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La carica dei populisti

epa05634156 A billboard by pro-Serbian movement shows the image US President-elect Donald Trump and Russian President Vladimir Putin as a truck drives past in the town of Danilovgrad, Montenegro, 16 November 2016. Presidents Donald Trump and Vladimir Putin spoke by phone of better relations in the future between Washington and Moscow on 15 November. EPA/BORIS PEJOVIC

La vittoria di Trump è solo l’ultimo trionfo di una marea che sta facendo saltare gli equilibri politici in Occidente e non solo. Le parole di Boris Johnson sul prosecco italiano e l’approccio della Gran Bretagna alla trattativa con l’Europa sono invece una delle tante manifestazioni di come il populismo stia infilandosi nel modo di agire dei governi e dei partiti tradizionali – la assenza della bandiera europea dietro al premier italiano pure sono un piccolo esempio di utilizzo della strumentazione populista. Nella primavera 2017 la Francia eleggerà il suo nuovo presidente e c’è qualche possibilità che la leader del Front National, Marine Le Pen, venga eletta. Prima, a marzo, sarà la volte dell’Olanda, dove il campione nazional-populista è Geert Wilders. Ovunque, in Europa, assistiamo all’avanzata di partiti, di destra e di sinistra, che fondano la propria identità sulla contrapposizione popolo (noi)/ poteri forti (banche, casta, finanza, musulmani….loro).

In Turchia stiamo assistendo a un passaggio cruciale di questa storia: da un presidente nazional populista e religioso (con tutte le particolarità del caso di una democrazia sui generis come quella turca) vuole cambiare la costituzione e usa strumenti autoritari. L’uso del referendum, l’appello diretto al popolo, dalla Gran Bretagna all’Ungheria è diventato uno strumento molto comune. In Italia abbiamo i cittadini a 5 Stelle e la Lega nazional-salviniana.

Cosa succede e cosa tiene assieme forze molto diverse tra loro e cosa le divide? Che tratti comuni? Che differenze tra il populismo di destra e quello di sinistra? E che interpretazioni del fenomeno? Partendo dall’esito delle elezioni Usa, su Left di questa settimana, oltre a una copertina che ci piace molto, proviamo a dare strumenti utili a capire cosa stia succedendo alla politica. Parlando con studiosi del fenomeno dagli Stati Uniti alla Scandinavia, raccontando con un reportage la trasformazione del Front National francese, ricordando un po’ di storia della politica americana.

A scriverne o parlarne sono Nadia Urbinati, Cass Mudde, Jan Werner Muller, John J. Judis, Costanza Spocci, Susi Meret, Umberto De Giovannangeli, Sheri Berman, Emanuele Ferragina, Alessandro Lanni, Martino Mazzonis. Non solo populismo: sullo stesso numero, parlando di altro argomento, trovate anche una lunga intervista di Ilaria Bonaccorsi a Gherardo Colombo sulla Giustizia e la riforma costituzionale, le parole Panos Rigas, il nuovo segretario di Syriza che prova a spiegarci cosa ne sia stato delle promesse della sinistra greca, un’intervista al leader delle Farc Timoleon Jimenez sulle prospettive di pace in Colombia dopo la bocciatura del primo accordo di pace e l’individuazione di un nuovo piano.

Ne parliamo su Left in edicola dal 19 novembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

Sea you soon

Perché votare no ce lo dice il PD

Lo dice il manifesto fondativo del Partito Democratico esattamente all’articolo 3:

«La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercè della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006.»

Come dice Wikipedia “Romano Prodi in prima persona, nel corso del 2006, incaricò tredici personalità di spicco del mondo della cultura e della politica (Rita Borsellino, Liliana Cavani, Donata Gottardi, Roberto Gualtieri, Sergio Mattarella, Ermete Realacci, Virginio Rognoni, Michele Salvati, Pietro Scoppola, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo, Luciano Violante, più Giorgio Ruffolo che abbandonò in corso d’opera la stesura del testo per contrasti col resto del gruppo di lavoro)”.

Ora arriva anche la lettera di alcuni iscritto del Pd di Modena. Non servono commenti. Eccola qui:

Siamo democratiche e democratici, iscritti ed elettori del PD, collocati nel vasto campo delle diverse culture politiche della sinistra, del centrosinistra e della cittadinanza attiva da cui lo stesso PD è nato, decisi a prendere le distanze dalla Riforma Costituzionale oggetto del Referendum del 4 dicembre prossimo.
Non ci convince una riforma che si poteva e doveva fare meglio. Si poteva semplificare senza ridurre la rappresentanza e rendere più efficiente il potere esecutivo senza depauperare le autonomie regionali e locali. Lo diciamo dall’Emilia-Romagna, culla dell’ “autonomismo solidale”: una regione che si è sviluppata ed è progredita grazie alle capacità di generare in continuazione progetti e innovazione, resi possibili dalla capacità delle Istituzioni locali, dai Comuni alla Regione, di accrescere e valorizzare le peculiarità e le potenzialità economiche, civili, sociali e culturali dei nostri territori, facendo sistema e senza mai dimenticare i principi della democrazia, del rapporto con i cittadini e con i corpi intermedi di rappresentanza.
Non si tratta di ragionare sulla bontà del superamento del bicameralismo paritario, su cui in pochi hanno avanzato dubbi. Si tratta, piuttosto, di riaffermare, da un lato, equilibri e garanzie istituzionali proprie di un sistema parlamentare più democratico, e dall’altro, prerogative e capacità decisionali della Regione, nella chiarezza e nel rispetto dei compiti propri tra lo Stato e le autonomie locali. Il nostro è quindi un No al disegno centralistico che figura nella riforma; un disegno che, depotenziando il potere dei territori e dei cittadini, si traduce in una regressione della qualità della democrazia rispetto a quello attuale.
Il nostro NO è perché vogliamo una riforma davvero efficace e incisiva. Se fosse vero che è “meglio cambiare comunque piuttosto che stare fermi”, non avremmo dovuto votare negativamente al referendum costituzionale del 2006. E invece, dicemmo No sulla base di una valutazione di merito, perché il cambiamento non è un valore in sé. E’ un valore se aiuta a risolvere i problemi alla base della crisi economica, sociale e democratica che viviamo oramai da troppi anni.
Votiamo NO perché non ci convince un Senato come quello delineato nella Riforma, che non è un Senato delle autonomie perché non ha abbastanza potere su materie fondamentali per le autonomie, come le aree vaste, il coordinamento della finanza pubblica e dei tributi fra livelli di governo, i costi e i fabbisogni standard.
Votiamo NO perché non vi è garanzia che, con la Riforma, i senatori saranno legati a un rapporto diretto, di fiducia, con i cittadini dei loro territori e non rappresenteranno piuttosto i partiti da cui saranno nominati.
Votiamo NO perché questa riforma genererà ulteriore caos nelle Istituzioni. L’assenza di un meccanismo di conciliazione per i casi in cui Camera e Senato non trovino un accordo sulle importanti materie su cui resta il bicameralismo paritario – trattati europei, riforma costituzionale, ordinamento dei comuni, ecc. – può generare situazioni molto pericolose di stallo istituzionale.
Non ci convince la vulgata che spiega la riforma alla luce della riduzione dei costi della politica, che si sarebbe potuta ottenere con una semplice riduzione dei parlamentari, perché si traduce in un approccio populista e demagogico, che non aiuta un corretto confronto democratico e che favorisce chi sulla demagogia e sulla anti-politica ha costruito le sue fortune elettorali.
Votiamo NO perché la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che, al netto di “aperture”, in questi molti mesi non si è voluto realmente cambiare, combinata con la Riforma Costituzionale, comporterà un vero e proprio stravolgimento della forma di democrazia parlamentare, concentrando il potere nelle mani del governo e di chi lo guida, attribuendo ad un unico partito (che potrebbe essere espressione di una ristretta minoranza di elettori) sia il potere esecutivo che il potere legislativo, per di più con l’iniziativa legislativa che passa dal Parlamento al Governo.
Votiamo NO perché c’è un serio problema di metodo e merito politico: la grave violazione dell’articolo 3 del Manifesto dei Valori del Pd che recita: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza, che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”, Noi abbiamo fondato o abbiamo aderito a quel Pd e non abbiamo cambiato idea!
Per queste ragioni ci impegneremo nella campagna referendaria per il NO in autonomia e in collaborazione con i Comitati esistenti e creando occasioni per approfondire il merito della questione.
Il nostro è un NO a viso aperto che non gioca su ambiguità politiche e retropensieri, che entra nel merito della sfida referendaria, separandola con nettezza dalle questioni che riguardano l’attuale governo.
Siamo convinti che la nostra scelta, compiuta in coerenza con i nostri ideali e con lo spirito della Costituzione, dia linfa al PD, al suo costitutivo pluralismo e alla sua nativa connotazione di centrosinistra. Del resto, sulla Costituzione ciascuno di noi è chiamato, come dice lo Statuto del PD, a decidere nello spirito costituente, prima di tutto da cittadino e da cittadina.
Modena, 7 novembre 2016
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(Primo elenco di firmatari)
Maria Cecilia Guerra Senatrice Pd
Luciano Guerzoni Vice Presidente Nazionale ANPI-Ex Senatore
Paolo Trande Consigliere Comunale Modena-Direzione Regionale Pd
Riccardo Orlandi Direzione provinciale Pd
Ivan Alboresi Consigliere Comunale Pd Formigine
Carmelo Belardo Segretario di Circolo Pd (Modena)/Presidente Quartiere 2
Lorenzo Campana Consigliere Comunale Pd Nonantola
Renzo Catucci Consigliere Comunale Pd Sassuolo
Sandra Mattioli Pd “San Faustino”/Assemblea regionale
Michele Stortini Segretario di Circolo Pd (Modena)
Michele Andreana Ex Consigliere Comunale di Modena
Claudio Andreoli Ex iscritto/Ex Volontario Feste
Sergio Ansaloni Pd “San Faustino” Modena
Simone Barbieri Assicuratore/Elettore Pd Modena
Danilo Barbieri Pd “Buon Pastore”/Militante
Greta Barbolini Dirigente associativo
Rita Bellei Consigliera Comunale Nonantola/Vice-Segretaria Circolo
Gianluca Bellentani Pd Formigine
Gabriele Bettelli Iscritto al Circolo Pd “Buon Pastore”. Osservatorio APS
Valeria Biancolini Iscritta Pd “san Lazzaro-Modena Est”
Massimo Bigarelli Medico/Modena
Gerardo Bisaccia Dirigente Associativo
Annamaria Borghi ex iscritta/Volontaria Feste
Roberto Bonfatti Pd “San Faustino”
Maurizio Borsari Ex Assessore Modena/Dirigente cooperazione in pensione
Pier Paolo Borsari Pd Nonantola/Ex Sindaco di Nonantola
Vanna Borsari Pd Formigine
Paolo Bosi Docente UNIMORE
Vanis Bruni
Rolando Bussi Pd “Centro Storico”
Sonia Canadè Consigliera Comunale Nonantola
Raffaele Caterino Dott. in scienze della Cultura/Studioso della storia della sinistra
Fausto Cigni Pd “San Lazzaro-Modena Est”/Assemblea Cittadina Pd Modena
Salvatore Colucci Comitati di Circolo Formigine
Renato Cocchi
Giorgio Cozza Ex iscritto Pd/Pensionato
Ivan Debbi Pd “San Faustino” Modena
Enrico Gallo Capogruppo in Quartiere 4/Assemblea Provinciale Pd
Giorgio Gasparini Pd Bastiglia/Ex vice-sindaco di Bastiglia
Roberto Gasparini Consigliere Comunale-Capogruppo/Vice-Segretario Pd Bastiglia
Ruben Gasparini Direttivo Circolo Pd “Crocetta”
Ettore Ghidoni Pensionato, ex dirigente cooperativo, volontario CGIL
Gigi Giordani Direttivo Pd Pavullo
Maria Paola Guerra Docente UNIMORE
Daniele Guzzinati Pd Medolla/Ex Assessore
Gianlorenzo Ingrami Direzione Pd Sassuolo
Michele Lacirignola Medico/Modena
Michele Lalla Docente UNIMORE
Mauro Malavasi Pd “San Faustino” Modena
Marco Malferrari Consigliere Comunale Pd Modena
Stefania Marchesi Dirigente Associativo
Mauro Masetti Funzionario cooperazione/ex segretario Pd Centro Storico
Tonino Mazzucchelli
Pasquale Palermiti Militante
Angelo Panzetti Pd Nonantola
Arnaldo Parmeggiani Iscritto Pd Modena
Brunella Piccinini Direttivo Circolo Pd “Crocetta”
Antonio Rossi Consigliere Comunale “Lista Civica Pistoni” Sassuolo
Enrico Rinaldi Circolo Pd “San Faustino”/Storico Volontario Feste
Giovanni Romagnoli Ex Assessore Modena e regionale
Uliana Roncagli Ex iscritta-Ex Volontaria Feste
Armando Rossi Pd “San Faustino”
Leda Roversi Pd “Buon Pastore”/Assemblea Provinciale
Sergio Rusticali Assemblea Cittadina Pd Modena
Gina Sacchetti Volontaria SPI/CGIL
Mario Scianti Elettore/Ex Funzionario pubblico in pensione
Loretta Sgarbi Volontaria SPI-CGIL
Valentina Solfrini Pd Castelnuovo Rangone
Luca Sitta Segretario Circolo Tematico Modena
Nadia Soliani Pd Modena
Enio Superbi Direttivo provinciale ANPI/Direttivo Pd Finale Emilia
Vincenzo Walter Stella Consigliere Comunale Modena/Segretario di Circolo
Giovanni Stigliano Ex assessore ed ex segretario Pd Bomporto
Simone Tazzioli Segreteria Pd Sassuolo
Luciano Tomassia Pd “Buon Pastore”/Storico Volontario Feste
Rita Tonus Consigliere Pd Q2 Modena
Gianni Tosi Pd “San lazzaro-Modena Est”
Patrizia Villani Ex Segretaria Circolo/Direzione provinciale Pd
Lauro Vignudelli Segretario di Circolo Pd (Modena)
Ivan Zanni Pensionato/Modena
Gigliola Zanni Elettrice/Modena
Mauro Zanni Ex iscritto Pd San Cesario SP
Tiziano Zanni Direttivo Pd Sant’Agnese
Romano Zanotti Direttivo Pd “San Lazzaro”
Alfredo Zetti Pd “Crocetta”/Assemblea Cittadina
Alberto Zini Elettore/Consulente del Lavoro/Docente Unimor

 

Ogni minuto 24 persone abbandonano le proprie case. In aumento i migranti forzati

epa05547657 Rahela Sidiqi, Trustee for the charity 'Women for Refugee Women' sits amongst life jackets worn by fleeing refugees in Parliament Square in London, Britain, 19 September 2016. Thousands of life-jackets were laid out in Parliament Square to highlight the need to protect refugees and migrants. The jackets serve as a visual reminder of the suffering and risks hundreds of thousands of refugees have endured. World leaders are meeting at the United Nations Migration summit in New York these days. EPA/ANDY RAIN

Ogni giorno 35 mila persone abbandonano le proprie case per sfuggire a guerre, attacchi terroristici, carestie, fame e dinamiche di esclusione sociale.
Sono 65 milioni e trecento mila le persone in fuga, riporta il Terzo rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2016 Chi fugge perché e verso dove elaborato da Anci, Caritas italiana, Cittalia, fondazione Migrantes e servizio centrale Sprar in collaborazione con Unhcr.
Il rapporto – che raccoglie i dati più aggiornati sugli spostamenti dei migranti – dà risalto ai numeri altissimi delle migrazioni forzate, smontando le teorie, ormai molto diffuse, sull’arrivo massiccio in Europa, e in particolare in Italia, di migranti economici.
Ogni minuto 24 persone abbandonano le proprie case e i loro Paesi per sopravvivere, a causa dei 35 conflitti in corso nel mondo e di 17 situazioni di crisi, per un totale di 34.560 persone.

