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I primi nomi dell’amministrazione Trump sono molto brutti. Ecco chi sono

Jeff Sessions
epa05435824 US Senator Jeff Sessions of Alabama (L) and other Alabama delegates react as they watch Pastor Mark Burns speak during the final day of the 2016 Republican National Convention at Quicken Loans Arena in Cleveland, Ohio, USA, 21 July 2016. The four-day convention is expected to end with Donald Trump formally accepting the nomination of the Republican Party as their presidential candidate in the 2016 election. EPA/ANDREW GOMBERT

La amministrazione Trump comincia a prendere forma. Una brutta forma. Se ci sono ancora speranze che per quanto riguarda la politica estera il neo presidente scelga qualche figura autorevole e minimamente equilibrata – in agenda c’è un incontro con Mitt Romney, suo arcinemico in campagna elettorale – i primi nomi sono pessimi. E confermano l’idea che Trump preferisca circondarsi di fedelissimi e non di figure capaci – quando si vince un’elezione, si cerca, nel proprio partito, la gente migliore, non solo quella ideologicamente affine.

Il primo nome era di quelli quasi certi di entrare nella futura amministrazione Trump: il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, destinato al Dipartimento di Giustizia, è infatti tra i primi eletti a schierarsi con il miliardario durante le primarie. Tra i sostenitori del neo eletto presidente, Sessions è tra i pochi a poter dire di avere una qualche esperienza di governo e gestione delle cose a Washington, pur essendo un razzista.

Veterano dell’esercito, Sessions è un membro anziano del Comitato dei servizi armati del Senato. Da venti anni  in Congresso, sappiamo già che l’audizione per la sua conferma in Senato sarà furiosa.  Nel 1986, il senatore dell’Alabama, forse lo Stato più razzista di tutti, è diventato il secondo candidato giudice federale a non essere confermato del Senato a causa dei suoi commenti razzisti. Aveva chiamato “boy”, ragazzo, un procuratore afroamericano e dichiarato che «quelli del Ku Klux Klan mi andavano bene fino a quando non ho scoperto che fumavano marijuana».

Sessions ha sempre negato – ovviamente – di essere un razzista.  Ma ha sostenuto che l’NAACP, la associazione che si batte per i diritti dei neri e la American Civil Liberties Union si possono definire “anti-americane”. Nel complesso un membro dell’estrema destra repubblicana delle peggiori in un posto delicato dopo che i democratici si erano impegnati a una riforma della polizia ed avevano aperto diverse inchieste federali sui casi di afroamericani uccisi da poliziotti.

Mike Pompeo, 52 anni, diventerà invece direttore della CIA. Eletto in Congresso nel 2010 durante la rivolta del Tea Party è un critico virulento dell’accordo con l’Iran e ha sostenuto che tutti i musulmani sono potenzialmente complici degli attacchi terroristici. Non solo, ha definito un fuorilegge Snowden ed era parte dell’inutile commissione su Bengasi che ha interrogato Clinton per due volte.

Il consigliere per la sicurezza nazionale sarà invece il generale in pensione Michael Flynn ex direttore della Defense Intelligence Agency dalla quale venne licenziato nel 2010 in circostanze poco chiare. Lui ha sostenuto che la sua linea dura contro l’Isis non piacesse alle mammolette della Casa Bianca. Molti parlano di una gestione caotica e di maltrattamenti al personale. In una mail uscita via Wikileaks, l’ex Segretario di Stato e generale Collin Powell scrive: «Ho parlato con gente della DIA…mi hanno detto che maltrattava lo staff, lavorava contro le indicazioni dell’amministrazione e gestiva male. Dopo di allora è diventato una specie di strano personaggio destrorso».  Flynn ha sostenuto la vicinanza con la Russia contro l’Isis e al Nusra e, tra le altre cose, consigliato via twitter il libro del suprematista bianco Mike Cernovich, uno dei membri del movimento di destra alt-right (ne parleremo domenica su questo sito).

PS: In questi dieci giorni dalle elezioni gli incidenti razzisti di vario ordine e grado sono aumentati a dismisura, segnala il Southern Poverty Law Center. Le nomine non contribuiranno a calmare il clima.

Effetto Trump. Il Messico attiva un piano di assistenza per i messicani residenti negli States

epaselect epa05626076 A man observes US land through the fence in Tijuana, Mexico, on 10 November 2016, on the border between Mexico and USA . EPA/Alejandro Zepeda

«Estamos contigo». Siamo con te. All’indomani delle annunciate politiche anti immigrazione di Donald Trump, il governo messicano predispone una sorta di “piano di emergenza” per assistere i cittadini messicani residenti negli Stati Uniti. Il 16 novembre, una settimana dopo l’elezione del magnate newyorkese, sul sito ufficiale della Ministero per gli Affari Esteri del governo è apparso il comunicato n. 524: «Con il proposito che i messicani che vivono negli Stati Uniti possano contare su informazioni e orientamento opportuni da parte del governo della Repubblica, ed evitare che siano vittime di abusi e frodi, il ministero degli Affari esteri adotterà undici misure, attraverso la sua Ambasciata e i 50 consolati negli Usa».

