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Nel caos di Francia arriva Emmanuel Macron. Il candidato indipendente che propone le changement

Enfin!“. Finalmente! Così molti giornali hanno accolto la notizia. Emmanuel Macron sarà il candidato indipendente alla presidenza della Francia. Dopo mesi di annunci – dal 30 di agosto, dopo le sue dimissioni da ministro di Economia del governo Valls non si è più smesso di parlarne – lo ha annunciato da Bobigny, il capoluogo del dipartimento della Senna-Saint-Denis nella regione dell’Île-de-France: «Il mio obiettivo non è quello di riunire la destra o la sinistra, ma di riunire i francesi», ha detto. «Il sistema ha smesso di proteggere coloro che doveva proteggere. La politica vive ormai per se stessa ed è più preoccupata della propria sopravvivenza che non degli interessi del Paese». In un discorso di venti minuti si è scagliato contro «i blocchi» che paralizzano la Francia spiegando così la scelta di correre come indipendente, fuori da ogni partito tradizionale e con il suo movimento, En Marche!.

Nato nel Nord della Francia, in quel di Amiens, capoluogo dell’antica Piccardia, il 21 dicembre del 1977, Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron è figlio del medico e docente di Neurologia Jean-Michel e di Françoise Noguès, medico anche lei. Per dieci anni studia pianoforte al Conservatorio di Amiens e pratica anche la boxe francese e il calcio. Inizia i suoi studi in un liceo privato cattolico di Amiens e li prosegue a Parigi, poi va a formarsi all’École nationale d’administration di Strasburgo (scuola di formazione dell’alta funzione pubblica francese), lavora come dirigente per il ministero dell’Economia e nella divisione francese della banca Rothschild.
La politica? È alla nonna che deve il suo impegno a sinistra, dice Emmanuel. Che muove i primi passi nel Movimento dei Cittadini (Mcd) di Jean-Pierre Chevènement, noto in Francia come “le Che“. Ed è lui che vota nel 2002. Poi, nel 2006 si iscrive al Partito socialista francese (fino al 2015), qui incontra François Hollande e ne diventa consigliere nel 2010. Alle presidenziali del 2007 sostiene l’alleanza tra Ségolène Royal e François Bayrou. Ma è a François Hollande che è legato, tanto che qualche giornale non stenta a definirlo «une sorte de second fils pour Hollande». E nel 2014 arriva il suo momento. Con la crisi di governo dovuta alle divergenze in temi economici tra i ministri socialisti moderati e quelli più di sinistra. È in quei giorni che Hollande nomina un nuovo governo, confermando Manuel Valls alla carica di primo ministro ma sostituendo Arnaud Montebourg proprio con Macron che viene nominato ministro dell’Economia, dell’Industria e del Digitale. Finché un martedì di agosto di due anni dopo, il 30 del 2016, decide di dimettersi e comincia a pensare alla presidenza del Paese, per «trasformare la Francia», dice.

Prima che corrano improprie analogie con Podemos, è il caso di dare un’occhiata al curriculum politico di Macron, noto come «il più liberale della squadra di governo». Trentotto anni, ambizioso, popolare. Ha una buona parlantina e dita abili al pianoforte, qualcuno lo chiama il “Mozart dell’Eliseo”. Da ministro dell’Economia si è fatto conoscere, in particolare, per la sua proposta di legge sulle liberalizzazioni e la legge che proponeva di mettere fine alla settimana lavorativa di 35 ore in Francia. Proposta poi ridimensionata, dopo innumerevoli e inenarrabili polemiche. Macron apprezza le riforme di mercato e, insieme, parla di unità sociale. Ancora da ministro ha incoraggiato Hollande ad accantonare la super-tassa del 75 per cento sui ricchi, che – ha detto – avrebbe trasformato la Francia in una «Cuba senza il sole».

