Phnom Penh, 2008. Nell’aula di tribunale dove venivano processati sei fra i più sanguinari capi dei Khmer rossi, un vetro separava i carnefici dalle vittime. Quella esile «barriera era come una finestra panoramica in un acquario da incubo: da un lato gli accusati e i membri della corte, dall’altro i familiari delle persone massacrate trent’anni prima nell’indifferenza più generale» scrive Lawrence Osborne nella prefazione de Il pittore dei khmer rossi (Add editore) di Vann Nath, uno dei sette superstiti del campo di sterminio Tuol Sleng, il famigerato S-21.
In questo coraggioso e sofferto memoir racconta i lunghi anni di oppressione e di torture a cui Nath fu sottoposto senza che fossero formulate nei suoi confronti precise accuse, senza processo, solo per il crudele volere dei Khmer rossi, non paghi di averlo sottratto agli affetti e al suo lavoro di pittore e – insieme a molti altri – di averlo fatto quasi morire di stenti in campi di lavoro. Erano pianificati dall’Angkar, l’onnipotente e onnipresente organizzazione Khmer capeggiata da Pol Pot che, sulla strada della costruzione dell’“uomo nuovo”, fra il 1975 e il 1979, mandò a morte quasi due milioni di persone, derubricate come «ostacoli» alla rivoluzione, e «sterminate perché non erano proletari abbastanza umili», dice lo scrittore e giornalista inglese Lawrence Osborne a Left.
«Risparmiarvi non serve a niente, uccidervi non costa niente», sentenziava l’Angkar. A futura memoria Osborne ha voluto che campeggiasse come esergo del suo affascinante Cacciatori nel buio (Adelphi) che dopo Pordenonelegge lo ha riportato in Italia, e in particolare a Firenze, per il Festival degli scrittori-Premio Von Rezzori (2-4 maggio). In questo suo primo romanzo pubblicato in Italia (dopo il successo del libro reportage Bangkok) racconta di un giovane inglese, insegnante senza ambizioni, all’apparenza un uomo senza qualità che lascia una grigia vita quotidiana nel Sussex per viaggiare nel Sud est asiatico, in cerca di una vita parallela, dell’incontro con l’ignoto, forse inconsciamente di una donna per riuscire a lasciarsi andare alla bellezza dell’irrazionale. Nel suo peregrinare da emigrante in cerca di fortuna fra alterne vicende, approderà proprio in quella Battambang carica di fantasmi del passato, dove Nath aveva vissuto per molti anni facendo il pittore prima che la cittadina diventasse teatro di rastrellamenti e fosse evacuata dai Khmer rossi. I suoi quadri che raffigurano carceri disumane e scene di tortura entrarono, come testimonianza e denuncia, nel processo al criminale Duch, il professore di matematica che, salito ai vertici del regime, torturò e uccise almeno 17mila persone nel centro di detenzione S-21.
Nella prefazione all’importante libro testimonianza che Vann Nath ci ha lasciato, Osborne ricorda anche i lunghi incontri con il pittore che lo ospitava al piano di sopra del suo modesto ristorante per raccontargli di quella indicibile tragedia. Dopo il colpo di Stato di Lon Nol nel 1970, dopo la guerra del Vietnam e i bombardamenti a tappeto di Nixon si fece strada in Cambogia una banda para militare guidata da Pol Pot disposta a sterminare un terzo dei suoi concittadini per costruire un’astratta nuova Cambogia comunista. La paranoia della cospirazione anti rivoluzionaria dominava sovrana e muoveva la macchina di sterminio in stile nazista. Assassini in divisa nera e sadici carcerieri, questi erano i Khmer rossi. Fra loro anche molti ragazzini di12, 13 anni armati di fruste elettriche, mitragliatrici e mannaie, perché i proiettili costavano troppo. Bambini soldato a cui era stato fatto il lavaggio del cervello, denuncia Vann Nath in questa sua coraggiosa testimonianza, tanto più forte e toccante, per il tono semplice, diretto e profondo, che lascia intravedere una straordinaria resistenza e umanità.
Alcune foto pubblicate nel libro ci mostrano Vann Nath nel 1980 insieme agli altri sei sopravvissuti della prigione S-21. Poi lo rivediamo nel 2008 quando testimoniò al processo e infine, silenziosamente commosso, con in mano il verdetto della condanna di Duch.