Chi sono i messicani negli States. Il testo non fa esplicita menzione di Trump, né della sua politica anti immigrazione annunciata con la costruzione del muro alla frontiera con il Messico promessa in campagna elettorale e poi confermata – anche se ridimensionata – dopo la sua elezione. Il confine tra il Messico e gli Stati Uniti d’America corre lungo 3mila chilometri, penetrando sei Stati messicani e quattro Usa. È uno dei confini più attraversati del mondo, con circa 250 milioni di transitanti ogni anno. Tra loro, prevalentemente, troviamo proprio i messicani: i braceros, immigrati spesso temporanei, con regolare contratto di lavoro ammessi legalmente nel territorio Usa; i “tarjetas verdes”, i trasmigranti con la “green card” residenti in Messico ma autorizzati a lavorare negli Usa; gli immigrati legali, con regolare visto d’ingresso e quelli illegali, sprovvisti di documenti. Tra gli illegali, spesso, i braceros che non rientrano nelle “quote” statunitensi dei lavoratori “necessari” e che rientrano clandestinamente.

Una barriera c’è già, il Muro di Tijuana. Trump non è certo il primo a porre la questione dell’immigrazione messicana come un problema di criminalità e traffico di droga. Già negli anni 70 lungo quei chilometri, c’è una barriera. «Odio vedere del filo spinato, ovunque sia», disse l’allora First Lady Pat Nixon quando, in visita al confine tra California e Messico, vide la barriera protettiva a cavallo tra San Diego e Tijuana. Era il 1971. Negli anni quel filo spinato è aumentato, si è raddoppiato, è diventato un muro, poi due muraglie. Negli anni 90 è divenuto un muro d’acciaio lungo oltren30 chilometri, il “Muro di Tijuana” che delinea la frontiera regolamentata da parte Usa con l’Immigration Reform and Control Act (anche detta legge Simpson-Rodino). Eppure, le decine di migliaia di guardie di frontiera (i “border patrol agents”) non hanno impedito, tra il 1990 e il 2007, al numero di irregolari che la attraversano di triplicarsi. Quello che aumenta, in verità, è anche il tasso di mortalità, dovuto alla dispersione nelle desertiche zone rurali.

Le reazioni politiche dal Messico. «I nostri compatrioti non sono né saranno soli», aveva già annunciato – il giorno prima che il comunicato venisse diffuso – il ministro degli esteri messicano, Claudia Ruiz Massieu: «Compatrioti, questi sono momenti di incertezza. State calmi, non cadete nelle provocazioni e non fatevi ingannare», si è poi rivolta ai connazionali che vivono negli Usa. E il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha colto l’occasione per ricordare ai vicini americani che «Il nuovo capitolo che si apre nelle relazioni Messico-Usa genera una costante insicurezza, ma il governo della Repubblica proseguirà facendo del dialogo la via per trovare convergenze». Insomma il Messico imrponta le sue relazioni con gli States di Trump sul pragmatismo, la difesa della sovranità nazionale e la protezione dei cittadini.

Le 11 misure immediate del governo messicano. Aumento del numero di programmi per realizzare tramite il registro consolare, passaporti e certificati di nascita perché «tutti i messicani abbiano documenti di identità». Verranno estesi gli orari di lavoro presso i consolati, per dare risposte al maggior numero di casi possibile, inoltre sarà rafforzata la presenza di «consolati mobili» per raggiungere più persone. E una linea telefonica con numero gratuito dagli Stati Uniti al Messico (l’185 54 63 63 95), disponibile 24 ore su 24, per richieste di aiuto e segnalazione di incidenti. Queste alcune delle cosiddette misure immediate, oltre alla diffusione di materiale con informazioni e i contatti dei consolati. Oltre a questi provvedimenti, poi, il governo ha lanciato un appello ai messicani residenti negli Usa affinché evitino «situazioni di conflitto» e «azioni che possano incorrere in sanzioni amministrative o penali».

Poi c’è il piano della banca centrale, che sta usando tutti gli strumenti possibili per fermare la discesa del peso: la moneta messicana non ha reagito bene all’elezione di Trump, Ma questa è un’altra storia.

Ventuno ragazzi fanno causa a Obama per l’inquinamento

Ragazzi americani possono fare causa a Barak Obama per l'inquinamento

Sembra una commedia americana a lieto fine l’esito della richiesta sporta al tribunale federale dell’Oregon da parte di un gruppo di ragazzi minorenni.
Il 10 novembre 2016, infatti, il giudice federale della città di Eugene, negli Stati Uniti, ha concesso ai ragazzi che compongono l’organizzazione non governativa Our Children’s Trust di sporgere denuncia contro Obama, in qualità di capo del governo federale, e i direttori di tutte le agenzie federali che hanno in qualche modo a che fare con la regolazione dell’ambiente e contro le aziende che estraggono fonti energetiche fossili inquinando il pianeta.

La causa è parte di una campagna più ampia che negli Stati Uniti chiede la fine dell’estrazione di combustibili fossili dalla terra. Non a caso tra i fan di questa azione penale ci sono l’ambientalista Bill McKibben e Naomi Klein, tra i leader di 350.org, che, appunto, fa campagna per fermare l’estrazione di idrocarburi.

Il giudice Ann Aiken ha riconosciuto nell’uso di fonti di energia fossili una «violazione dei diritti costituzionali alla vita e alla libertà» e ha dichiarato che «le azioni o non azioni dei convenuti, che violino o no qualsiasi specifico dovere di legge, abbiano così profondamente danneggiato il nostro pianeta da minacciare i diritti costituzionali fondamentali dei ricorrenti alla vita e alla libertà. Le Corti federali troppo spesso sono state caute ed eccessivamente deferenti nel campo delle norme ambientali, e il mondo ha sofferto per questo».

