All’indomani di due stragi con centinaia di morti – i naufragi del 3 ottobre 2013 a Lampedusa e dell’11 ottobre nella zona Sar (ricerca e salvataggio) maltese – il 2013 si chiudeva con l’avvio della missione Mare Nostrum. Un’operazione che nei primi mesi del 2014 consentiva la drastica riduzione delle vittime in mare e interventi di soccorso in acque che negli anni precedenti avevano inghiottito migliaia di vite umane. L’aumento degli arrivi si era verificato già nei mesi estivi, mentre l’attenzione prevalente sembrava concentrarsi sulle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare, piuttosto che sugli interventi di salvataggio in mare.
La campagna elettorale, giocata sul ruolo di “attrazione” che avrebbero giocato le unità dell’operazione Mare Nostrum, spostava l’opinione pubblica dall’orrore per i corpi sprofondati nelle acque di Lampedusa alla preoccupazione per l’ennesima “invasione”, anche se appariva sempre più evidente come la maggior parte dei migranti soccorsi in mare fossero richiedenti asilo. L’aumento degli arrivi, la saturazione dei centri di accoglienza in Sicilia, la scelta di non utilizzare Lampedusa e il suo aeroporto come luoghi di soccorso e smistamento rapido dei naufraghi determinavano una ripresa delle stragi in mare, anche perché gli interventi di salvataggio delegati alle navi commerciali non potevano risultare tanto efficaci quanto quelli operati dai mezzi di soccorso di Mare Nostrum.
Secondo l’Unhcr, mentre nel primo semestre di quest’anno si erano contate “solo” 500 vittime, tra morti e dispersi, questo numero saliva a 2.500 alla fine di settembre, e si arrivava a oltre 3.400 morti alla fine di novembre.
In Europa, intanto, si assisteva all’ennesimo balletto di competenze: Alfano dichiarava che Frontex Plus, con l’operazione Triton, avrebbe sostituito Mare Nostrum; mentre la Commissaria europea Malmstroem sosteneva, al contrario, che Frontex non avrebbero sostituito le navi di soccorso italiane. Alla fine veniva chiarito che le attività svolte dai mezzi di Frontex, soltanto due mezzi navali e qualche ricognitore, non si sarebbero spinte più a sud di 30 miglia dalle coste di Lampedusa e Malta. L’Italia a questo punto prorogava per due mesi l’operazione Mare Nostrum, fino a dicembre, e faceva ricorso alle navi fornite da Frontex anche in operazioni di salvataggio molto più a sud di quanto previsto a Bruxelles.
Il 2014 si è caratterizzato anche per il continuo collegamento tra i movimenti dei migranti verso la “Fortezza Europa” e gli accordi bilaterali o multilaterali (sottoscritti direttamente con l’Ue, come nel caso del Marocco o della Tunisia) destinati a bloccare le partenze e a facilitare le procedure di riammissione. “Frontiere mobili”, dunque, perché i processi di esternalizzazione dei controlli e, secondo la prospettiva annunciata da Alfano, anche del diritto di asilo, nei Paesi di transito, ha permesso di estendere a dismisura le “frontiere” europee, nel tentativo di bloccare le partenze verso l’Europa.
Ma le “frontiere mobili” hanno anche una proiezione interna, e corrispondono a pratiche di accoglienza, di confinamento e di inserimento – e spesso di discriminazione quando manca l’inserimento – all’interno del nostro Paese. In molti centri di accoglienza le procedure non venivano avviate per tempo, o le persone non ottenevano i documenti di soggiorno previsti dalla legge, con sperimentazione di pratiche di esclusione che adesso emergono solo per effetto delle indagini disposte dalla magistratura nell’inchiesta “Mafia Capitale” e in altre che stanno per essere avviate. Si può parlare dunque di “frontiere mobili” perché le nuove frontiere del Mediterraneo non sono muri: cambiano in continuazione a seconda delle diverse situazioni presenti nei Paesi di origine, di transito e di destinazione. L’unica preoccupazione torna a essere quella sicuritaria, nella totale assenza di strategia globale non solo sui controlli di frontiera o in materia di protezione internazionale ma sul complessivo fenomeno migratorio. L’Europa non ha avuto una strategia neanche sugli ingressi per lavoro: nel 2000 c’era già, dopo Tampere, un’ipotesi di riaprire le possibilità di visto per lavoro, una prospettiva sfumata progressivamente anche per effetto della crisi economica.
Cosa si può fare? Non si può certo continuare ad attendere che le soluzioni arrivino dall’alto, da Roma o da Bruxelles. Dobbiamo quindi studiare delle forme d’intervento diretto: attraverso la rete, i collegamenti con associazioni e avvocati, mettere in moto le autorità costiere per le attività di salvataggio. Possiamo già prevedere che molti potenziali richiedenti asilo resteranno bloccati nei Paesi di transito. Occorre procurare degli strumenti di difesa per queste persone, spesso interi nuclei familiari, prima che arrivino nel nostro territorio. Anche per questo dovremo assegnare una maggiore responsabilità alle organizzazioni come l’Unhcr e l’Oim, oltre che alle diverse agenzie delle Nazioni Unite, che possono operare in Paesi nei quali gli spazi di azione per i cittadini solidali che si schierano dalla parte dei migranti sono sempre più stretti.