Sempre più spesso mi capita di interrogarmi sulla trasformazione degli spazi aperti al pubblico, e in particolare sulla metamorfosi dei posti a sedere di cui dispongono. Panchine, pensiline, sgabelli. Beni in teoria elementari per qualsiasi luogo frequentato da esseri umani, ma sempre più spesso mercificati e venduti a caro prezzo.
Ecco, alle 19.20 della vigilia del Sol invictus, la mia ricerca da antropologo dilettante compie un traguardo storico. Grazie alla Cartafreccia argento, “generosa” ricompensa di Trenitalia per le migliaia di euro che le ho elargito negli ultimi anni, sono potuto entrare in un esclusivo Freccia Club a Roma Tiburtina.
Una sala riservata per utenti qualificati. È vuota (come tutte le location luxury), ci sono tavoli, divani, maxischermo, quotidiani, bibite e caffetteria a cui accedere gratis (non male il caffé marocchino erogato da una specie di astronave coi bottoni collegata al wifi, accompagnato da croccanti biscotti al cioccolato da pucciarci dentro), e wc a disposizione. Quest’ultimo non è un dettaglio banale, perché nei terminal gestiti da Grandi stazioni si sborsa anche per andare al bagno. E anche per sedersi, visto che ogni giorno di più in questi luoghi viene scientificamente rimosso qualsiasi tipo di arredo dotato di una forma che renda anche solo vagamente ipotizzabile l’eventualità di appoggiarvi sopra le natiche, ovviamente a meno che questo gesto non implichi l’obbligo tassativo di consumare beni o servizi.
Qui dentro invece è tutto free. Ben due impiegati educatissimi si occupano della customer care (cioè di me, perché ci sono solo io), e mi ricordano che se voglio posso prendermi anche una cochina fresca, se mi venisse sete poi in treno.
Ecco, da dentro, questo salotto ha tutte le parvenze di un’oasi. E non tanto per il comfort che c’è dentro, che alla fine ‘sticazzi, ma per il deserto che c’è fuori. Le principali stazioni italiane (e non), da sempre laboratorio privilegiato dove sperimentare gli ultimi ritrovati della cosiddetta “architettura ostile” (panchine con braccioli anti dormita, muretti con spunzoni anti clochard, ecc.), sono diventate vetrine chic in cui il potere economico affina la sua capacità di espellere i poveri, di allontanarli da uno spazio un tempo crocevia accogliente per tutti. Anche (e soprattutto) per chi non aveva un posto fisso in cui abitare.
Gli oggetti su cui ci si può sedere liberamente nelle più importanti stazioni italiane infatti sono sempre meno, pattuglie di guardie private sorvegliano h24 affinché nessun soggetto “indecoroso” osi sdraiarsi (l’unica postura ammessa gratuitamente, oltre allo stare in piedi, dall’arredo a disposizione) e la mattina presto fanno sloggiare i senzatetto che affrontano la notte all’esterno degli edifici blindati, tra i cartoni. Per loro anche bere gratis è un’impresa. Perché i bagni di frequente hanno i tornelli, mentre i binari sono spesso murati da gate oltrepassabili solo se si esibisce il titolo di viaggio (vedi Termini, Milano centrale, Santa Maria Novella, ecc.).
Se tutto ciò accade, è anche perché dal 2016 i più grandi centri ferroviari italiani non sono più luoghi gestiti direttamente da Ferrovie dello Stato italiane (Fsi), dopo lo scorporo di Grandi stazioni in Gs Rail, Gs Immobiliare e Gs Retail, e la concessione di questa ultima società – che gestisce spazi commerciali, servizi igienici e co. – ad una cordata di privati. Uno scorporo avviato dall’Amministratore delegato di Fsi Michele Mario Elia, nominato sotto il governo Letta (Pd), e ultimato dal suo successore Renato Mazzoncini, voluto dal premier Renzi (Pd).
Nelle pertinenze di quelli che assomigliano sempre più a grandi centri commerciali, ai mendicanti è concesso chiedere l’elemosina, sempre che non esistano ordinanze che lo proibiscano, ma facendo bene attenzione a non «porre in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione» degli spazi. Una circostanza punibile col Daspo urbano inventato da Minniti e Orlando (Pd) in determinate aree della città – come le stazioni – da poco estese da Salvini (che vi ha inserito anche gli ospedali. Si, avete letto bene).
Un sadico percorso ad ostacoli per gli esseri umani più vulnerabili messo in scena quotidianamente, nei maggiori poli ferroviari.
Si, ma qui a Tiburtina è diverso. Qui c’è di più. Fuori, a pochi passi da questo lounge, c’è il Baobab. O meglio, ciò che resta dello storico presidio di volontari che tenta di dare servizi minimi ai migranti transitanti che dormono nel cemento e sull’asfalto, a piazzale Maslax, dopo i ventidue sgomberi degli ultimi tre anni (VENTIDUE). L’ultimo il mese scorso, il 13 novembre. Uno scempio ormai divenuto quasi routine, normalizzato, per cui a scandalizzarsi non sono rimasti in molti, nella Roma dove si continua a buttare gente in mezzo alla strada (vedi l’operazione all’ex fabbrica della Penicillina del 10 dicembre).
Ecco, tutto ciò per dire che se durante ‘ste feste mi trovassi a dover spiegare ad un bimbo cos’è il capitalismo e quanto faccia schifo, credo che gli parlerei dei Freccia club. Dei divanetti in similpelle rossa tirati a lucido e completamente vuoti la vigilia del Sol invictus (festa che, come noto, rende tutti più stronzi) e dei cappuccini gratis riservati a chi può permettersi treni Freccia sempre più costosi (mentre regionali e Intercity, ossia i cosiddetti servizi pubblici, sono ormai quasi un lontano ricordo). E poi del gelo umido che entra nelle ossa di chi non ha nulla e dorme lì fuori, dei 22 sgomberi del Baobab, dei Daspo inventati dal Partito democratico, dell’accanimento sempre più feroce contro gli ultimi.
Ma poi gli spiegherei anche che il Baobab experience, nonostante tutto, resiste. Come tante altre realtà solidali, sparse nello Stivale. E che prima o poi verranno smontate, le porte di quei Freccia club. Perché, se lo può capire anche un bambino che il capitalismo fa schifo, lo possono capire tutte e tutti.
Buone feste