Alcuni tra i legali degli accusati si sono appellati all’illegalità di una causa mossa da minorenni, poiché per legge i non aventi diritto al voto non possono fare causa allo Stato, mentre altri hanno tirato fuori la carta negazionista, sostenendo che «il riscaldamento globale non è provocato dall’uomo».
Secondo Julia Olson, l’avvocato dei ragazzi, i giovani sono regolarmente tagliati fuori dalle questioni ambientali, pur essendo i diretti interessati delle politiche applicate all’ambiente in un futuro prossimo e dovrebbero poter partecipare alle decisioni importanti.

La campagna ha anche mandato una videolettera a Obama: facciamo causa al governo federale ma con lei non vogliamo vederci in tribunale, ma sederci attorno a un tavolo e farle avvicinare la vinicinanza con l’industria dei combustibili fossili.

 

L’associazione è composta da giovani e giovanissimi provenienti da tutti gli stati nordamericani che hanno tra gli otto e i diciannove anni. Il loro leader ha sedici anni ed è un nativo americano, si chiama Xiuhtezcatl Martinez, è direttore anche dell’ong ambientalista Earth Guardians, ed è un cantante rap.

In seguito alla decisione del giudice – arrivata dopo più di un anno dalla richiesta – ha detto «La mia generazione sta riscrivendo la storia. Noi stiamo facendo quello che tanta gente ci aveva detto che non era in grado di fare: ritenere i nostri leader responsabili per le loro azioni disastrose e pericolose. Io e gli altri ricorrenti stiamo domandando giustizia per la nostra generazione e per tutte quelle future».
Sul sito dell’associazione è possibile aderire alla loro causa e seguire i progetti a favore dell’ambiente che hanno in mente e magari prendere qualche spunto.

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Dal sito di Our Children’s Trust

Chi paga i danni al funzionario multato perché facilita la vita ai contribuenti?

«Pronto? Qui Agenzia delle Entrate. Volevo avvertirla che mancano 20 euro in marche da bollo sul documento che ha depositato. Se provvede all’integrazione procediamo». La voce è quella di un funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Ferrara addetto allo Sportello controllo atti pubblici. Dall’altra parte del filo, centinaia di cittadini e contribuenti che grazie a una comunicazione del genere hanno risparmiato spese, burocrazia, sanzioni e tempo, semplicemente correggendo “in corsa” il loro errore. Ebbene, quel funzionario non ha ricevuto un encomio per questo, anzi. Nel 2009 è stato multato per averlo fatto (due ore di sospensione dal lavoro, pari a circa 39 euro di sanzione) e da allora ha affrontato due gradi di giudizio perché i suoi colleghi dell’audit, addetti col controllo del suo lavoro, hanno rilevato che la procedura non era quella prevista e quindi non adava applicata.

Costava di più? Rallentava la macchina amministrativa? Danneggiava in qualche modo la Pubblica amministrazione? «Nulla di tutto questo», ci spiega Paolo Campioni, responsabile Usb della Regione Emilia Romagna, che ha seguito da vicino la vicenda. «La procedura “semplificativa” di quel funzionario era la stessa applicata dai suoi quattro colleghi di ufficio e da tutti gli uffici della regione, si basa sul principio della gestione “sensata”, da buon padre di famiglia, del rapporto con l’utente e fa pure risparmiare l’ente. Altro che danno erariale!».

Già, perché qualla telefonata o qualla mail fanno entrare subito i soldi mancanti per il bollo calcolato male e scongiurano l’avvio di una procedura che tra segnalazioni, notifiche, sovrattasse e cartelle esattoriali costerebbe molto di più all’amministrazione. «Quanto spediamo per recuperare venti euro?» si domanda Campioni di Usb. «Come spesso accade, chi esce dal “burocratese” e si prende la responsabilità di adottare la soluzione più efficace per tutti e applicare le leggi con buon senso, rischia grosso. Questo è inaccettabile!».

Eppure l’audit dell’Agenzia di Ferrara non ha mai fatto proposte per migliorare la procedura, comportandosi – dice il responsabile di Usb – più come una sorta di organo di polizia interno che come un controllore che ha obiettivo di migliorare il servizio. Né l’Agenzia delle Entrate ha mai emesso circolari o note per regolamentare la procedura in questione, per cui è presumibile che tanti funzionari abbiano continuato, e continuino ancora oggi, a fare le loro telefonate e a inviare le loro mail per consentire ai contribuenti di correggere in corsa i loro errori.

Dicevamo che il funzionario in questione ha dovuto affrontare due gradi di giudizio, dai quali è uscito indenne. «Accanimento ingiustificato» ha detto il giudice a inizio ottobre. Resta il fatto, però, che l’Agenzia delle Entrate abbia avviato un processo per una vicenda per nulla dannosa e abbia addirittura investito l’Avvocatura dello Stato coinvolgendola nel processo di appello dopo aver perso il primo grado, con i relativi costi. Tanto che Usb ha fatto un esposto alla Corte dei Conti di Bologna e circa un mese fa ha sollecitato una risposta: chiede che a rispondere dell’accanimento e risarcire i danni non sia l’Agenzia in quanto tale ma l’ex direttore che ha multato il funzionario sette anni fa e ha poi deciso di ricorrere in appello. Altrimenti a fare le spese dell’accanimento della burocrazia sarebbero ancora una volta i contribuenti.