Quest’ultimo dato messo a confronto con i numeri del 2014 e del 2005 racconta un mondo in fuga: se nel 2015 sono state quasi 35.000 le persone che giornalmente sono dovute fuggire dalla propria terra, nel 2014 erano 30 al giorno e nel 2005 erano solo 6.
Dei 65,3 milioni di migranti forzati in fuga (poco più della popolazione italiana come numero), 21,3 milioni sono ufficialmente rifugiati politici, 40,8 milioni sono sfollati interni e 3,2 milioni sono richiedenti asilo.
La metà dei migranti forzati è composta da minorenni che affrontano il viaggio da soli, arrivando da Eritrea, Somalia, Afghanistan, Siria; soltanto nell’ultimo anno 98 mila minori (intere generazioni di giovani) hanno fatto domanda in Europa per ottenere lo status di rifugiati politici.
Di coloro che si mettono in viaggio, riporta il dossier, 4899 sono morti in viaggio, di cui 3654 sono affogati nel Mediterraneo (con ritmi sempre più frequenti) o prima di raggiungere il mare, nei deserti africani per mancanza di acqua e cibo.

Nell’Unione europea con i suoi 28 Paesi (oggi 27) la questione dei migranti ha stimolato diverse reazioni, spesso di segno opposto: mentre la Germania ha aperto le frontiere ai migranti siriani, accogliendo il 36 per cento dei richiedenti, l’Ungheria, la Serbia, la Slovenia, la Macedonia e la Francia hanno alzato dei muri per contenere gli arrivi.
Il rapporto evidenzia, infatti, l’incremento diffuso dei dinieghi (il 60 per cento) da parte delle commissioni territoriali europee competenti e l’aumento di tensioni all’interno dei centri di accoglienza in tutta Europa.
Emblematico è stato il caso della Gran Bretagna che, all’indomani della presentazione dell’agenda europea sull’immigrazione a maggio 2015, ha annunciato che avrebbe dato il suo apporto logistico per contrastare i trafficanti di esseri umani, ma che non avrebbe rilasciato nessun permesso di asilo. Posizione che nei mesi precedenti è stata ufficializzata dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea in seguito al referendum sulla Brexit.
«L’Italia – dice il rapporto – si è “riscoperta” accogliente, capace di ridisegnare il suo ruolo di Paese di immigrazione in chiave nuova rispetto al passato più recente, nel quale ha prevalso la politica dei respingimenti. Nell’arco di 36 mesi è passata da “fanalino di coda” dell’Europa a soggetto quasi virtuoso, capace di contribuire in maniera determinante alla sfida delle migrazioni contemporanee».

I paesi più accoglienti

Nel 2015 ai primi posti troviamo l’Africa Sub-Sahariana e l’Europa che hanno ospitato 4,4 milioni di rifugiati (8,8 milioni in totale), l’Asia e la zona del Pacifico che ne ha accolti 3,8 milioni e il Medio Oriente e il Nord Africa 2,7 milioni. All’ultimo posto troviamo le Americhe con 746 mila accolti, la quota più bassa in assoluto.
Attualmente i principali Paesi di asilo sono qurli in via di sviluppo: la Turchia è il più accogliente con i suoi 2,5 milioni di rifugiati (l’anno scorso ne ha accolti 1,6 milioni), provenienti soprattutto dalla Siria ; il Pakistan ha accolto 1,6 milioni di rifugiati, il Libano 1,1 milioni, l’Iran 979 mila e l’Etiopia 736 mila.
In Europa la Germania è al primo posto, seguito da Ungheria, Svezia, Austria e Italia, che complessivamente accolgono il 74 per cento delle richieste presentate in Ue.

I paesi di origine dei migranti

La maggioranza dei rifugiati proviene dalla Siria, con i suoi 4,9 milioni di migranti riversati negli Stati limitrofi, Turchia, Libano, Giordania, Iraq, Egitto e poi Germania e Svezia.
Il secondo Paese di origine è l’Afghanistan, con i suoi 2,7 milioni di migranti, la cui metà risiede (ancora per poco, viste le nuove leggi) in Pakistan, Iran, Germania e Austria.
Al terzo posto la Somalia, con il suo milione e centomila accolti in Kenya ed Etiopia, cui seguono Sud Sudan, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Myanmar, Eritrea e Colombia.

Le principali rotte migratorie

Nel 2015 la rotta del Mediterraneo orientale è stata la via principale di ingresso in Europa con numeri 16 volte maggiori a quelli dell’anno scorso, seguita dalla rotta balcanica – la via di terra che porta al nord Europa attraverso la Grecia, la Macedonia, la Bulgaria, la Serbia, la Croazia, la Slovenia – che formalmente è stata interrotta con gli accordi tra Unione europea e Turchia a marzo 2016.
La rotta storica del Mediterraneo centrale, che passa dal Maghreb e soprattutto dalla Libia, è in netta flessione, e le altre rotte – Albania, rotta del Mar nero e rotta artica – sono usate in porzioni minori.

