Gli amici dei miei nemici sono miei nemici. I nemici dei miei nemici sono miei amici. Gli amici dei miei amici sono miei amici. Se vi sembra un adagio superficiale, semplicistico e piuttosto stupido mettetevi il cuore in pace perché in quelle tre frasi c’è tutto lo spessore della politica estera vista dalla politica italiana, l’Italia condannata alla conclamata irrilevanza internazionale e europea che negli ultimi anni ha deciso di osservare il resto del mondo dalla lente distorta dei “patti firmati” rinunciando completamente a sviluppare un’analisi critica (e propria) sui fatti internazionali. Ora si tratta della guerra in Siria ma è solo l’ultimo capitolo di una storia che viene da lontano e che ha spinto il governo (e tutte le sue diverse “voci” che siano stampa, internet o televisione) a dividere la realtà in tutto bianco e tutto nero, rinunciando alla complessità e al dovere di costruire una propria chiave di lettura. La guerra in Siria racconta sotto le mentite spoglie di un “attacco mirato” e di un “avvertimento” è un altro capitolo della truffa internazionale che ciclicamente viene perpetrata in cui sempre decidiamo consapevolmente di cadere e che spesso la storia smentisce qualche anno dopo. Per riuscire a far digerire la guerra ormai anche la narrazione è più o meno la stessa: si prende una zona calda del mondo in cui viene facile illustrare il deterioramento dei diritti (e in Siria basterebbe la successione famigliare al potere di Assad padre con Assad figlio per richiamare subito alla successione dinastica che funziona sempre perfettamente), si costruisce un allarme imprescindibile che diventa un alto rischio per la comunità internazionale (ultimamente funzionano moltissimo le armi chimiche che non richiedono nemmeno lo sforzo di essere documentate), si evita accuratamente di utilizzare il vocabolario bellico fermandosi alle “azioni dimostrative” e ci si prepara agli attacchi rivendendoli come rimbrotti. Non conta fermarsi sulla narrazione della complessità o interrogarsi sulla chiave di lettura collettiva che si vuole dare alla Storia: i pro-Trump magnificano l’attacco in Siria in nome del fascino decisionista del presidente americano, a loro basta quello, i macronisti esultano per l’azione poiché garantisce Trump, in Gran Bretagna si applaude la May per lo sgarbo a Putin, esultano perfino i principi sauditi che hanno visto sempre in Assad un nemico da abbattere urgentemente. Intanto, dall’altra parte, i guerrafondai per definizione, quel pezzo di destra che in Putin ha individuato da sempre l’uomo forte e sovranista da guardare con ammirazione, improvvisamente diventano pacifisti: non c’è analisi della situazione politica, gli basta sapere che la Russia non condivide l’attacco per decidere da che parte stare. È la politica internazionale (anche quella) vissuta come tifo, divisi non per differenza di pensiero e di valori ma semplicemente per appartenenza. È ancora una volta la politica che diventa una partita di calcio, un campo in cui ci sono i buoni che sono buoni e i cattivi i che sono sempre irrimediabilmente cattivi. Nessun tono intermedio, nessuna concessione alla conoscenza della storia o alla natura geopolitica della zona. Tutti siriani o tutti putiniani, tutti filo Assad o tutti a urlacciare contro il dittatore. In mezzo, niente. Se c’è qualcosa che più di tutto ha relegato l’Italia all’irrilevanza internazionale forse è proprio questo muoversi per partito preso e mai per partito scelto. Il pacifismo, l’intervento bellico e le crisi internazionali sono solo campi diversi su cui giocarsi partite locali e localistiche. Un provincialismo naïf senza né capo né coda risibile nello scacchiere del mondo. Poi ci sarebbe la Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Il pacifismo insomma non è la paturnia di una certa sinistra fuori dal tempo e fuori dal mondo ma è un principio costituzionale che non prevede l’utilizzo della forza come soluzione delle controversie internazionali: la questione non è ideologica ma strettamente politica. In quel parlare (spesso a proposito) di rispetto della Costituzione solo quando torna utile pro domo sua i nostri dirigenti politici perseverano nel dimenticare che l’articolo 11 della nostra Costituzione non prevede e non tollera “attacchi mirati”, bombardamenti come avvertimento e tantomeno la violenza in risposta alla violenza. Ma anche su questo, statene certi, verrà presto il momento che sarà da buonisti invocare la pace. E continuerà la guerra, contro ogni disperato abbastanza disperato da non riuscire a fare sentire la propria voce. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola

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Gli amici dei miei nemici sono miei nemici. I nemici dei miei nemici sono miei amici. Gli amici dei miei amici sono miei amici. Se vi sembra un adagio superficiale, semplicistico e piuttosto stupido mettetevi il cuore in pace perché in quelle tre frasi c’è tutto lo spessore della politica estera vista dalla politica italiana, l’Italia condannata alla conclamata irrilevanza internazionale e europea che negli ultimi anni ha deciso di osservare il resto del mondo dalla lente distorta dei “patti firmati” rinunciando completamente a sviluppare un’analisi critica (e propria) sui fatti internazionali.