Napoli grida NO al referendum del 4 dicembre

La manifestazione dei centri sociali a favore del No al referendum del 4 dicembre a Napoli, 18 Novembre 2016. ANSA/CESARE ABBATE

A Napoli il 18 novembre si è svolta la manifestazione dei centri sociali a favore del No al referendum del 4 dicembre. Ecco qualche scatto per raccontarvi come è andata.

Referendum: Centri sociali in piazza per No a Napoli

La manifestazione dei centri sociali a favore del No al referendum del 4 dicembre a Napoli, 18 Novembre 2016. ANSA/CESARE ABBATE

La manifestazione a Napoli a sostegno del No al referendum costituzionale indetto dai Centri sociali, dai Collettivi studenteschi, dai Carc e dall'USB, 18 novembre 2016. ANSA / CIRO FUSCO

La manifestazione dei centri sociali a favore del No al referendum del 4 dicembre a Napoli, 18 Novembre 2016. ANSA/CESARE ABBATE

La manifestazione a Napoli a sostegno del No al referendum costituzionale indetto dai Centri sociali, dai Collettivi studenteschi, dai Carc e dall'USB, 18 novembre 2016. ANSA / CIRO FUSCO

La manifestazione dei centri sociali a favore del No al referendum del 4 dicembre a Napoli, 18 Novembre 2016. ANSA/CESARE ABBATE

In Europa si accorgono dei populisti. E inziano a reagire. Forse

«L’Unione europea potrebbe morire». Sono parole dure quelle pronunciate dal Primo ministro francese, Manuel Valls, durante una conferenza a Berlino giovedì 18 novembre 2016. Secondo Valls, il progetto politico europeo può essere salvato solo a patto che Germania e Francia ritrovino un cammino comune. Il Primo ministro francese ha anche chiuso le porte al Ttip e sottolineato la necessità di ripartire da zero nelle discussioni sul trattato transatlantico. In realtà, Valls non è il primo a lanciare un  segnale di allarme. Due settimane fa, il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, aveva già parlato di un potenziale fallimento dell’Ue.

Insomma, nel dibattito sull’Europa non ci sono più tabù. Allo stesso tempo, dopo le elezioni americane, si ha la sensazione che la classe politica europea si stia lentamente risvegliando per affrontare i rischi legati all’affermarsi di forze populiste. Le affermazioni di Valls e Timmermans sono sicuramente da inquadrare in questo processo. E, a dire il vero, non sono le uniche tracce di reazione istituzionale.

Mercoledì scorso, dopo una lunga assenza dal palcoscenico politico, si è fatto vivo Jean-Claude Trichet, ex Presidente della Banca centrale europea. Trichet ha parlato di «frustrazioni della classe media dei Paesi industrializzati». Più nel dettaglio, secondo l’ex Presidente della Bce, la globalizzazione ha creato due chiari vincitori negli ultimi decenni: da un lato, i Paesi in via di sviluppo, dall’altro, le élite economiche. Allo stesso tempo, le classi medie dei Paesi occidentali hanno vissuto una fase di stagnazione salariale. Ma Trichet ha anche ribadito che la classe politica ha i mezzi per affrontare l’attuale crisi e si è detto fiducioso per il futuro dell’Eurozona.

Altri riflessi anti-populismo? Secondo Andre Tauber (Die Welt), le negoziazioni istituzionali europee sulla definizioni delle voci di spesa per il 2017 si sarebbero svolte senza troppo clamore rispetto agli anni passati. Il messaggio che Bruxelles e Strasburgo vogliono far passare è semplice: gli ingranaggi istituzionali funzionano bene. Insomma, nei momenti di difficoltà, non si fa a botte per un decimale in più.

Secondo Jorge Valero (Euractiv) invece, la Commissione europea sta ammorbidendo la propria posizione sui deficit di bilancio. Il Commissario europeo, Pierre Moscovici, ha detto che sarebbe un atto di masochismo punire Spagna e Portogallo in questo momento. Inoltre, mercoledì scorso, la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione istituzionale in cui viene affermata la necessità di introdurre politiche fiscali espansive in Europa.

Nel frattempo, a gennaio 2017 inizierà il semestre di Presidenza dell’Ue a guida maltese. Il Segretario parlamentare agli affari europei del Paese mediterraneo, Iain Borg, è intervenuto durante una conferenza organizzata dal European Policy Centre affermando che «la priorità assoluta è ricostruire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni».

Insomma, almeno a parole, le istituzioni europee e la classe politica mainstream sembrano reagire. Il problema è che lo sforzo non è coordinato. Alle parole, dovrebbero seguire i fatti.

Ai populismi è dedicato il numero di Left in edicola dal 19 novembre

 

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Responsabilità professionale in Sanità. «Una legge che favorisce più i medici dei cittadini».