Italia: ospiti e residenti

In Italia la Lombardia è la prima regione per accoglienza nelle strutture temporanee, con 22,333 mila migranti, seguita dal Veneto che ne ospita temporaneamente 14,754 mila tra centri di prima accoglienza e Sprar. Il Lazio è la terza regione per accoglienza con 14,231 mila migranti nei centri, mentre la Sicilia è solo al quarto posto con 14,161 persone nei centri temporanei. La Calabria ne ha 6,560, il Molise 3,407, le Province Autonoma di Bolzano e di Trento ne hanno 1,494 la prima e 1,431 la seconda, mentre la Valle d’Aosta ne ospita solo 290 in tutto.
Mentre la maggior parte dei rifugiati residenti, per converso, si trova nel Meridione: in Sicilia risiede il 45,8 per cento dei migranti, in Puglia il 23,5 per cento, in Calabria il 13,6 per cento e nel lazio il 10 per cento.

Salute mentale dei migranti

L’ultima parte del rapporto si concentra sulla salute mentale dei migranti, cui la letteratura scientifica ha dato risalto negli ultimi anni, identificando alcuni disturbi generali.
L’“effetto migrante sano” avviene, per esempio, quando l’individuo arriva in Europa in buone condizioni psico-fisiche e si ammala nei centri di accoglienza del Paese ospite; il “post-migration living difficulties” come i “disturbi da stress post-traumatico” sono disagi sviluppati nel corso di viaggi migratori traumatici, spesso caratterizzati da violenze e abusi di vario genere. Pur non esistendo ancora una letteratura empirica e provata sulla salute mentale dei migranti, gli Sprar ospitano numerosi progetti dedicati ai rifugiati con disagi psico-fisici.

Dai Bob, ritira quel maledetto premio

«Perché non posso essere più convenzionale? La gente parla, le persone guardano, così ci provo. Ma non fa per me, perché non riesco a vedere il mio pazzo mondo lasciarmi indietro». La sera del 13 ottobre, quando l’Accademia di Svezia annuncia di avergli assegnato il Nobel per la Letteratura, Bob Dylan è sul palco di Las Vegas. Nessun accenno al Premio né a Stoccolma, ma alla fine del concerto chiude con “Why you try to change me now”, Perché provare a cambiarmi adesso?. Le parole sono quelle di Frank Sinatra che Dylan ha arrangiato nel suo ultimo disco e il messaggio sembra chiaro: «Lascia che la gente si chieda, lasciali ridere, lasciali accigliarsi. (…) Non ti ricordi che ero sempre il pagliaccio? Perché provare a cambiarmi adesso?».

Ma chi ti vuol cambiare Bob?, viene da dirsi. Dicono che hai «creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della canzone americana». Ed è venuto giù il mondo. Ogni piccolo rosicone, di ogni angolo del mondo, non ha perso l’occasione per dire la sua. Guardali Bob: spenti letterati al servizio del potere, falsi poeti che scrivono sotto dettatura del mercato, musici tutti orecchie con il marketing e sordi con l’anima. Tu no. Tu ci hai fatto viaggiare come Kerouac, ci hai fatto dondolare da fermi, hai dato i calci e i baci che avremmo voluto dare noi, che abbiamo sempre sognato. Hai aperto innumerevoli finestre per poi scappare via da lì, ma lasciandole aperte. E gli accademici di Svezia questo fanno con il Nobel, onorare chi «apporta considerevoli benefici all’umanità». Lo hai fatto. Adesso non ridurre tutto a una polemica da tabloid. «Sono onorato, ma ho altri impegni», dicono che tu abbia scritto loro così per avvertirli che il 10 dicembre non sarai alla cerimonia. Dai Bob, spiazza tutti e ritira quel maledetto premio, e inveisci pure contro di noi. Che in un mondo di facili contestatori, ritirare quel premio è rivoluzionario.


Leggi anche: “Il Nobel a Dylan, l’eterno contestatore”

 

A Berlino nasce la giunta rosso-verde. Prove tecniche di governo?

Ora c’è l’ufficialità: la Capitale tedesca sarà a guida R2G. Due mesi dopo le elezioni amministrative di Berlino, il Partito socialdemocratico (Spd), Die Linke e i Verdi hanno trovato un accordo di governo.

Il sindaco della città e governatore dell’area metropolitana, Michael Müller, ha commentato la nascita del governo a tre come l’alba di una «coalizione per il rilancio». Müller ha anche affermato che se c’è un punto comune tra gli alleati, è sicuramente il consenso per ricominciare a «investire nella Capitale».

E sono proprio gli investimenti in infrastrutture il nocciolo dell’accordo di governo. La riqualificazione di strade e scuole sono in primo piano nell’agenda politica. Tecnicamente il Partito socialdemocratico avrà 4 assessori, mentre Die Linke e i Verdi, tre ciascuno.

