Il 5 luglio i telegiornali hanno dato la notizia dello sgombero improvviso e senza avvertimenti di 120 titolari di protezione internazionale dall’edificio dove vivevano da anni. Prima era un centro di accoglienza, poi la cooperativa che lo gestiva si è ritirata (perché pare fosse coinvolta in Mafia Capitale) e gli ospiti sono rimasti a vivere lì. Arrivi in via Scorticabove e ti trovi davanti da un lato tante valigie disposte con cura per non ostruire il passaggio delle auto, dall’altro dei gazebo ordinati ai lati della strada con i letti disposti sotto, uno accanto all’altro (“davvero 120 persone dormono in questo piccolo spazio?” “si”, ti rispondono), un tavolo con delle sedie e una tv che trasmette una partita di calcio. Loro sono lì, dei signori puliti, sorridenti, ospitali, eleganti pur vivendo per la strada (una drammatica discordanza). Si vengono a presentare stringendoti la mano. Tagliano un cocomero e te lo offrono a più riprese, non puoi rifiutare, devi prenderlo. E sai che loro stanno per strada e tu non puoi fare molto, oltre a portargli acqua ghiacciata, frutta, quello che puoi.
Per fortuna cibo e acqua non mancano, tanti come te sono andati a trovarli, ma quello che provi stando qui è palpabile: stanno cercando di togliere loro la dignità di esseri umani. Sono tutti titolari di protezione internazionale. Tutti perciò in un modo o in un altro hanno vissuto in passato la violazione dei loro diritti umani. Nonostante ciò, questi signori eleganti sono riusciti a ricostruirsi una nuova vita qui da noi. Qualcuno parlerebbe di resilienza, ma c’è di più e oltre questo. Gli uomini che vivevano, e vivono ancora, in via Scorticabove hanno una cassa mutua dove coloro che lavorano versano qualcosa per permettere a tutta la comunità di vivere dignitosamente. Questi signori con la S maiuscola, non solo hanno superato le esperienze traumatiche vissute prima, durante e dopo la migrazione (richiesta di asilo, vita nei centri di accoglienza, ottenimento documenti e ricerca lavoro), ma hanno addirittura trovato un modo di vivere insieme perfino migliore di quello che vediamo oggi nella nostra società occidentale. Hanno trovato un modo di vivere con gli altri andando oltre le difficoltà materiali. Perché siamo tutti esseri umani e la naturalità con cui te lo sbattono in faccia è disarmante. Questi signori eleganti hanno fatto della resilienza del singolo una resilienza collettiva che è diventata la loro identità, andando dunque oltre il concetto stesso di resilienza intesa come capacità di ritorno allo stato precedente.
Il comune fino al 23 luglio ha offerto loro di separarsi e rientrare nel sistema di emergenza (centri di accoglienza per titolari di protezione internazionale). Ma loro ci sono già stati, significherebbe tornare indietro, non vogliono e non possono. Perciò sono rimasti in strada. Hanno proposto al comune una “co-progettazione finalizzata all’assegnazione, tramite bando o convenzione, di un bene pubblico in auto-recupero”. Lunedì 6 agosto il comune ha mostrato un’apertura verso la proposta, ma allo stesso tempo sembra che abbia l’intenzione di sgomberare i rifugiati anche dalla strada con la scusa che alcuni cittadini si sarebbero lamentati (di cosa che è l’occupazione di suolo pubblico più discreta e pulita che tu abbia mai visto?). Di fronte ad uno sgombero della strada ovviamente la comunità sarebbe costretta a sparpagliarsi. Sembra si voglia in ogni modo dividere questa comunità così efficiente e sana.
Se ci riflettiamo quello che ci appare davanti è uno scontro di civiltà: da un lato il Comune di Roma, con dietro tutti i suoi interessi economici o politici e le sue strategie per mantenerli, passando anche senza farsi troppi scrupoli sopra alle condizioni già precarie delle persone svantaggiate (vedi anche lo sgombero del Camping River); dall’altro una comunità di 120 titolari di protezione internazionale che hanno fatto veramente della necessità una grande virtù, creando un sistema in cui l’interesse personale di ognuno si identifica con l’interesse della comunità. Interesse non economico o politico ma per una vita dignitosa insieme ad altri esseri umani. Questo modo di pensare fa paura alle istituzioni che ormai hanno perso da tempo, salvo rarissime eccezioni, la loro vocazione sociale. Fa paura perché è un pensiero che potrebbe diffondersi e i cittadini si renderebbero conto sempre di più delle condizioni della propria città e questo porterebbe scontento. Quindi meglio eliminare ogni pericolo facendo sparire il problema, che in questo caso sono i nostri vicini sudanesi, o rom, o chiunque altro metta a rischio i nostri cari valori occidentali basati sull’individualismo e sul potere. Ecco cosa possiamo leggere dietro al non voler rinunciare dei nostri di via Scorticabove, a questo punto possiamo dire non alla loro casa materiale, ma alla loro capacità di vivere insieme, alla loro identità collettiva. Per questo stanno vivendo per strada e stanno resistendo attivamente uniti. Lì davanti alla loro casa, che ora è diventata la strada. Perciò andiamoli a trovare, per farci insegnare la vita.
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Rossella Carnevali è una psichiatra e psicoterapeuta che da anni si occupa di salute mentale di richiedenti protezione internazionale e rifugiati