«Nonostante i miglioramenti, apportati granché anche a noi, questo disegno di legge non mette in equilibrio i diritti dei cittadini rispetto alle esigenze del personale sanitario. Propende più per i medici». Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale dei diritti del Malato commenta il ddl sulla responsabilità professionale del personale sanitario. Il disegno di legge 2224 (qui) con primo firmatario il responsabile sanità del Pd, Federico Gelli, approvato il 28 gennaio alla Camera e adesso in attesa dell’ok al Senato – forse la votazione la prossima settimana – prevede dei cambiamenti sostanziali rispetto alla legislazione attuale. Il medico che per imperizia provoca un danno anche grave a un paziente non è punibile penalmente nel caso in cui abbia rispettato le linee guida “come definite ai sensi di legge” o le buone pratiche clinico- assistenziali. Le linee guida saranno scritte con l’ausilio di società scientifiche ed esperti e pubblicate nel sito del Ministero. La grande novità riguarda il risarcimento civile. La responsabilità del medico diventa “extracontrattuale”, quindi sarà il paziente che ritiene di aver subito un danno a dover dimostrare che la colpa è del medico. È quell’inversione dell’onere della prova che secondo Aceti sposta l’asse di equilibrio più a favore del personale sanitario che dei cittadini.

Il ddl è stato presentato anche dai media come una risposta a quella tendenza che sarebbe sempre più diffusa tra i medici, cioè la medicina difensiva. Per evitare risarcimenti esosi per i danni causati ai pazienti, molti medici preferirebbero operare senza tanti rischi e quindi curare in modo meno efficace. Lo dimostrerebbero i numerosi contenziosi. Tonino Aceti dimostra, dati alla mano, che non è proprio così, «non si tratta affatto di una caccia alle streghe nei confronti dei medici». Intanto secondo Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) le richieste di risarcimento sono 10 su 10mila, questo significa lo 0,1 %, «una cifra bassissima». Inoltre, secondo i dati forniti dall’Ania (Associazione nazionale fra le imprese assicurative) l’ammontare medio dei risarcimenti si aggira tra i 50mila e i 52mila euro, spiega il coordinatore del Tribunale dei diritti del malato. «Infine, sempre l’Ania sul tema dei risarcimenti accordati, stima che poi le liquidazioni effettive che non hanno avuto seguito, quindi non sono state accordate, nel 1994 sono state il 64% mentre nel 2012 sono state il 17%. Questo significa che in questi ultimi anni il giudice ha dimostrato l’appropriatezza delle richieste», continua Aceti. Insomma, l’80% dei cittadini che si ritenevano lesi per un trattamento sanitario erroneo, aveva ragione.

Questi i dati, che dimostrano come forse si sia fatto un po’ di esagerazione sul fenomeno dei risarcimenti milionari chiesti ai medici e anche sul costo dovuto alle mancate cure per “difesa”. «Il dato stimato di 9-10 miliardi all’anno, che sarebbe il costo della medicina difensiva – continua Aceti – deriva da un campione esiguo di medici, visto che si è trattato di una indagine dell’Ordine dei medici provinciale di Roma su 1500 professionisti».
Il ddl arrivato al Senato è diverso da quello presentato da Gelli alla Camera a gennaio 2016. «Sono stati introdotti dei contrappesi e delle misure grazie anche alla nostra azione di pressione», sottolinea con un pizzico di orgoglio Tonino Aceti. Per esempio una novità è l’accelerazione rispetto alla richiesta della cartella clinica. «Adesso devono passare 7 giorni da quando un paziente presenta la richiesta all’azienda sanitaria». L’altro punto chiave, sempre nell’interesse di colui che ha fatto una richiesta di risarcimento, è la garanzia che i soldi ci saranno. Prima, nei casi per esempio delle regioni oberate dai piani di rientro, il cittadino danneggiato diventava un altro nome nella lista infinita dei creditori e quindi rimaneva a bocca asciutta. «Adesso invece abbiamo ottenuto che le aziende sanitarie mettano a bilancio un Fondo blindato anche contro i pignoramenti e specifico per eventuali risarcimenti». Un altro aspetto di cui il coordinatore del Tribunale dei diritti del malato va fiero è quello per cui nel ddl è scritto di estendere il problema del danno alla sicurezza più in generale delle cure; per questo motivo sono previsti centri regionali sul rischio clinico, per monitorare e valutare l’attività delle strutture sanitarie.

Questi i dati positivi, ma ci sono dei “ma”. «Noi non siamo tra coloro chiamati a redigere le linee guida su cui si valuta la punibilità o meno del medico che sbaglia – puntualizza Aceti -, eppure lo stesso Istituto superiore di sanità ci ha riconosciuto, in quanto associazioni di pazienti e cittadini, un ruolo nella stesura delle linee guida. Qui non ci siamo però». Inoltre il cittadino, oltre al dover dimostrare in sede civile di aver ricevuto un danno dal medico, avrà dei costi in più rispetto ala situazione attuale. Per agire legalmente dovrà passare da un Accertamento tecnico preventivo davanti al giudice e questo avrà un costo, rispetto alla vecchia mediazione obbligatoria. «Poi ci sono due aspetti nel ddl che non sono stati minimamente toccati. Uno riguarda il tempo che passa dalla richiesta di risarcimento alla liquidazione. Secondo Agenas adesso un cittadino deve attendere 4-5 anni tra l’apertura e la chiusura della pratica. Ebbene, è rimasto tutto uguale. L’altro punto non considerato è la presenza di quei soggetti, società specializzate, che utilizzano in modo profittevole le cause nei confronti del personale sanitario. Anche in questo caso non c’è nulla nel testo che parli di deontologia».