La campagna elettorale per le Presidenziali 2017 in Francia comincia, pian piano, a entrare nel vivo. Intanto, Nicolas Sarkozy si butta a destra e prova a fare concorrenza alla lanciatissima candidata di estrema destra Marine Le Pen. E il presidente Hollande arranca nei sondaggi e combatte con l’ala sinistra dei socialisti francesi, in testa l’ex ministro dell’Industria Arnaud Montebourg. È in questo preciso momento che arriva Macron a proporre le changement, che potrebbe fare “l’asso piglia tutto” del malcontento francese. Proporre il cambiamento ai francesi è una mossa impervia e una campagna elettorale per la presidenza della Francia costa fino a 22 milioni di euro. Ma a Macron, su questo son tutti d’accordo, l’ambizione non è mai mancata.

Chiamò Michelle Obama scimmia: sindaco si dimette

Melania Trump e Michelle Obama alla Casa Bianca
Melania Trump e Michelle Obama (D) durante un incontro alla Casa Bianca, 10 novembre 2016. ANSA/ UFFICIO STAMPA CASA BIANCA ++HO -NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

La West Virginia è un posto per gente ruvida. E le istituzioni di un villaggio di 500 anime non sono quelle di una grande città. A fare il sindaco ci può finire chiunque. Anche una come Beverly Whaling.

Non ricorderete il suo nome, ma ne avrete sentito parlare: il sindaco di Clay, 491 anime, è diventata famosa nel mondo per aver risposto nella maniera sbagliata al post Facebook di un’amica. La storia è presto detta: Pamela Ramsey Taylor, dipendente dalla Clay County, meno di 10mila abitanti, bianca al 98%, ha scritto sul suo profilo personale: «Sarà bello veder rientrare alla Casa Bianca una first lady bella, degna e di classe, sono stanca di vedere scimmie sui tacchi». La scimmia sui tacchi in questione è Michelle Obama, e il riferimento alle scimmie, difficilmente può essere scambiato per quel che non è. Non c’è scritto elefante, ippopotamo, balena. C’è scritto scimmia, che è un nomignolo razzista affibbiato ai neri d’America nei tempi d’oro.

Il sindaco, sotto al post in questione, aveva scritto: «Grazie Pam, mi hai appena salvato la giornata (hai migliorato la mia giornata…you made my day)». Il post, ripreso da una radio locale, ha scatenato giustamente l’inferno. Centosettantamila persone hanno firmato una petizione per chiedere le dimissioni di Whaling, che ha naturalmente chiesto scusa e spiegato di non essere razzista.

Il consiglio di contea ha chiesto ufficialmente scusa alla first lady e licenziato Taylor. Whaling, dopo aver resistito un paio di giorni, si è dimessa. Ha anche aspettato troppo.

Scaricato da B. Parisi potrebbe fare il salto. Contenti?

Stefano Parisi e Silvio Berlusconi
Silvio Berlusconi (S) e Stefano Parisi in una immagine del 20 marzo 2016. ANSA/MATTEO BAZZI

Quando si è candidato a Milano in tanti avevano detto che con Giuseppe Sala non c’era poi differenza, non fosse per il fatto che Stefano Parisi era il candidato di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini. Ecco allora che non è così strano quello su cui i più puntano oggi, dopo che l’anziano leader del centrodestra, Berlusconi, ha scaricato Parisi, archiviando così un tentativo di leadership che lui stesso aveva immaginato. Dopo il referendum (su cui Parisi non si sta impegnando molto) l’ex candidato sindaco di Milano continuerà a lavorare sui moderati, ma non pensandosi più come un consulente di Silvio Berlusconi, e anzi come un battitore libero pronto a fondare (l’ennesima) forza responsabile. Che vuol dire di destra ma disponibile a governare con il Pd.