Inviato dalla rivista Vogue, Osborne seguì per tre mesi quel processo al comandante khmer, accusato di genocidio. Lì conobbe la dolorosa storia di Vann Nath, che era stato risparmiato perché in grado di dipingere efficaci ritratti di Pol Pot. Quando Duch gli mostrò la fotografia del capo supremo dei Khmer rossi, il pittore non sapeva nemmeno chi fosse quell’uomo dallo strano sorriso. Comprese presto che si trattava di uno degli agghiaccianti deus ex machina del genocidio e che la sua sopravvivenza era appesa alla sua abilità di ritrattista.
«Durante i tre anni, otto mesi e 20 giorni in cui furono al potere i Khmer rossi dichiararono 2mila cambogiani nemici dello Stato e li giustiziarono. Altre centinaia di migliaia morirono per eccesso di lavoro, di malattia o inedia. Si stima che il bilancio totale sia tra un milione e mezzo e tre milioni di vittime. Anche se questa tragedia risalente agli anni 70 è un fatto ormai lontano nel tempo, i ricordi sono vivi nella mia mente. Ancora oggi quando visito Tuol Sleng, vengo sopraffatto da questo passato doloroso», scriveva nel 1998 ad incipit de Il pittore dei Khmer rossi. Anche se Duch fu condannato, giustizia in Cambogia non è stata ancora fatta. «La democrazia nel Paese è una farsa. Chi ha soldi e amicizie altolocate gode di assoluta impunità», denuncia l’ex cooperante, giornalista e scrittore Peter Fröberg Idling, (Il sorriso di Pol Pot, Iperborea). I manuali di storia nelle scuole offrono versioni edulcorate del passato. Scrivere libri o girare film che contribuiscano a fare luce sul passato e sul presente è una vera impresa. Ci è riuscito con grande impegno Rithy Panh, regista cambogiano che vive in esilio in Francia e autore di importanti libri inchiesta come L’eliminazione (Feltrinelli, 2011) e La macchina di morte dei Khmer rossi (ObarraO) testo dell’omonimo docufilm uscito nel 2003.
«Rithy Panh ha potuto fare un documentario, ma non gli hanno permesso di fare un film di larga circolazione. Riesci a farlo solo se hai tanti soldi come Angiolina Jolie», chiosa Osborne alludendo al film Per primo hanno ucciso mio padre che l’attrice e regista ha tratto dal libro della sopravvissuta cambogiana Loung Ung pubblicato in Italia da Piemme. In questo annoso quadro di potere corrotto e autoritario e di mancato ricambio di uomini al comando nelle istituzioni, il processo a Duch ha comunque inserito una discontinuità, è stato un passo importante per tentare di ricostruire la fiducia della gente nella giustizia, per avviare un processo di elaborazione collettiva prima che sia troppo tardi. «Il rischio è grande: la Cambogia ha vissuto un periodo di relativa ripresa economica, i giovani che allora non erano ancora nati non sanno niente, manca poco al black out, alla cancellazione totale della memoria». Un annullamento che renderebbe impossibile qualunque elaborazione collettiva per la costruzione di un futuro democratico. Non è un caso se anche per il 29 luglio si annuncino elezioni farsa. Ma c’è chi si oppone. Come il leader del maggior partito di opposizione Sam Rainsy che continua a lottare dall’esilio. Mentre scrittori e artisti come Osborne, Idling, Panh continuano a sollevare domande sulle radici che portarono Pol Pot e altri a progettare lucidamente quell’agghiacciante genocidio. «Pol Pot andò all’università in Francia. Era un fanatico della rivoluzione francese», fa notare Osborne. A Parigi, inoltre entrò in contatto con molti intellettuali di primo piano negli anni Cinquanta e con i comunisti francesi più vicini allo stalinismo diventando un nazionalista granitico. Anche se non basta certo a spiegare l’immane tragedia cambogiana offre una chiave di lettura per leggere più in profondità la sua biografia, per tentare di capire come il timido Sar diventò il feroce Pol Pot.
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Articolo pubblicato su Left n. 18 del 4 maggio 2018