Di Sanità parliamo ancora su Left in edicola dal 19 novembre

 

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Rachel Weisz nel ruolo della studiosa che inchiodò il negazionista Irving

Rachel Weisz

Non c’è «mai stato un sistematico sterminio degli ebrei». «Le vittime dell’Olocausto non sono state 4, 5 oppure 6 milioni ma al più qualche migliaio». «Non sono mai esistite le camere a gas». «La Shoah è un’invenzione dei sionisti». Contro queste lucide menzogne razziste e antisemite propagandate da David Irving si è battuta la studiosa Deborah E. Lipstadt, scrivendo il libro Denying the Holocaust The Growing Assault on Truth and Memory.

Nata nel 1946 a Manhattan, nello Stato di New York, in una famiglia di origini ebraiche, la docente dell’università di Atlanta si è scontrata personalmente con lo storico inglese negazionista che nei suoi libri ha esaltato Hitler, raccontandolo come una brava persona, intelligente e versatile, molto interessata al futuro della Germania. Poi lo ha dipinto come un leader capace e del tutto ignaro dei campi di concentramento. Arrivando infine a dire, negli anni Novanta, che i lager non erano mai esistiti, poiché non si trovava un ordine autografo scritto da Hitler. Fandonie che tuttavia riuscivano a fare presa sulla destra più ignorante e xenofoba. Davanti alla immane tragedia di milioni di persone mandate nelle camere a gas e fatte sparire nei forni crematori c’era ancora chi intendeva cancellarne la memoria. Come storica ed ebrea, Deborah non poteva e non voleva tacere. La sua coraggiosa lotta contro la falsificazione della storia è ora raccontata ne La verità negata (titolo originale Denial) del regista Mick Jackson, scritto con lo sceneggiatore David Hare; un solido film di scuola inglese in cui la studiosa, interpretata da Rachel Weisz (che ricordiamo nel ruolo di Ipazia in Agorà), affronta lo sprezzante negazionista David Irving (Timothy Spall) che nel 1995 la denunciò per diffamazione, avendolo definito negazionista, razzista e bigotto.
In un perverso ribaltamento delle parti nel 2000 Irving riuscì a mettere lei alla sbarra. Dopo la pubblicazione di Denying the Holocaust seppe da una lettera della casa editrice Penguin books di essere stata citata in giudizio.

Di lì a poco Lipstadt si è trovata nella paradossale situazione di dover dimostrare che l’Olocausto è avvenuto realmente, che ad Auschwitz i prigionieri venivano uccisi in camere a gas e che Hitler era responsabile dello sterminio. Lo prevede il sistema giudiziario inglese che chiede all’accusato l’onere della prova (a sua discolpa). Nel film in uscita oggi 17 novembre (e nel libro autobiografico della Lipstadt che uscirà sempre oggi con Mondadori), viene raccontato un doppio conflitto culturale. Non solo Deborah Lipstadt deve riuscire a smontare pezzo a pezzo le falsità propagandate da Irving, ma si scontra anche con i modi molto british del suo avvocato: si sente offesa perché il legale le chiede di fare un passo indietro, addirittura di tacere, rinunciando a lanciarsi in appassionate difese della memoria. L’avvocato del prestigioso studio legale Anthony Julius a cui si era affidata non riteneva sufficienti le centinaia di testimonianze di chi aveva vissuto e visto con i propri occhi l’orrore della Shoah, che Lipstadt aveva raccolto negli anni, riuscendo a raccontare in modo radicalmente nuovo il processo Eichmann nell’omonimo libro uscito nel 2014 per Einaudi. All’avvocato Richard Rampton (l’attore Tom Wilkinson) quei racconti non bastavano; voleva prove schiaccianti, inconfutabili, quelle che poi hanno portato alla condanna del negazionista David Irving, stroncando la sua carriera di storico, cominciata con il controverso Hitler’s War del 1977.

Nella motivazione del giudizio depositato da Justice Charles Gray il 12 aprile 2000 si legge che Irving aveva deliberatamente e continuamente manipolato le fonti e falsificato la storia, per ragioni ideologiche, alterando l’evidenza. Nel suo rapporto di oltre 300 pagine Gray ha usato un rigoroso metodo storiografico per dimostrare la deportazione degli ebrei, la genesi della “soluzione finale”, l’esistenza di camere a gas ad Auschwitz, la deportazione e l’uccisione degli ebrei romani a Roma nell’ottobre 1943.