«Divide e litiga» è comunque il giudizio su cui è arrivato Berlusconi, «non è un leader». Riconosce che Parisi ha sempre detto di volerlo solo aiutare a mettere ordine in Forza Italia, Berlusconi, ma il giudizio sega le gambe, impedisce a Parisi di crescere. Non è insomma neanche lontanamente un possibile competitor di Matteo Renzi. Non è paragonabile perché, come ha aggiunto Berlusconi parlando con Rtl, «Renzi è l’unico vero leader». Dice così il Berlusconi analista, che conferma però il suo No al referendum di dicembre, e dà quindi un giudizio sulle sole capacità organizzative e di comunicazione del presidente del consiglio.

Parisi dunque non è l’uomo giusto, e non lo è perché non è riuscito a mettere pace in Forza Italia, avendo invece contribuito ad alimentare le liti interne tra l’anima più moderata e quella più radicale, che in questi giorni è tutta galvanizzata dalle elezioni americane. Brunetta, Toti, Santanché. E Salvini, ovviamente, che non è in Forza Italia ma è alleato strategico, un alleato che non vuole aver nulla a che fare con Parisi (e con cui Parisi d’altronde non vuole aver nulla a che fare).

Prende le parti di Salvini, Berlusconi, ricordando che con la Lega Forza Italia governa tre regioni. Anche se poi ne ha pure per lui e prova a piantare qualche paletto: «Spero che la forza populista in Italia sia solo il MoVimento 5 stelle», dice ancora, «e che la Lega possa assolutamente aderire ad una coalizione con noi». Fredda è la replica di Parisi: «Se Berlusconi vuole Salvini leader del centrodestra, perde».

Condannati gli infermieri e i medici che, dopo un Tso, lasciarono morire Mastrogiovanni

87 ore

Condanna di secondo grado per i medici e gli infermieri di Vallo della Lucania, imputati per la morte del maestro elementare  Francesco Mastrogiovanni, morto a 58 anni dopo un ricovero forzato, nel 2009. Ci sono voluti sette anni, ma ora si comincia a delineare la verità su questo inaccettabile caso di malasanità. Gli undici infermieri, assolti in primo grado, sono stati condannati, ciascuno di loro ad un anno e tre mesi di reclusione, pena che però è stata sospesa. Sconto di pena invece per i medici condannati dal tribunale in quanto sono state riconosciute le attenuanti generiche. Per loro l’accusa è di falso in atto pubblico. Il caso di Mastrogiovanni, maestro elementare di Castelnuovo Cilento, è stato raccontato in modo coraggioso, in 87 ore , film di fortissima denuncia della regista Costanza Quatriglio.

87 ore è anche un lavoro bello e struggente perché la regista, con sensibilità e pudore, cerca di ridare una voce a quella solitaria persona che il 31 luglio 2009 è stato portato via in ambulanza per un Tso e poi, benché fosse calmo, è stato sedato e legato al letto, fino alla morte, avvenuta il 4 agosto dopo quattro giorni di agonia.

Il film è stato presentato al Senato da Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto, sperando che possa accendere i riflettori su questo caso e sul processo. Il 28 dicembre 2015 il film, che ha il patrocinio di Amnesty International Italia, è andato in onda su Rai3.  Riproponiamo qui l’intervista alla regista.

«Devo a Manconi, che aveva apprezzato i miei film precedenti, la prima idea di fare questo film. Con Valentina Calderone mi hanno segnalato le immagini della video sorveglianza, che erano state diffuse sul sito de L’Espresso». Quelle immagini che erano di dominio pubblico ma, anche se senza censure, non raccontavano però la verità più profonda. In quelle crude e agghiaccianti sequenze non c’era il vissuto, non c’era umanità in quella fredda cronaca. Ma proprio da lì, da quel documento, è nato il film. «Abbiamo cominciato a immaginare come avremmo potuto raccontare questa storia. All’inizio nessuno avrebbe pensato che la narrazione si sarebbe potuta reggere su quelle immagini registrate dalla videocamera di una sala di ospedale. Ciò che è avvenuto è stato il frutto di un percorso nato studiando le immagini, la loro durata interna e come vengono percepite. Determinante è stato il corpus di documenti giudiziari e medico-legali. Ho capito che nelle carte avrei trovato la chiave della narrazione. È stato un lavoro di scrittura forse irripetibile, perché basato su immagini preesistenti che però, per certi versi, dovevano essere “rivelate”.