Uno dei temi cruciali del dibattito pubblico berlinese riguarda l’insufficienza di unità abitative. Tutto indica che l’Spd passerà di mano la gestione dell’edilizia residenziale. Potrebbe essere proprio Die Linke a diventare politicamente responsabile per la costruzione annuale di 6000 nuove unità abitative nella regione metropolitana. I Verdi ottengono invece l’assessorato allo sviluppo urbano, posto chiave per rilanciare e ridefinire le arterie del traffico della Capitale.

Un’altra novità importante dell’accordo di governo è che verrà di nuovo istituito un assessorato alla Cultura. Dovrebbe essere ancora Die Linke ad avere il candidato migliore, Klaus Lederer. Ramona Pop, dei Verdi, dovrebbe invece ottenere l’assessorato all’Economia, mentre le Finanze saranno di competenza della Spd.

Ieri, proprio Lederer ha commentato il futuro esecutivo della Capitale come un «governo riformista progressista».

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Il feroce burattinaio Soros, Trump e l’informazione spazzatura

Qualcuno ricorda Ed Wood? È un film di Tim Burton che racconta la storia del regista horror e fantascientifico di serie B. In una scena in cui si mostrano le riprese di un filmaccio, c’è Bela Lugosi, interpretato da Martin Landau che con un faro di luce sotto grida “Sono il burattinaio, muovo i fili”. Ecco, oggi il burattinaio del mondo è George Soros. E non ve ne foste accorti andate a leggere l’articolo pubblicato da Linkiesta e firmato dall’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana Fulvio Scaglione che ci spiega che (titolo): C’è lo “squalo” Soros dietro le rivolte anti Trump. Varrà la pena citarne un passaggio: «Popolo sdegnato, cittadini in ansia per le sorti del Paese, movimento spontaneo di gente perbene? Qualcuno così ci sarà pure, per carità. Ma la realtà è quella che è rapidamente saltata fuori: file e file di pullman noleggiati per spostare i manifestanti da un posto all’altro, paga oraria tra 15 e 20 dollari l’ora per gridare «Not my president» contro Trump, panini e bibite gratis». Poi sono arrivate le molotov, caos – scrive ancora Scaglione – ricorda qualcosa? La Siria e l’Ucraina, ci spiega l’articolo, che implicitamente ci indica come Soros sia dietro ogni cosa si sia mossa nel mondo da qualche anno a questa parte. Il burattinaio. Difficile non farsi venire in mente qualche vignetta pubblicata negli anni ’30 in Germania, quelle che raffiguravano un essere spregevole, con il nasone, vestito di nero e i tentacoli di una piovra, intento a prendersi il mondo.

Il link non lo aggiungiamo: regalare click alle bufale non è il nostro mestiere, ci ha pensato il blog di Beppe Grillo, a postarlo e regalare gloria e moltiplicare la bufala per mille. Di articoli così ce ne sono centinaia in rete. Solo che Linkiesta era nata nel 2010 con un’altra idea di cosa debba essere giornalismo e per qualche anno ha svolto questo compito (poi è cambiata la ragione sociale).

Bene, ma a raccontarla così è pura fantasia anche la nostra. Andiamo per punti

Primo. La descrizione delle manifestazioni. A differenza di Scaglione, il giorno dopo le elezioni americane, chi scrive era a New York City. Precisamente a Union square, dove c’erano decine di migliaia di persone e nessun pullman con i panini e le bibite. Tra l’altro, quel tipo di massa di manovra delle political machines fino agli 70 ed era composta dai poveri delle comunità immigrate, i lavoratori sindacalizzati di alcune categorie, le minoranze. Oggi non funziona più così e in piazza, a New York c’erano gli studenti e i molto liberal ma tendenzialmente benestanti cittadini newyorchesi, che non escono a marciare sotto la pioggia per i panini e le bibite. Già, direte voi, ma Scaglione parla di Portland (dove neppure è stato a vedere). Benone: Portland, Oakland, Seattle sono quei posti dove la cultura di sinistra è più radicale e che le manifestazioni trascendano è più facile. Tra le manifestazioni di Black Lives Matter di questi anni, quelle di Oakland sono quelle finite più spesso in scontri (è qui che nel 1966 è nato il Black Panther Party. A Portland il 70% degli arrestati dopo gli scontri non ha votato. Perché? Perché sono giovani di estrema sinistra che protestano contro Trump ma non amano affatto Hillary Clinton.

Secondo. La politica americana costa cifre spaventose. Costa troppo. E per questo i finanziatori sono una parte determinante. E spesso condizionano le scelte del Congresso. Una delle ragioni per cui la politica Usa costa cifre spaventose è la cancellazione, da parte della Corte Suprema nel 2010, delle poche regole che una legge scritta da Russ Feingold e John McCain conteneva. Si tratta di una sentenza famosa, Citizens United Vs Federal Election Commission, che i democratici dicono di voler superare e tornare a delle regole dignitose. Del resto, sia Obama che Bernie Sanders hanno mostrato negli anni di saper raccogliere molti fondi anche attraverso le piccole donazioni. Dopo, ma anche prima di quella sentenza, circolavano troppi soldi nella politica Usa. Ad esempio, George Soros spese una valanga di soldi nel 2004 per cercare di far vincere John Kerry contro George W. Bush. Fossero serviti, sarebbero stati soldi spesi bene. Certo, molto meglio una politica nella quale non servono i soldi dei miliardari, ma finché quella è la legge. Attenzione: i soldi spesi sono riportati, non è un segreto e non servono leak per scoprirlo (che c’è un altro articolo de Linkiesta che parla di “file segreti” che rivelano come il filantropo Soros manovri il mondo, non c’è una cosa che non sia uscita sui giornali).