Ora si tratta della guerra in Siria ma è solo l’ultimo capitolo di una storia che viene da lontano e che ha spinto il governo (e tutte le sue diverse “voci” che siano stampa, internet o televisione) a dividere la realtà in tutto bianco e tutto nero, rinunciando alla complessità e al dovere di costruire una propria chiave di lettura.
La guerra in Siria racconta sotto le mentite spoglie di un “attacco mirato” e di un “avvertimento” è un altro capitolo della truffa internazionale che ciclicamente viene perpetrata in cui sempre decidiamo consapevolmente di cadere e che spesso la storia smentisce qualche anno dopo.

Per riuscire a far digerire la guerra ormai anche la narrazione è più o meno la stessa: si prende una zona calda del mondo in cui viene facile illustrare il deterioramento dei diritti (e in Siria basterebbe la successione famigliare al potere di Assad padre con Assad figlio per richiamare subito alla successione dinastica che funziona sempre perfettamente), si costruisce un allarme imprescindibile che diventa un alto rischio per la comunità internazionale (ultimamente funzionano moltissimo le armi chimiche che non richiedono nemmeno lo sforzo di essere documentate), si evita accuratamente di utilizzare il vocabolario bellico fermandosi alle “azioni dimostrative” e ci si prepara agli attacchi rivendendoli come rimbrotti.

Non conta fermarsi sulla narrazione della complessità o interrogarsi sulla chiave di lettura collettiva che si vuole dare alla Storia: i pro-Trump magnificano l’attacco in Siria in nome del fascino decisionista del presidente americano, a loro basta quello, i macronisti esultano per l’azione poiché garantisce Trump, in Gran Bretagna si applaude la May per lo sgarbo a Putin, esultano perfino i principi sauditi che hanno visto sempre in Assad un nemico da abbattere urgentemente.

Intanto, dall’altra parte, i guerrafondai per definizione, quel pezzo di destra che in Putin ha individuato da sempre l’uomo forte e sovranista da guardare con ammirazione, improvvisamente diventano pacifisti: non c’è analisi della situazione politica, gli basta sapere che la Russia non condivide l’attacco per decidere da che parte stare. È la politica internazionale (anche quella) vissuta come tifo, divisi non per differenza di pensiero e di valori ma semplicemente per appartenenza. È ancora una volta la politica che diventa una partita di calcio, un campo in cui ci sono i buoni che sono buoni e i cattivi i che sono sempre irrimediabilmente cattivi. Nessun tono intermedio, nessuna concessione alla conoscenza della storia o alla natura geopolitica della zona. Tutti siriani o tutti putiniani, tutti filo Assad o tutti a urlacciare contro il dittatore. In mezzo, niente.

Se c’è qualcosa che più di tutto ha relegato l’Italia all’irrilevanza internazionale forse è proprio questo muoversi per partito preso e mai per partito scelto. Il pacifismo, l’intervento bellico e le crisi internazionali sono solo campi diversi su cui giocarsi partite locali e localistiche. Un provincialismo naïf senza né capo né coda risibile nello scacchiere del mondo. Poi ci sarebbe la Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Il pacifismo insomma non è la paturnia di una certa sinistra fuori dal tempo e fuori dal mondo ma è un principio costituzionale che non prevede l’utilizzo della forza come soluzione delle controversie internazionali: la questione non è ideologica ma strettamente politica. In quel parlare (spesso a proposito) di rispetto della Costituzione solo quando torna utile pro domo sua i nostri dirigenti politici perseverano nel dimenticare che l’articolo 11 della nostra Costituzione non prevede e non tollera “attacchi mirati”, bombardamenti come avvertimento e tantomeno la violenza in risposta alla violenza. Ma anche su questo, statene certi, verrà presto il momento che sarà da buonisti invocare la pace. E continuerà la guerra, contro ogni disperato abbastanza disperato da non riuscire a fare sentire la propria voce.

L’editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola


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