Preparando il film, dalle testimonianze, che idea ti sei fatta di questa persona che prima di questi drammatici fatti non conoscevi?

All’inizio avevo solo quelle immagini che mostravano una persona ridotta a figurina bidimensionale. Ho dovuto fare un grosso sforzo per capire come fosse Mastrogiovanni. C’era molto pudore e molta tenerezza nei suoi confronti da parte dei familiari e degli amici. Attraverso quello che intuivo mi sono fatta l’idea di un uomo di grande dolcezza, un po’ all’antica, che aveva valori, per così dire, assoluti, quasi ancora adolescenziali. Forse con un po’ di romanticismo me lo immagino come un perfetto maestro elementare. Una figura che ti accompagna, ti fa giocare, ti fa riflettere. Certamente è stato un uomo di grandi ideali che è stato bastonato dalla vita.

Aveva già avuto prima di questo episodio altri ricoveri?

Sì. Mentre si avvicinava all’ambulanza, ha detto: “non mi portate a Vallo, che lì mi ammazzano”. Questa sua frase fa scattare miliardi di domande. Tra il 2002 e il 2005 Mastrogiovanni era stato soggetto ad altri tre trattamenti sanitari obbligatori (Tso). Viene da pensare che avesse già visto o vissuto situazioni degradanti e disumane come quelle che poi ha subito nel 2009. Altrimenti non si spiega quella frase. La cosa terribile, però, è che oggi non abbiamo una risposta certa.

Mentre il processo sta andando avanti 87 ore avanza domande importanti, che cosa ti aspetti?

Spero che scaturisca una riflessione pubblica, che si possa tornare a discutere dell’uso della contenzione, perché attualmente non c’è una legge univoca. Esistono dei regolamenti e c’è una disposizione dei primi del Novecento, peraltro oggetto di controversie dal punto di vista della dottrina giuridica. Ma non spetta a me parlarne, ma a chi è competente. Io mi limito a rilevare che in questa storia ci sono due questioni distinte: il Tso e la contenzione meccanica, ma davvero questo deve affrontato da chi è titolato a farlo. Io mi sento di dire che se la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, avesse avuto la consapevolezza del proprio diritto nell’oltrepassare quella porta dal vetro oscurato, forse sarebbe ancora vivo. Questo film apre uno squarcio sulla nostra responsabilità individuale. Come cittadini dovremmo vigilare sui nostri stessi diritti. E sui nostri stessi obblighi, che sono altrettanto dirimenti, perché c’è l’obbligo di attenzione verso l’essere umano, l’obbligo di cura, quello che è mancato a Mastrogiovanni.

Vedendo questo film forte, toccante, che toglie il respiro, nella testa rimbomba una domanda: perché in quel reparto psichiatrico lo hanno lasciato morire?

Non ci sono risposte logiche e razionali. Ho trovato una risposta in quel modo di guardare quel corpo attraverso le videocamere dell’ospedale. Quell’occhio lo osserva in modo procedurale, meccanico. Nel momento in cui ho capito che la risposta per me da cineasta stava in quello sguardo, ho capito che era giusto fare il film.

Mastrogiovanni era guardato a vista ma non curato…

Qui tutto è delegato alla meccanica, non c’è rapporto umano. Tutto diventa freddo, distante, disumano. In quello sguardo reificante c’è la causa dell’accaduto. Questa è la risposta che mi sono data. Altrimenti è il mondo dell’insensatezza. Non mi sento neanche di attribuire a quel comportamento da parte del personale intenzioni cospiratorie. Davvero sono convinta che quel modo di guardare abbia determinato la fine di Mastrogiovanni. Era visto come una cosa, un corpo, privato di ogni dignità. Non solo chi guarda attraverso il video ma anche tutti gli altri in quella stanza sono come dei robot che si muovono meccanicamente accanto ad un mero corpo.

