Lo scioglimento di Sel che non è indolore. Il congresso fondativo di Si, che è appeso all’esito del referendum di dicembre. L’incognita degli addii di Zedda e Pisapia e l’eterna attesa della minoranza dem. Ma comunque, piano piano, si procede

Raccogliere malumori dalle parti di Sinistra Italiana è semplicissimo. Ci si potrebbero riempire dieci pagine con i virgolettati dei dirigenti di Sel insoddisfatti del percorso congressuale che li porterà a celebrare lo scioglimento del partito nato nel 2009, con i dubbi di chi ha seguito Stefano Fassina, o con l’insofferenza dei militanti di una sezione, che eroicamente sono ancora attive, spiraglio di sole, comunità dove ci si tiene stretti nell’attesa di capirci qualcosa.
Sul numero di Left in edicola da sabato 5 novembre, però, noi facciamo lo sforzo di impegnare diversamente le nostre pagine, spiegando – nel week end in cui Renzi fa la sua settima Leopolda, cavalcando il terremoto – cosa succede a sinistra. Perché anche noi avevamo un po’ perso il filo, come molti di voi.

Ne parliamo anche su Left in edicola dal 5 novembre

 

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Intanto, cerchiamo di capire cosa succede, e quanto contano le polemiche, che pure hanno un peso e qualche ragione quando sono per lamentarsi, ad esempio, della tempistica toccata in sorte al partito di cui Vendola è ancora il presidente, pur defilato, per contribuire alla nascita di Sinistra Italiana. Sel si scioglie nel pieno della campagna per il referendum: non toglierà troppe energie alla causa? Nicola Fratoianni ci assicura di no e che lo scioglimento (tra assemblea nazionale e consultazione degli iscritti su base provinciale) sarà rapido.

E si potrà così continuare a fare campagna per il No, e procedere, dopo il 4 dicembre, con Sinistra Italiana. Il calendario dovrebbe esser questo: il 17 dicembre le commissioni approvate dai soggetti coinvolti, al lavoro da un po’, presenteranno la proposta di statuto e di documento politico; il 14 gennaio scadrà il tempo per la presentazione degli emendamenti; il 21 gennaio quello delle iscrizioni. Poi a febbraio, dal 10 al 12, ci sarà il primo congresso nazionale, preceduto da quelli territoriali per l’elezione dei delegati.

Non sarà l’unico soggetto della sinistra, l’unità in cui magari speravate non ci sarà neanche questa volta perché – ad esempio – non c’è Civati («È da un anno che Pippo non c’è», ci dice Fassina). Ma forse è un passo in più, in attesa che il referendum (e quindi il destino della legge elettorale) chiariscano il quadro in cui ci si muove. Se serve pensare a una lista unitaria per le elezioni, ad esempio, o se invece Sinistra Italiana può diventare la casa di altri fuoriusciti del Pd (ipotesi non remota in caso di vittoria del Sì).

Italicum, referendum, l’estenuante attesa degli ex compagni dei Ds. Teniamo conto di tutto, su Left, aggiornando il percorso di Sinistra Italiana, e della sinistra più in generale. A cui consigliamo però, mentre voi leggete, di vedersi il dibattito tra Di Battista e Scalfari ospitato da Otto e mezzo, su La7. Per una frase, soprattutto, che ci ha colpiti. E che ben sintetizza gli errori che non si dovrebbero più fare.

Scalfari, tra le altre cose (memorabile: «È la prima volta che vedo un grillino in carne e ossa») ha chiesto a Di Battista perché non abbia scelto la sinistra per la sua militanza. Di Battista, al netto delle scemenze sulla destra e la sinistra categorie superate, ha risposto così: «Io sono andato in una forza politica che mi ha permesso di esprimermi. Perché anni fa non ci ascoltava nessuno, presentavamo le proposte nei Comuni e ci sbattevano la porta addosso. Abbiamo deciso di candidarci e abbiamo preso nove milioni di voti». In soldoni: tocca aprirsi. Capito?

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.