In quel testo che ha fatto davvero storia, in tutti i sensi, Gray riporta le diverse fonti, contestualizza e mette in relazione i documenti. «È esattamente questo che dobbiamo continuare a fare. La verità è sempre a rischio negazione. L’importante è ristabilirla», dice Deborah Lipstadt intervenuta alla prima italiana del film alla Festa del cinema a Roma, dove Left l’ha incontrata. Non si stanca di raccontare cosa si può imparare da questa vicenda che l’ha messa a dura prova, ma che non ha intaccato la sua passionalità e la sua tenacia, ma anzi, alla fine, sembra averla resa più forte. Al termine della conferenza in sala Petrassi all’Auditorium trova ancora l’energia per affrontare una lunga serie di interviste. Su un punto, insiste molto, trovandosi anche su questo d’accordo con il regista Mick Jackson: «Irving non è il solo». L’attività dei negazionisti echeggia ben oltre la ristretta cerchia dell’ambito specialistico. Il negazionismo, dice Deborah Lipstadt, non riguarda solo la Shoah, «riguarda tanti altri genocidi. È accaduto nella Cambogia di Pol Pot. È accaduto in Armenia da parte della Turchia, in Rwanda dove un’efferata strage è stata liquidata semplicisticamente come conflitto civile interetnico». E nell’America di oggi? «Circolano ancora storie come quella antisemita che riguarda gli ebrei che lavoravano nelle torri gemelle. Qualcuno ha detto che erano stati avvertiti prima per telefono e che così sono riusciti a scampare la strage dell’11 settembre.. Una storia assurda – chiosa Lipstadt – . Facendo un macabro conteggio di quanti sono morti in quell’attentato si scopre che è del tutto falso, ma questa leggenda metropolitana continua a circolare». Ma soprattutto, sottolinea Lipstadt con passione «in America ci sono molti negazionisti che diffondono teorie senza alcun fondamento scientifico. Sono quelli che negano la teoria evoluzionistica e predicano il disegno intelligente. Negazionisti pericolosi sono quelli che diffondono la credenza in un falso nesso fra vaccini e autismo. Ogni volta – ribadisce la studiosa – bisogna metterli con le spalle al muro dimostrando che ciò che dicono è una loro credenza che non ha alcuna evidenza scientifica».

E poi aggiunge. «Servono voci autorevoli, persone preparate, a volte l’accademia o la politica non si muovono per smascherarli, per mostrare quali sono gli interessi che li spingono». Irving dunque è un esempio fra tanti? «Molti mesi fa quando ancora il progetto del film era in fieri Mick ed io ci siamo accorti di quanti tratti in comune Irving avesse con Trump, razzista e bugiardo seriale». Quanto ad Irving? Dopo la presentazione del film al festival di Toronto e a Londra ha scritto qualche commento acido sul suo blog riguardo al film. «Scriva pure tutte le stroncature che vuole, è un onore! – commenta Lipstadt ridendo – si è preso 7 anni della mia vita, non voglio dedicargli un secondo di più».

 

Il “populismo cattivo” di Donald Trump

Republican presidential candidate Donald Trump holds up a Donald Trump mask during a campaign speech, Monday, Nov. 7, 2016, in Sarasota, Fla. (AP Photo/Chris O'Meara)

La presidenza Donald Trump ricalcherà i temi classici del Partito repubblicano nell’era post-reaganiana e nello stesso tempo proporrà molto probabilmente alcuni caratteri suoi propri, specificatamente populisti. Negli Stati Uniti la parola “populismo” ha generalmente avuto una valenza positiva, come di un movimento di democratizzazione della politica che non ha mai tracimato in mutamenti di regime e nemmeno in cambiamenti della Costituzione, della cui rigidità gli Americani devono andare più che fieri, soprattutto in tempi come questi.
Circa i temi del Partito repubblicano (ora al governo, arrivati alla Casa Bianca dominando però anche il Congresso), questi sono da un lato ancorati a un liberismo dogmatico, dall’altro all’idea che l’origine dei mali stia essenzialmente nel governo e nella politica, non nella società civile e nell’economia. La ragione di questa credenza è che solo nella politica le decisioni sono coercitive in maniera diretta a causa del potere sovrano dello Stato; non così nella società che nessun essere umano, e nessuna classe o anche multinazionale, ha il potere di uniformare alle proprie volontà. Insomma, dagli individui ci si può aspettare l’immoralità e l’illegalità, mentre gli Stati possono fare molto male perché la loro volontà è imposta con la forza della legge alla quale non si sfugge. Rendere i governi minimi è l’obiettivo, dunque. Ed è un obiettivo che negli Stati Uniti veste i panni populisti. I “molti”, ovvero i cittadini ordinari, sono qui i depositari dei valori della Nazione, mentre le élite politiche sono i parassiti che debilitano, tassano, impongono politiche dirigistiche: il bene sta con i primi, non con le seconde.
Il liberismo è una visione della politica e della società che qualifica il popolo americano e in questo senso la spina dorsale del suo populismo – qui sta il mito del “voler far da soli”, e della libertà come libertà dal giogo delle leggi.

Questa ideologia ha circolato moltissimo negli ultimi decenni, ha vinto con Reagan e con il secondo Bush, ma non ha mancato di marcare anche alcuni aspetti della politica di Clinton e di Obama. Il mito americano riceve linfa dal liberismo, dunque, e in questo senso è trasversale ai due partiti e alle loro ideologie.