La sensazione che si ha è che Mastrogiovanni sia stato annullato come persona.

Sì sono d’accordo, esiste solo il corpo di Mastrogiovanni, la persona non esiste per chi lavora là attorno. E per chi poi pulisce e sistema la stanza come se lui non fosse mai stato là. Il massimo della visibilità attraverso le telecamere corrisponde qui al massimo della invisibilità. L’uso del video in 87 ore serve a questo, come spettatore ti mette in una posizione insopportabile, ti costringe ad assumere qual punto di vista meccanico, disumano e disumanizzante e poi a poco a poco cominci a renderti conto di tutto questo. In questo contesto la persona Matrogiovanni può essere solo evocata in quel prologo iniziale in cui le voci, in sua assenza, davanti alla mare, ci fanno intuire la sua realtà di uomo.

E nelle parole della canzone finale, quasi un controcanto poetico alla crudezza della immagini. Come avete lavorato sulla partitura realizzata con Marco Messina, 99 Posse, Sacha Ricci?

Anche cercando di rendere la drammaticità della situazione attraverso suoni d’ambiente che arrivano all’orecchio in modo ovattato, come da lontano. Come potrebbero essere percepiti da chi è lungamente in apnea, da chi sta annegando. L’acqua è un elemento importante del film, come metafora di un elemento generatore, ma anche in tutta la molteplicità dei significati anche letterari che può assumere il tema della morte per acqua.

“Io stavo male e mi hanno ucciso” dice una voce furi campo nel film. Eliminare la persona, invece della malattia, questo lo facevano i nazisti. Il caso di Mastrogiovanni ci mette davanti a un drammatico fallimento della cura?

È il fallimento dell’umano, mi sento di dire così. In tutto il percorso ad ostacoli per realizzare questo film ho ragionato in termini umano-disumano, più che in termini di rapporto medico-paziente, perché di fatto siamo davanti a una situazione paradossale, lui entra in un luogo di cura delle malattie psichiche e ne esce morto. Cinque giorni dopo.

Google e Facebook dichiarano guerra alle bufale

Dopo anni di slogan grillini che ci dicevano che la verità la potevamo scovare solo in rete, ci siamo accorti più o meno tutti (ma qualcuno resiste, lanciando ancora allarmi su scie chimiche e gomblotti vari) che nel web le bufale proliferano e dilagano. È così che, a seguito della clamorosa elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti in America, vari opinioninsti hanno cominciato a chiedersi se alcune delle bufale circolate soprattutto su facebook e diventate virali, avessero contribuito a mettere definitivamente K.o. Hillary Clinton. La risposta è arrivata direttamentente da Mr. Zuckerberg che ha assicurato: «I contenuti pubblicati su Facebook il 99% sono autentici». Insomma, un tempo ci dicevano che era vero perché lo vedevamo in tv, adesso “Zuck” ci spiega che “è vero perché lo dicono i social”. Le perplessità però, supportate da molti studi pubblicati recentemente, rimangono e si acuiscono se si guarda, per esempio, alle ultime policy attuate da Facebook e dal “rivale” Google sulle pubblicità. Entrambi i colossi del web infatti hanno scelto di limitare l’utilizzo dei loro sistemi di advertising ai siti diffusori di bufale. Una mossa che, da sola, lascia intendere una certa preoccupazione per il dilagare di una tendenza che finisce per inquinare l’ambiente web. Ma soprattutto, una mossa della quale Google e Facebook non sentirebbero il bisogno, se effettivamente il 99% delle cose che circolano sulle nostre bache fosse autentico. Inoltre, secondo un’inchiesta di gizmondo.com, infatti, gli stessi tecnici di Facebook erano ben consapevoli del problema bufale e sin da maggio si erano scervellati per cercare di sviluppare un algoritmo che scremasse le notizie reali da quelle false La testata americana addirittura sostiene che il team di Menlo Park avesse trovato una soluzione, ma che alla fine si sia scelto di non attuarla. Lievemente diversa la questione per Google che avrebbe invece impedito ai siti di bufale di accedere ad AdSense e “fare i soldi” con la diffusione di notizie false ma estremamente virali. Se la partita per le presidenziali si è appena chiusa, ora si apre quella per la corretta informazione che speriamo si risolva prima del 2020. Magari riusciamo ad evitarci un secondo mandato Trump.