Terzo. L’altra sera a Washington si è tenuta una riunione della Democratic Alliance all’hotel Mandarin. La Alliance è una organizzazione che coordina i finanziamenti di diversi straricconi liberal (che in America vuol dire di sinistra) che quando si riunisce ragiona sulle strategie. Alla riunione c’erano Nancy Pelosi, campionessa della raccolta fondi e in lotta per rimanere capogruppo democratico alla Camera, il candidato di sinistra alla leadership del DNC Keith Ellison e molti altri. La discussione è stata accesa e si è ragionato su come impiegare le risorse: molti democratici hanno spiegato che a loro modo di vedere la strategia era troppo dedicata alla mobilitazione della coalizione di giovani e minoranze e toppo poco verso i lavoratori bianchi. Sacrosanto. Alla riunione c’era anche Soros, segno che sì, il miliardario è preoccupato dalla presidenza Trump. Come anche qualcun altro. Il che non rende Soros un santo – è uno speculatore finanziario – e neppure il burattinaio. I miliardari repubblicani sono altrettanti se non di più, alcuni, come i fratelli Koch, sono diventati stranoti proprio per la loro propensione a spendere per imporre un’agenda di destra al Paese. In questo senso, Soros, è l’altra parte della barricata. In entrambi i casi le donazioni sono stranote e non c’è nulla di segreto e oscuro. Di sbagliato, sì: la politica americana costa troppo e il sistema è pessimo. A essere più pericolose però sono le donazioni medie, quelle ai candidati al Congresso, che determinano spesso l’agenda. Io banca o industria locale, contribuisco alla tua elezione e tu, poi, mi proteggi, voti contro le regole che mi colpiscono e così via.

Quarto. Nell’articolo si dice che le manifestazioni sono organizzate da MOveOn.org. E che questa a sua volta è finanziata da Soros. Vero e non vero, a New York c’erano le facce di Occupy Wall Street e MoveOn e altri davano anche loro l’appuntamento. La seconda è proprio falsa: MoveOn ha preso soldi da Soros nel 2004, quando pagò parte della campagna pro Kerry. Nel 2016 Soros ha donato qualche milione a Clinton. MoveOn invece sosteneva Bernie Sanders fino all’ultimo respiro. Ma controllare è un esercizio complicato (potete farlo qui).

Quinto. Queste notizie, cercatele in rete, sono postate nella maggior parte dei casi da siti che postano bufale, esagerazioni, interpretazioni distorte. Sono i siti della destra americana alla Breibart.com, diretto dallo stratega di Trump Steve Bannon per i quali l’iperbole e la distorsione della realtà sono la norma. Da una settimana circa leggiamo di come i social network abbiamo contribuito alla mala informazione sul ciclo elettorale Usa – non ci spingiamo a dire che ne hanno condizionato l’esito, come sostiene qualcuno del clan Clinton. Senza entrare in particolari anche su questo, il fenomeno è noto: i titoli più forti, le interpretazioni più dietrologiche, quelle che confermano le certezze su come e quanto il mondo della politica sia corrotto e al soldo di poteri oscuri vengono cliccati e condivisi di più. E creano un rumore di fondo, consolidano certezze. Il caso di Soros e la diffusione di queste notizie bufala in Italia è un caso tipico. Sarebbe bello invece cercare di fare informazione. ma costa un po’ più di fatica che sedersi davanti a uno schermo e condividere le proprie convinzioni usando notizie pescate in rete piegandole a quel che si vuole dire.

Preferiremmo di no.

 

 

 

Perché Bersani dice a Renzi che può rimanere se vince il No

Bersani
Pier Luigi Bersani durante un incontro sul Referendum costituzionale, Napoli, 17 ottobre 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Pier Luigi Bersani l’aveva già detto, ma lo ripete perché si capisca bene. Matteo Renzi può rimanere a palazzo Chigi anche se dovesse vincere il No, il 4 dicembre, alla faccia della personalizzazione. «Se vince il No», dice infatti Bersani al Corriere, «per me Renzi può anche restare a Palazzo Chigi, magari un po’ acciaccatino… Io non ho problemi, basta che stiamo meno chiusi, meno comandini, meno arroganti e meno inchinati».

Ma perché Bersani dice così, abbondando in bersanese? Perché indica a Renzi la via per restare comunque a palazzo Chigi, quando logica più elementare vorrebbe che la minoranza dem approfittasse di un’ipotetica vittoria del No per ridimensionare Renzi? Per una serie di ragioni. La prima è quella che spiega Bersani stesso, forte del fatto di non aver partecipato all’ultimo voto dell’Italicum e quindi certo di schivare le accuse di chi – non senza ragioni – dice che ora si vuole cambiare la legge elettorale perché potrebbe favorire Grillo. «Il Sì porta instabilità, il No invece è il time out, è un anno di tregua in cui, buttato a mare l’Italicum, fai le leggi elettorali per Camera e Senato, plachi il Paese e ti riorganizzi», dice l’ex segretario. E Bersani sposa così la tesi di chi – compresa anche la banca d’affari Mediolanum – pensa che sia proprio la vittoria del Sì a «spianare la strada», come dice Roberto Speranza, «ai populismi».

