La criminale dittatura fascista che trascinò l’Italia in guerra al fianco dei nazifascisti produsse una ecatombe di morti. Mandò a morire gli ebrei rastrellati in Italia nei campi di concentramento tedeschi. Fece strage di oppositori partigiani e civili sospettati di esserlo. E mandò i soldati italiani a morire in Russia, in Grecia e su altri fronti. Si rese responsabile di un genocidio in Libia. E uccise la popolazione civile in Etiopia con le armi chimiche. Anche su questo piano conquistando un tragico primato. Durante la Seconda guerra mondiale la pazzia della corsa alle armi di distruzione di massa culminò il 6 agosto 1945 quando l’aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima e tre giorni dopo bombardò Nagasaki. Da allora l’obiettivo di proibire le armi nucleari non è stato ancora raggiunto. Anche per nostra responsabilità. Il trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’Assemblea generale dell’Onu il 7 luglio 2017 non è stato ancora ratificato dall’Italia. A quasi settantacinque anni dalla Liberazione, a ben vedere, l’Italia è ancora lontana da un orizzonte di pace. Da allora il Bel Paese ha partecipato direttamente o indirettamente a molte missioni di guerra, travestite da operazioni chirurgiche o umanitarie, dall’Iraq, all’Afghanistan, dal Kosovo alla Libia. Un caso emblematico, estremamente drammatico, è stato quello del conflitto nella ex Jugoslavia. I bombardamenti della Nato nella primavera del 1999 in Kosovo furono ipocritamente definiti “umanitari”. Quell’ossimorica espressione creata ad hoc servì al governo D’Alema per mascherare l’intervento italiano compiuto in ossequio al Patto atlantico. Insieme al «tentativo di mimetizzare la guerra sotto formule tranquillizzanti», come ricostruisce Checchino Antonini su questo numero di Left , le istituzioni tentarono e tentano tuttora di negare anche gli effetti dell’uranio impoverito, sul quale già allora c’era molta letteratura scientifica. L’inchiesta di Antonini riaccende i riflettori su una vicenda che continua a produrre effetti devastanti. Il bollettino di guerra infatti drammaticamente continua: sono 336 le vittime dell’uranio impoverito e 7.500 i malati. Non si registrano novità positive nemmeno sul fronte più generale del disarmo. Nonostante le promesse grilline, il governo giallonero ha continuato sulla strada dell’acquisto di cacciabombardieri e prosegue l’export di armi verso regimi guerrafondai, che violano i diritti umani. Associazioni come Rete disarmo, da anni impegnate contro le spese militari, denunciano che l’acquisto degli F-35 costerà almeno altri 10 miliardi di euro, oltre quelli già spesi. La cifra preventivata per acquistare aerei d’attacco con capacità nucleare potrebbe essere ben più utilmente investita. Potrebbe servire, suggerisce Giulio Marcon di Sbilanciamoci! (più avanti intervistato da Roberto Prinzi, nell'inchista Crimini di guerra made in Italy) «per 100 elicotteri per l’elisoccorso in dotazione ai principali ospedali, 30 canadair per spegnere gli incendi durante l’estate, per mettere in sicurezza 5mila scuole a partire da quelle delle zone sismiche e a rischio idrogeologico, per mille asili nido pubblici». Tanto per cominciare. Allargando lo sguardo dalle spese militari alla cosiddetta “Cooperazione bilaterale dell’Italia nell’ambito della difesa”, una ricerca dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo (Iriad) documenta una cinquantina di accordi di cooperazione militare con Paesi come l’Egitto, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Somalia, Afghanistan, questi ultimi due segnalati dell’Onu perché sfruttano bambini soldato. «La loro eccessiva proliferazione appare rispondere più ad esigenze commerciali dell’industria degli armamenti che ad interessi di stabilità e di sicurezza internazionali», commenta Maurizio Simoncelli di Sbilanciamoci!. Nascosta sotto il linguaggio cavilloso e astratto della burocrazia, impacchettata nella carta luccicante del business continua a proliferare una mentalità guerrafondaia e militarista. Il volto arcigno di un’Europa dalle frontiere blindate e pattugliate dall’esercito traspare dai proclami xenofobi e razzisti di liste sovraniste ma anche dal “razzismo selettivo” (dettato dalle convenienze) delle liste neoliberiste che si presentano alle Europee del 26 maggio. Lontani anni luce da un’idea di pacifismo religioso, astratto e impolitico, pensiamo che fra questi due “opposti” ci sia spazio per un pacifismo di sinistra. Non ci sarà mai pace se non si mette in discussione un modello capitalistico che vive di competitività distruttiva e alimenta la guerra per il profitto di pochi. Non c’è pace senza giustizia sociale. È vero. Ma non basta. Per sradicare le radici della violenza occorre guardare non solo alle cause e agli effetti materiali, occorre liberarsi dall’ideologia religiosa che condanna Caino a uccidere Abele, scopriremmo così che la distruttività non è un destino obbligato, non è innata. Illustrazione di Fabio Magnasciutti [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 3 maggio 2019

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La criminale dittatura fascista che trascinò l’Italia in guerra al fianco dei nazifascisti produsse una ecatombe di morti. Mandò a morire gli ebrei rastrellati in Italia nei campi di concentramento tedeschi. Fece strage di oppositori partigiani e civili sospettati di esserlo. E mandò i soldati italiani a morire in Russia, in Grecia e su altri fronti. Si rese responsabile di un genocidio in Libia. E uccise la popolazione civile in Etiopia con le armi chimiche. Anche su questo piano conquistando un tragico primato.