Merkel pronta al quarto mandato. E Obama lancia la sua corsa

German chancellor Angela Merkel (CDU) delivers an address at the Day of the Employers conference organised by the Federal Union of German Employers (BDA) in Berlin, Germany, 15 November 2016. Photo: Kay Nietfeld/dpa

Angela Merkel si candiderà per il quarto mandato. Alla guida della Germania dal 2005, la cancelliera si prenota per le elezioni tedesche, in calendario a settembre 2017.
Ad annunciarlo in un’intervista alla Cnn, il vice presidente federale della Cdu, Norbert Roettgen. Partito, l’Unione cattolica democratica, di cui Merkel è presidente dal 2000. Subito redarguito dalla sua presidente però, che dopo la diffusione dell’intervista, ha fatto sapere tramite il suo portavoce Steffen Seibert che la decisione verrà presa solo al momento opportuno, ovvero durante il congresso del 6-7 dicembre della Cdu a Essen, nel quale verranno rinnovati i vertici del partito.

Capo di governo con l’incarico più lungo in Europa”, come scrive il Nyt, in questi 11 anni attorno a lei il mondo è cambiato, l’Unione europea scricchiola e stanno tornando alla ribalta populismi e capi popolo (ne parliamo sul prossimo numero di Left). Dopo l’elezione di Trump come presidente degli Stati uniti molti osservatori guardano a lei come unico leader capace di mantenere gli equilibri della democrazia liberale nel Vecchio continente. Che linea terrà, la Kanzler, con un personaggio come Donald Trump? Quali saranno le scelte in politica estera del primo e le risposte della seconda? Che fine farà l’Alleanza transatlantica? Questioni che almeno in parte la Cancelliera affronterà con Barack Obama, che stasera atterrerà a Berlino per la sua ultima visita da presidente Usa. I due si incontreranno domani, mentre al summit di venerdì è prevista anche la presenza di Matteo Renzi, François Hollande, Theresa May e Mariano Rajoy.

Prima di salire sull’Air Force One, come riporta der Spiegel, Obama ha dichiarato: «Merkel è stata il mio più stretto alleato». “Un’amichevole bugia”, sempre stando al giornale tedesco, ma anche un messaggio molto chiaro al premier tedesco e a un’Europa intimorita dalla virata populista. Oltre che una specie di “passaggio del testimone”. Puntare sulla leader di centrodestra più forte su piazza – e anche l’ultima rimasta in sella di un’intera generazione politica – potrebbe essere, dal punti di vista degli Usa, un modo per arginare derive di destra anche nel cuore dell’Europa. La voglia di continuità e stabilità, insomma, potrebbe essere l’arma con cui disinnescare il populismo dell’Afd (Alternative für Deutschland, Alternativa per la Germania), anche se ci sarebbe da capire quale prezzo pagherebbero i cittadini degli altri Paesi europei.

epa05631206 German Chancellor Angela Merkel speaks during a press conference on the new candidate for the German Presidency Frank-Walter Steinmeier at the chancellery in Berlin, Germany, 14 November 2016. German ruling coalition parties have agreed on Steinmeier as a joint candidate for the German President office. EPA/RAINER JENSEN
Angela Merkel durante una conferenza stampa a Berlino, 14 November 2016. EPA/RAINER JENSEN

Scienziata per formazione, statista per capacità, e secondo Forbes la donna più potente al mondo per quasi 10 anni consecutivi,  Merkel è stata non a caso accostata a Margaret Thatcher. Come lei, ha presieduto il G8. Nel 2007 è stata anche presidente del Consiglio europeo, giocando un ruolo fondamentale nei negoziati per il Trattato di Lisbona e nella Dichiarazione di Berlino.