Che cosa ha portato di nuovo Trump rispetto a questo quadro? L’affermazione dell’ideologia americana e liberista ha raggiunto con la campagna elettorale di Trump livelli parossistici. Infatti nella sua campagna i temi liberisti e americanisti classici si sono combinati ad altri “miti” o meglio “dogmi” o “pregiudizi”: prima di tutto, quello dei valori protestanti come parti di un’etica che ha plasmato il carattere della società americana e poi quello della superiorità della “razza bianca” che coincide molto esplicitamente con il ceppo nazionale anglo-americano di valori e cultura. Nel caso di Trump, infine, questi “pregiudizi” o “dogmi” si sono combinati con altri grappoli di “pregiudizi” e “dogmi” che si sono gonfiati a partire dalla stagione dei diritti civili, e per reazione contro questi ultimi: intolleranza per i diversi (nella cultura, nei gusti sessuali, nella religione) e per tutti gli essere umani che non rientrano nel “tipo” anglo-americano nazionale: Trump ha deriso, sbeffeggiato, insultato handicappati, obesi, donne anziane, donne non belle, tutti i “latinos” (ovvero i meticci di spagnoli e indios), e poi i musulmani; tutti coloro che in qualche modo “contaminano” la razza anglo-americana.
Sono convinta, come ho dichiarato in una recente intervista rilasciata a Linkiesta, che Trump sarà un Presidente “normale” nel senso che rientrerà nella norma della politica istituzionale americana: non cambierà la Costituzione. Il suo populismo non tenderà a mutare la Costituzione americana, la quale metabolizzerà anche questo Presidente. Tuttavia la retorica di Trump, il suo linguaggio e la sua politica incideranno senza dubbio nella vita politica ordinaria della società americana. Non principalmente per le politiche economiche e sociali: i vincoli dell’economica e della finanza impongono al governo americano di contenere il debito e quindi di non adottare politiche radicali di tagli delle tasse (Trump stesso, dopo aver tuonato contro la Obamacare – la riforma sanitaria che estende a tutti la copertura assicurativa sulla salute – pare che la modificherà ma non abolirà). L’incidenza di Trump sarà maggiore – e per ora imprevedibile negli esiti – fuori del governo: un assaggio di quel che potrebbe essere il tenore della vita civile e delle relazioni tra le classi, le culture e le persone lo si è visto in questi giorni dopo le elezioni, con le manifestazioni e anche le violenze che si sono succedute in tutte le città medio-grandi per marcare il rifiuto di riconoscere Trump come Presidente.

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I populisti di lotta e di governo e l’operazione simpatia

Sex&trash, l’incazzato, l’invasione, il teatrino. E un invito lanciato da un banner a destra: “Libera la bestia che c’è in te. Scrivi anche tu per Il populista”. La testata ha sede a Bergamo e il condirettore è Matteo Salvini. Della serie, sono quello che voi volete che io sia, purché mi votiate. Anche gli abbracci alla nazionalista Marine Le Pen e l’idea di togliere il riferimento geografico nel simbolo della Lega vanno bene, se l’obiettivo è “andiamo a governare” come cantava e ballava, petto in fuori, in un video di qualche tempo fa. Cosa non si fa per cavalcare il risentimento popolare contro l’establishment o l’élite corrotta, e per far dimenticare che si è leader di una forza politica che, almeno al Nord, è establishment eccome! E in alcuni casi anche élite corrotta…

Veniamo al suo omonimo presidente del Consiglio: a pochi giorni dall’entusiasmante viaggio alla Casa Bianca, riconosce a Trump di essere interprete del cambiamento più di Clinton, sostenuta dall’inquilino uscente della stessa Casa Bianca, quell’Obama che Matteo Renzi definisce simbolo di democrazia. Un ragionamento da funambolo, verrebbe da dire. Il tentativo di stare sempre e comunque dalla parte di chi vince. Non ci riesce proprio il presidente del Consiglio a vestire i panni del perdente, neanche per il tempo della rimonta a suon di simpatia, come gli ha suggerito il suo amico Farinetti. Egli che è al contempo nemico dell’Europa dell’austerity e preciso applicatore dei suoi dettami, salvo spostare in avanti il momento della resa dei conti, possibilmente dopo il referendum che lo consacrerà – confida lui – primo premier forte della nuova Repubblica. Non più di sinistra, non ancora di destra. Nuovo ma alleato con vecchi arnesi della politica. Anti-establishment e amico dei finanzieri. Populista di lotta e di governo, come Salvini.
Di questo siamo preoccupati, come lo siamo per l’aria che tira in Europa, a maggior ragione dopo la vittoria di Trump. Ci spaventano gli otto odiosi e rancorosi, gli Hateful Eight che abbiamo messo in copertina, e temiamo che siano ben più di otto. Ci preoccupa il modo in cui riescono a intercettare consensi e a fare riferimento a un indefinito popolo, a determinare la loro piattaforma politica a suon di sondaggi (ogni riferimento a fatti o persone note è decisamente voluto), a esprimere una visione di futuro che è un collage di paure e ricette passatiste.
Ragioniamo su quale sia la risposta, partendo da una riflessione “americana”, quella sui media mainstream tutti convinti della vittoria di Clinton, e da una riflessione sulla sinistra, che a volte pretende di decidere di cosa ha bisogno chi è rimasto indietro senza sapere che cosa davvero vuole e pensa chi è rimasto indietro. Scollamento con la base, si sarebbe detto un tempo. Ma non è neanche più così, perché abbiamo rottamato i partiti novecenteschi senza sperimentare nuove forme di vera partecipazione e formazione politica. Una base non c’è più. E i voti si conquistano con la simpatia, ma non nel senso originario di “comune sentire”, putroppo. Che cosa deve fare dunque la sinistra? Esserci. Starci con il popolo e crescere con “quelli di sotto”, tornare a formare e a formarsi come classe dirigente, costruire fianco a fianco le soluzioni partendo dai bisogni e investigando le diverse esigenze. Sentendo insieme a quelli di sotto, facendo così la differenza tra “popolisti” e populisti. I primi il popolo lo amano e non lo considerano un’entità indistinta, i secondi – lo leggerete nella nostra storia di copertina – lo blandiscono ingannandolo.

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