La seconda ragione per cui Bersani concede a Renzi di scegliere, se vuole, di rimanere a palazzo Chigi, è più tattica, nell’ottica dell’eterno congresso del Pd. Concedendo infatti a Renzi di restare a palazzo Chigi, Bersani dichiara di preferire il partito, di volere dopo il referendum una segreteria più condivisa, magari di garanzia, che accompagni il Pd al prossimo congresso, che si farà prima delle elezioni 2018, dentro dunque «l’anno di tregua», come lo chiama Bersani. Che sa benissimo, ovviamente, che l’anno di tregua, con Renzi «acciaccatino» a palazzo Chigi, è un anno che renderebbe Renzi una stella assai meno brillante e magari disposto a concedere la separazione del ruolo di candidato premier e segretario del Pd, per statuto oggi coincidenti.

È per questo che al momento i più scommettono che Renzi lascerà invece palazzo Chigi e si terrà semmai il partito, in caso di vittoria del No. Per non farsi rosolare. Bersani lo sa e infatti dice: «Se invece Renzi se ne vuole andare, sarà il presidente Mattarella a decidere il da farsi». Insomma: a Renzi – che nel mentre chiude a ipotesi rimpasti, della seria “se resto, resto coi miei, non vi pensate di mettermi sabotatori in casa come io ho fatto con Marino” – Bersani ricorda che le urne sono comunque lontane. E lo sono anche se vince il Sì, perché è sempre Mattarella a dover decidere.

Ancora bombe sulla Siria. Onu: a fine mese oltre 700 civili uccisi

Il governo siriano mercoledì ha bombardato un ospedale, una banca del sangue e numerose ambulanze nella zona est di Aleppo in mano ai ribelli. Secondo le prime testimonianze degli attivisti raccolte dalla Bbc almeno 32 persone, tra le quali anche dei bambini, sono state uccise negli ultimi due giorni. I bombardamenti aerei sono ricominciati martedì dopo la fine del cessate il fuoco da parte della Russia, alleata del governo, e durato tre settimane.
Dalla sede londinese del Syrian Observatory fanno sapere che gli attacchi comprendono oltre a missili lanciati dai jet anche barrel bomb lanciate da elicotteri e azioni di artiglieria indirizzate a colpire soprattutto i quartieri nell’area orientale di Aleppo come Shaar, Sukkari, Sakhour e Karam al-Beik. Qui i morti sono stati almeno 21, 5 dei quali bambini.

An handout image of refugees in Siria, Iraq, Yemen, Sud Sudan, provided by Oxfam on 15 September 2016. Close to four million refugees and asylum seekers have fled from one conflict zone to another, Oxfam said today ahead of two summits on migration in New York next week. Oxfam analysis shows that these millions of vulnerable women, men and children were registered in 15 countries - having fled their own - where conflict had caused a total of 161,250 deaths. That's almost 16 per cent of all people who have fled violence, persecution or war at home as they have ended up in another country that is itself in conflict or in a state of insecurity. ANSA / OXFAM PRESS OFFICE +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++
ANSA / OXFAM PRESS OFFICE

Tra le strutture danneggiate ci sarebbe appunto anche un ospedale, il Bayan Children’s Hospital che ora si trova in pessime condizioni a quanto riporta la Indipendent Doctor Association. «Sentivamo il rombo degli arei sopra di noi e non potevamo uscire, quindi abbiamo pensato di proteggerci fuggendo in una stanza del seminterrato» ha spiegato Hatem, direttore dell’ospedale colpito dai bombardamenti ieri.
Gli Elmetti Bianchi, volontari che si occupano di salvare chi rimane intrappolato sotto le macerie dopo i bombardamenti, hanno confermato anche l’uccisione di un paramedico nel quartiere di Karam al-Beik.

Gli attacchi aerei non si sono limitati però a colpire solo in città, i media riportano infatti di continui bombardamenti anche a ovest di Aleppo, sui villaggi e le campagne circostanti. Nel villaggio di Batbo le persone uccise solo mercoledì sono state almeno 19 secondo le fonti del Syrian Observatory. La Russia ha inoltre dichiarato che questo tipo di attacchi nell’area nord ovest sarà sempre più frequente poiché Mosca ha tutta l’intenzione di iniziare una grossa operazione contro le milizie jihadiste stanziate anche in altre aree della Siria.

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Nell'infografica realizzata da Centimetri la situazione a Nord-Ovest della Siria. ANSA/CENTIMETRI
Nell’infografica realizzata da Centimetri la situazione a Nord-Ovest della Siria.
ANSA/CENTIMETRI

Le campagne erano già state colpite dai missili russi, addirittura secondo Human Rights Watch distruggendo una scuola e commettendo quindi un crimine di guerra.

La Russia il 18 ottobre aveva concesso una tregua per offrire la possibilità ai civili e ai ribelli di abbandonare le loro case, ma in pochi hanno scelto di andarsene. Secondo le stime delle Nazioni Unite entro la fine del mese il numero di civili uccisi durante i bombardamenti aerei e gli assalti di artiglieria supererà la 700 vittime.