 

Dopo i Panama papers, ecco il rapporto di Stiglitz e Pieth sui paradisi fiscali

Mercoledì 15 novembre, il premio Nobel all’economia, Joseph Stiglitz, e Mark Pieth, esperto svizzero in anti-corruzione, presenteranno alla Commissione d’inchiesta sul caso “Panama Papers” del Parlamento europeo un rapporto sui paradisi fiscali globali.

Lo studio, che si intitola Overcoming the shadow economy  (“Sconfiggere l’economia sommersa”, ndt.) è reperibile sul sito della Friedrich Ebert Stiftung e rappresenta una chiamata alle armi mondiale contro i paradisi fiscali.

Il documento ha un peso particolare visto che, proprio Stiglitz e Pieth, avevano lasciato la Commissione d’inchiesta istituita dallo stesso governo di Panama dopo lo scandalo, sbattendo la porta e accusando le istituzioni di non garantire un lavoro trasparente.

Le conclusioni dello studio ribadiscono innanzitutto che «esiste un consenso globale» secondo il quale «i paradisi fiscali favoriscono il crimine e producono livelli di disuguaglianza di ricchezza inaccettabili». Ma arrivano anche parole pesanti per gli Stati Uniti e per l’Unione europea: «Sebbene i leader delle economie statunitense ed europea abbiano gli strumenti adatti per obbligare i centri finanziari a rispettare le regole sulla trasparenza, non lo fanno. Ciò testimonia il potere degli interessi di coloro che guadagnano dalla segretezza delle transazioni finanziarie».

Stiglitz e Pieth sostengono che «serve un sistema di trasparenza globale. Gli Stati Uniti e l’Ue sono attori chiave per il raggiungimento di tale obiettivo […] Servono leader che propongano modelli alternativi per la crescita e lo sviluppo economico».

In fine, i due autori lanciano un invito generale: «I poteri esecutivi devono agire in maniera proattiva. Non basta rispettare i standard minimi in vigore. Al contrario, i governi dovrebbero mettere al centro della riflessione i loro modelli di sviluppo per farne esempi di avanguardia nella trasformazione degli standard stessi».

 

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Sì, dai. Un esercito in ogni cantone

Un momento della cerimonia, alla base Millevoi di Shama, sede del quartier generale dei caschi blu italiani, di avvicendamento del Combat Service Support Battalion, 14 Novembre 2016. Il reggimento Gestione Aree di Transito di Bellinzago Novarese, al comando del colonnello Mario Stefano Riva ha passato le consegne al reggimento Logistico Pozzuolo del Friuli di Remanzacco (UD) al comando del colonnello Alessandro Tassi. ANSA/ US/ ESERCITO +++ NO SALES EDITORIAL USE ONLY +++

Ma vi ricordate come si accartocciavano indignati ogni volta che qualche leghista o destrorso a Milano invocava l’esercito per garantire la sicurezza in città? Vi ricordate i dibattiti sulle ronde, sulla strumentalizzazione della paura, sulla Lega che proponeva soluzioni militari perché incapace di elaborare soluzioni politiche? Bene, non vale già niente, sappiatelo. Anche in questo campo si cambia verso tornando indietro.

Così mentre il sindaco Beppe Sala invoca l’esercito in via Padova succede che Salvini abbia la soddisfazione di notare come la sinistra arrivi «sempre troppo tardi sulle nostre stesse soluzioni» mentre il parlamentare milanese Fiano (Pd) dichiara di essere «sempre stato contro l’esercito ma ora ho cambiato idea», dalla Regione Lombardia i democratici (insieme ai compagni di Ambrosoli) dichiarano che è una «scelta di buon senso» e che l’esercito «è un deterrente», Stefano Boeri dice che «l’esercito è una dimostrazione di attenzione verso i cittadini» e così via in una serie di dichiarazioni di questo tenore.

