze e le diseguaglianze ed attiva interventi mirati e differenti per prenderle in carico. È quello che “va incontro” alle persone e “scopre” le malattie, il disagio, le sofferenze ed attiva interventi mirati. Paola è molto consapevole del valore di questa sfida dell’universalismo nella presa in carico e nelle cure che decide di occuparsi, nel corso degli anni, di quelle tante patologie sulle quali ancora sussiste disinteresse o stigma che creano rabbia e frustrazione in chi ne è affetto. Malattie nascoste, considerate non centrali, eppure così diffuse e causa di grandi
sofferenze».

Ogni capitolo del libro di Paola Boldrini si apre con una scheda sui dati della singola patologia e sullo stato di riconoscimento della stessa. Seguono le testimonianze. Protagoniste sono Antonella Celano, artrite reumatoide (Apmarr, LECCE), Valeria Corazza, psoriasi (Apiafco BOLOGNA), Valentino Orlandi, talassemia (Rino Vullo, Ferrara, Cristina Cassone, emofilia (FedEmo, Milano), Barbara Suzzi, fibromialgia (Cfu- Italia, Bologna), Monica Priore, diabete (FederDiabetici Puglia), Giuseppe Marinò, ipovedenti (Bii Onlus, Treviso), Lara Merighi, cefalea (Al.Ce.Ets), Claudia Sant’Angelo, cancro allo stomaco (Vivere senza stomaco si può, Ferrara), Mario Barlomei, professionista e Direttore della Scuola di Etica Medica Fnomceo di Rimini, che narra il difficile percorso dei giovanissimi medici in un Sistema sanitario che, come ha insegnato il Covid, nel loro percorso di formazione pretende le competenze degli strutturati e dà loro la pacca sulle spalla che si dà per incoraggiare gli studenti.

L’autrice: Camilla Ghedini è giornalista e collaboratrice di Left