Durante la Seconda guerra mondiale la pazzia della corsa alle armi di distruzione di massa culminò il 6 agosto 1945 quando l’aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima e tre giorni dopo bombardò Nagasaki.

Da allora l’obiettivo di proibire le armi nucleari non è stato ancora raggiunto. Anche per nostra responsabilità. Il trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’Assemblea generale dell’Onu il 7 luglio 2017 non è stato ancora ratificato dall’Italia.

A quasi settantacinque anni dalla Liberazione, a ben vedere, l’Italia è ancora lontana da un orizzonte di pace. Da allora il Bel Paese ha partecipato direttamente o indirettamente a molte missioni di guerra, travestite da operazioni chirurgiche o umanitarie, dall’Iraq, all’Afghanistan, dal Kosovo alla Libia. Un caso emblematico, estremamente drammatico, è stato quello del conflitto nella ex Jugoslavia. I bombardamenti della Nato nella primavera del 1999 in Kosovo furono ipocritamente definiti “umanitari”.

Quell’ossimorica espressione creata ad hoc servì al governo D’Alema per mascherare l’intervento italiano compiuto in ossequio al Patto atlantico. Insieme al «tentativo di mimetizzare la guerra sotto formule tranquillizzanti», come ricostruisce Checchino Antonini su questo numero di Left , le istituzioni tentarono e tentano tuttora di negare anche gli effetti dell’uranio impoverito, sul quale già allora c’era molta letteratura scientifica. L’inchiesta di Antonini riaccende i riflettori su una vicenda che continua a produrre effetti devastanti. Il bollettino di guerra infatti drammaticamente continua: sono 336 le vittime dell’uranio impoverito e 7.500 i malati. Non si registrano novità positive nemmeno sul fronte più generale del disarmo. Nonostante le promesse grilline, il governo giallonero ha continuato sulla strada dell’acquisto di cacciabombardieri e prosegue l’export di armi verso regimi guerrafondai, che violano i diritti umani. Associazioni come Rete disarmo, da anni impegnate contro le spese militari, denunciano che l’acquisto degli F-35 costerà almeno altri 10 miliardi di euro, oltre quelli già spesi. La cifra preventivata per acquistare aerei d’attacco con capacità nucleare potrebbe essere ben più utilmente investita. Potrebbe servire, suggerisce Giulio Marcon di Sbilanciamoci! (più avanti intervistato da Roberto Prinzi, nell’inchista Crimini di guerra made in Italy) «per 100 elicotteri per l’elisoccorso in dotazione ai principali ospedali, 30 canadair per spegnere gli incendi durante l’estate, per mettere in sicurezza 5mila scuole a partire da quelle delle zone sismiche e a rischio idrogeologico, per mille asili nido pubblici». Tanto per cominciare. Allargando lo sguardo dalle spese militari alla cosiddetta “Cooperazione bilaterale dell’Italia nell’ambito della difesa”, una ricerca dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo (Iriad) documenta una cinquantina di accordi di cooperazione militare con Paesi come l’Egitto, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Somalia, Afghanistan, questi ultimi due segnalati dell’Onu perché sfruttano bambini soldato.

«La loro eccessiva proliferazione appare rispondere più ad esigenze commerciali dell’industria degli armamenti che ad interessi di stabilità e di sicurezza internazionali», commenta Maurizio Simoncelli di Sbilanciamoci!. Nascosta sotto il linguaggio cavilloso e astratto della burocrazia, impacchettata nella carta luccicante del business continua a proliferare una mentalità guerrafondaia e militarista. Il volto arcigno di un’Europa dalle frontiere blindate e pattugliate dall’esercito traspare dai proclami xenofobi e razzisti di liste sovraniste ma anche dal “razzismo selettivo” (dettato dalle convenienze) delle liste neoliberiste che si presentano alle Europee del 26 maggio. Lontani anni luce da un’idea di pacifismo religioso, astratto e impolitico, pensiamo che fra questi due “opposti” ci sia spazio per un pacifismo di sinistra. Non ci sarà mai pace se non si mette in discussione un modello capitalistico che vive di competitività distruttiva e alimenta la guerra per il profitto di pochi. Non c’è pace senza giustizia sociale. È vero. Ma non basta. Per sradicare le radici della violenza occorre guardare non solo alle cause e agli effetti materiali, occorre liberarsi dall’ideologia religiosa che condanna Caino a uccidere Abele, scopriremmo così che la distruttività non è un destino obbligato, non è innata.

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 3 maggio 2019


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