«Kirchensteuer», è così che viene chiamata in Germania la tassa sulle religioni. Una tassa odiosa per il cui recupero la legislazione tedesca prevede un meccanismo estremamente efficiente nell’attivare una procedura di infrazione qualora ci si renda inadempienti nel versamento. Da tempo i tedeschi hanno preferito dichiarare di non aderire a nessuna confessione religiosa proprio per sottrarsi al pagamento della kirchensteuer. In Italia il meccanismo è diverso. Non si aggiunge una ulteriore tassa alle circa cento tasse previste dal sistema fiscale, ma si detrae una percentuale dalla tassa più elevata, l’Irpef. Lo 0,8% dell’Irpef può essere destinato a 12 diverse confessioni religiose che hanno stipulato una intesa con lo Stato italiano. Il sistema della tassazione in favore delle confessioni religiose, per come è concepito, lascia intendere al contribuente che sia strutturato in una sostanziale volontarietà, tanto più che tra le opzioni possibili, si include anche lo Stato. A ben vedere non c’è alcuna linearità e nella ipotesi in cui  nessuna delle opzioni viene sottoscritta dal contribuente «la ripartizione della quota d’imposta non attribuita è stabilita in proporzione alle scelte espresse». È proprio in questa ulteriore ripartizione che si consuma la perversione del privilegio fiscale.

In altri termini la quota di tassazione che non ha ricevuto alcuna indicazione di destinazione opzionale, viene nuovamente ripartita tra le confessioni religiose secondo la stessa proporzione registrata per le opzioni espresse. In sintesi. I contribuenti italiani sono circa 41 milioni e cinquecentomila. Di questi soltanto il 45% circa esprime un’opzione tra le 13 possibili e stiamo parlando di circa 18 milioni di contribuenti. All’interno di questo 45%, il 37% circa esprime una opzione verso la Chiesa cattolica. Quel 37% è costituito da circa 15 milioni di contribuenti. Circa 15 milioni di contribuenti costituiscono, all’incirca, l’80% dei contribuenti che hanno espresso la loro opzione. A questo punto l’80% del gettito Irpef destinato alle confessioni religiose di coloro che non hanno espresso alcuna opzione, viene destinato alla Chiesa cattolica. Per avere cognizione delle cifre di cui si sta parlando, possiamo ricordare che nel 2016 la Chiesa “povera” di Bergoglio ha incamerato dall’8x1000 del gettito Irpef un miliardo e trecentomila euro.

Il 16 maggio 2016 aprendo i lavori della 69ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, durante la quale si dovevano assumere decisioni sulla spartizione del “bottino”, Bergoglio, assolutamente incurante dell’incoerenza rispetto al contesto, ha esortato i suoi interlocutori: «Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio». Più devastante dell’incoerenza del messaggio propalato, è stata la risonanza che simile frase ha avuto sui media, proni ad assecondare la farsa della finta povertà mentre ci si sedeva al banchetto dell’avidità. Decisamente più coerente fu Paul Marcinkus, un cardinale al centro di scandali finanziari internazionali, il quale non aveva mai celato la sua “passione” per il denaro e del quale resta famosa la frase: «Non si governa la Chiesa con le Ave Maria».

Tornando a tempi più recenti, un’analisi sulla tassa per le religioni rende imprescindibile il richiamo alla relazione della Corte dei conti del dicembre 2016 nella quale è stato tracciato un quadro desolante. Assenza di controlli, rilevanti anomalie, perdurare degli elementi di debolezza nella normativa, sproporzione rispetto alla Chiesa cattolica la quale riceve più dalla quota indistinta (ovvero quella senza alcuna indicazione opzionale) che non dalle precise scelte dei contribuenti.

Queste in estrema sintesi le accuse della Corte dei conti. Già nel 2014 (v. art. di Grendene) la Corte aveva denunciato le aberrazioni sottese al meccanismo di redistribuzione dell’8xmille rilevando come, a fronte di un 37% di indicazione per scelta opzionale, la Chiesa cattolica arriva a riscuotere l’82% dell’intera partita contabile. I rilievi della Magistratura contabile si erano concentrati sul perverso meccanismo della assegnazione finale perché non rispettava (e non rispetta ancora oggi)  i «principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza» che in uno Stato di diritto improntato al rispetto dei diritti costituzionali e dei diritti umani, hanno un senso, ma nello Stato della Repubblica pontificia italiana, hanno lo stesso senso delle Ave Marie di Marcinkus.

Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo

[su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'articolo di Carla Corsetti è tratto dal numero di Left in edicola

[su_button url="https://left.it/left-n-24-15-giugno-2018/" background="#a39f9f" size="7"]SOMMARIO[/su_button] [su_button url="https://left.it/prodotto/left-24-2018-15-giugno/" target="blank" background="#ec0e0e" size="7"]ACQUISTA[/su_button]

[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

«Kirchensteuer», è così che viene chiamata in Germania la tassa sulle religioni. Una tassa odiosa per il cui recupero la legislazione tedesca prevede un meccanismo estremamente efficiente nell’attivare una procedura di infrazione qualora ci si renda inadempienti nel versamento. Da tempo i tedeschi hanno preferito dichiarare di non aderire a nessuna confessione religiosa proprio per sottrarsi al pagamento della kirchensteuer. In Italia il meccanismo è diverso. Non si aggiunge una ulteriore tassa alle circa cento tasse previste dal sistema fiscale, ma si detrae una percentuale dalla tassa più elevata, l’Irpef. Lo 0,8% dell’Irpef può essere destinato a 12 diverse confessioni religiose che hanno stipulato una intesa con lo Stato italiano. Il sistema della tassazione in favore delle confessioni religiose, per come è concepito, lascia intendere al contribuente che sia strutturato in una sostanziale volontarietà, tanto più che tra le opzioni possibili, si include anche lo Stato. A ben vedere non c’è alcuna linearità e nella ipotesi in cui  nessuna delle opzioni viene sottoscritta dal contribuente «la ripartizione della quota d’imposta non attribuita è stabilita in proporzione alle scelte espresse». È proprio in questa ulteriore ripartizione che si consuma la perversione del privilegio fiscale.

In altri termini la quota di tassazione che non ha ricevuto alcuna indicazione di destinazione opzionale, viene nuovamente ripartita tra le confessioni religiose secondo la stessa proporzione registrata per le opzioni espresse. In sintesi. I contribuenti italiani sono circa 41 milioni e cinquecentomila. Di questi soltanto il 45% circa esprime un’opzione tra le 13 possibili e stiamo parlando di circa 18 milioni di contribuenti. All’interno di questo 45%, il 37% circa esprime una opzione verso la Chiesa cattolica. Quel 37% è costituito da circa 15 milioni di contribuenti. Circa 15 milioni di contribuenti costituiscono, all’incirca, l’80% dei contribuenti che hanno espresso la loro opzione. A questo punto l’80% del gettito Irpef destinato alle confessioni religiose di coloro che non hanno espresso alcuna opzione, viene destinato alla Chiesa cattolica. Per avere cognizione delle cifre di cui si sta parlando, possiamo ricordare che nel 2016 la Chiesa “povera” di Bergoglio ha incamerato dall’8×1000 del gettito Irpef un miliardo e trecentomila euro.

Il 16 maggio 2016 aprendo i lavori della 69ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, durante la quale si dovevano assumere decisioni sulla spartizione del “bottino”, Bergoglio, assolutamente incurante dell’incoerenza rispetto al contesto, ha esortato i suoi interlocutori: «Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio». Più devastante dell’incoerenza del messaggio propalato, è stata la risonanza che simile frase ha avuto sui media, proni ad assecondare la farsa della finta povertà mentre ci si sedeva al banchetto dell’avidità. Decisamente più coerente fu Paul Marcinkus, un cardinale al centro di scandali finanziari internazionali, il quale non aveva mai celato la sua “passione” per il denaro e del quale resta famosa la frase: «Non si governa la Chiesa con le Ave Maria».

Tornando a tempi più recenti, un’analisi sulla tassa per le religioni rende imprescindibile il richiamo alla relazione della Corte dei conti del dicembre 2016 nella quale è stato tracciato un quadro desolante. Assenza di controlli, rilevanti anomalie, perdurare degli elementi di debolezza nella normativa, sproporzione rispetto alla Chiesa cattolica la quale riceve più dalla quota indistinta (ovvero quella senza alcuna indicazione opzionale) che non dalle precise scelte dei contribuenti.

Queste in estrema sintesi le accuse della Corte dei conti. Già nel 2014 (v. art. di Grendene) la Corte aveva denunciato le aberrazioni sottese al meccanismo di redistribuzione dell’8xmille rilevando come, a fronte di un 37% di indicazione per scelta opzionale, la Chiesa cattolica arriva a riscuotere l’82% dell’intera partita contabile. I rilievi della Magistratura contabile si erano concentrati sul perverso meccanismo della assegnazione finale perché non rispettava (e non rispetta ancora oggi)  i «principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza» che in uno Stato di diritto improntato al rispetto dei diritti costituzionali e dei diritti umani, hanno un senso, ma nello Stato della Repubblica pontificia italiana, hanno lo stesso senso delle Ave Marie di Marcinkus.

Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo

L’articolo di Carla Corsetti è tratto dal numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA