San Basilio a Roma, Scampia a Napoli, Borgo Vecchio a Palermo e Milano Nord i luoghi dell'indagine di Ipsos curata da We World. Senza lavoro e senza istruzione, spesso trovano la forza per denunciare per salvare i figli

Doppiamente svantaggiate. Perché donne e perché residenti in aree socialmente degradate dove i servizi sono carenti e gli effetti duraturi della cultura patriarcale e della violenza pesano più che altrove. Se, infatti, la violenza contro le donne è trasversale alle classi sociali e al livello di istruzione, le donne che vivono in contesti socio-economici svantaggiati, spesso, non possiedono le risorse (soprattutto economiche) per fuoriuscire da condizioni violente. Talvolta sono prive, anche, di quelle culturali per riconoscerla, soprattutto quando (non) si manifesta nelle forme meno esplicite.

Anche perché, dai dati elaborati nella ricerca Voci di donne dalle periferie, condotta da Ipsos e curata da We World, emerge che la quotidianità della maggior parte delle intervistate – abitanti a San Basilio a Roma, a Scampia a Napoli, a Borgo Vecchio a Palermo e a Milano Nord – è caratterizzata da un elevato grado di isolamento sociale, fatta di accudimento dei figli, di spesa alimentare, di cura dei mariti e di pulizie domestiche. Attività totalizzanti che limitano la loro vita di relazione alla cerchia familiare e al quartiere in cui risiedono.
«Un elemento comune a molte donne, infatti, è l’identificazione quasi completa nel ruolo di mogli e madri, accompagnato da una sorta di annullamento di sé (…) trascurando il proprio benessere psicofisico», si legge nelle pagine della ricerca.

Una abnegazione che le respinge anche ai margini del mercato lavorativo: i due terzi delle donne intervistate non hanno mai lavorato per l’impossibilità di conciliare la cura dei figli con una professione. Non solo, il 45 per cento di loro ha rinunciato a lavorare per il controllo del marito sulle scelte lavorative. Una condizione, dice la ricerca, che «è l’anticamera di altre forme di violenza più esplicita». Alcune molto lontane dalla consapevolezza che «il lavoro non è solo un impegno che porta a trascurare i figli e l’andamento domestico (e che, invece) sia uno strumento di realizzazione personale»: le loro storie raccontano di un vissuto condizionato da una cultura fortemente discriminatoria nei confronti delle donne (che ne ha impedito anche l’accesso all’istruzione) che le ha rese spettatrici di una rigida divisione dei ruoli, riconosciuta, dalla maggior parte di loro, “come la normalità”. Prese dagli aspetti materiali, relativi all’accudimento, trascurano quelli profondi, accettando con passività e fatalismo, questioni rilevanti: d’altronde, fare i conti con un contesto culturale permeato da una mentalità basata su una forte asimmetria di potere tra uomini e donne, risulta difficilissimo, soprattutto quando entra nel rapporto di coppia, costringendole a mettersi in gioco senza la capacità di sfruttare le risorse che possiedono ma che non sanno di avere.

Cosicché, rileva la ricerca, la modalità di relazione prevalente è quella dell’aggressività e della violenza: su trentasette donne intervistate, ben diciotto hanno dichiarato di aver vissuto una qualche forma di violenza a opera dei mariti ma la diffusione della violenza domestica all’interno del proprio quartiere è percepita come contenuta. Spesso perché i campanelli d’allarme non vengono riconosciuti, altre volte per episodi taciuti: «Io non dissi niente a mia mamma, non so perché non glielo dissi, forse perché mi minacciava talmente tanto dicendo che avrebbe fatto del male a loro e a mia figlia che tendevo sempre di più a omettere certe cose. Perché, poi, lui davanti era molto carino con loro, faceva passare me come matta che in gravidanza non stava bene, che c’aveva i cambiamenti di umore… li aveva quasi un po’ plasmati, manipolati. Vedevo che nessuno era dalla mia parte e io ero sola», racconta Giulia di Roma, ventisette anni, separata, con una figlia. La presenza dei figli è, il più delle volte, la molla per trovare il coraggio di denunciare. E, spesso, di ricominciare.

Ma la condizione delle donne delle periferie italiane, denuncia la ricerca, risiede, oltre che nella mancanza di riferimenti affettivi soldi che facilita l’interiorizzazione di modelli disgregati, anche in alcune carenze strutturali del sistema: la scuola ha un’enorme responsabilità «perché non è in grado di educare al bello, quel bello che ti fa andare oltre, (che) dovrebbe far andare oltre alle difficoltà e che, forse, ti permette di appropriarti di una parte della tua personalità che manco conosci»; e nell’assenza di cura per la crescita culturale degli individui da parte delle istituzioni e degli amministratori. Così, l’azione del governo, d’accordo con le Regioni e l’Anci, che si appresta a mettere a bando un miliardo e seicento milioni di euro per progetti comunali di riqualificazione delle periferie (e per la loro sicurezza, che nelle iniziative dell’esecutivo pentastellato è la parola d’ordine) risulterà vana se non sarà integrata da attività di senso sociale. Come a dire che ogni intervento infrastrutturale che non sia accompagnato da investimenti di natura sociale non sarà in grado di liberare le energie inespresse delle periferie.