La nuova regola è “se diciamo noi le cazzate degli altri allora vale”. E chissà cosa ne pensano quei democratici che provarono ad avanzare la stessa proposta tempo addietro e vennero additati di fascismo (Penati, ad esempio). Ma la nuova linea porta con sé un messaggio ancora più sottile: l’esercito non serve ma non riusciamo a farlo capire e allora mettiamo l’esercito. Si chiama arrendevolezza arraffaconsensi: è lo stesso vizio dei populisti anche se qui viene articolato come se fosse davvero una cosa seria.

Così nel grigio della giornata alla fine splende il pensiero diamantino di uno che la sicurezza la studia per professione: Roberto Cornelli è professore di criminologia, ex sindaco e dirigente del Partito democratico e sul suo profilo Facebook scrive che si può «provare a reagire alle emergenze con progetti strutturati ed evitando di ricorrere sempre e solo a “sedativi sociali”, tanto facili quanto spesso inefficaci».

Per chi fatica a intendere aggiunge anche una postilla:

«Sintesi per la stampa: la richiesta dell’esercito è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime (se non diventa cioè una richiesta ricorrente). Per il resto (per ridurre la violenza o assicurare alla giustizia gli autori) serve a ben poco. Può essere addirittura dannoso se concepito come LA soluzione.»

E si torna a respirare. Per fortuna. In tempi di cialtroneria il buonsenso diventa una vetta altissima, del resto.

Buon mercoledì.

Anna si alza e chiede: «Cos’è per lei la democrazia?». Ma Renzi non sa rispondere

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi all'università Cattolica di Milano, 14 Novembre 2016. ANSA / MATTEO BAZZI

Era lì davanti a una folla di studenti della Cattolica di Milano per ripetere anche lui quella roba del futuro che ci ridà se votiamo Sì al referendum e della fine del bicameralismo perfetto. Ma poi lei si alza: «Salve, sono Anna, signor presidente volevo farle una domanda che si discosta un po’ dal referendum. Cos’è per lei la democrazia?».Gli altri studenti ridacchiano, Renzi è evidentemente beccato in contropiede. Ha il tempo contato e un ritornello da ripetere. Domande “che si discostano un po’ dal referendum” non sono contemplate e per di più lo trovano spiazzato. Fa un cenno imbarazzato a Pericle e Atene senza neanche spiegare bene il perché, la prende larga organizza veloce la storiella edificante e poi parte. Il «potere del popolo» è democrazia. Questa è la sua definizione. Arg. «E sapete qual è stato il momento più edificante per me come rappresentante delle istituzioni italiane? – continua – Quando ho incontrato Barack Obama alla Casa Bianca». Ha spiegato così la democrazia e cos’è per lui, l’incontro con un presidente di colore (nero) dopo aver visto con i suoi figli un film (Selma) che raccontava la storia dell’Alabama negli anni 60 quando i neri non potevano neanche registrarsi per andare a votare. «Vedete la democrazia che ha fatto gli straordinari, e dopo neanche 50 anni, il presidente degli Stati Uniti, è Barack Obama, un uomo di colore». Ricapitolando, Renzi dopo una settimana che aveva visto questo bellissimo film, aveva incontrato Barack Obama (un uomo nero) dentro la Casa Bianca e si era emozionato. Questo è stato il momento più edificante della sua carriera istituzionale. La democrazia è una cosa seria, ha anche aggiunto, e «ha una dimensione ideale rappresentata per me proprio da Obama». Vabè… che avrà voluto dire? Se lo sarà chiesto Anna che c’entrava la cena con Barack Obama e il film che aveva visto con i figli col significato della democrazia? Noi sì. Ce lo siamo chiesti e ci è venuto il dubbio che non sapesse proprio cosa rispondere. Così su due piedi, non si era preparato. Poi per fortuna si è ricordato di quel film e di quella cena. Scusa Anna, verranno tempi migliori.