Mess in inglese significa «casino» e si pronuncia esattamente come l’acronimo del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Un casino su cui occorre fare un po’ di chiarezza, per quanto riguarda: caratteristiche del trattato, pacchetto di riforme che prevede, e proposte radicali di cambiamento.
1) Il trattato intergovernativo che ha introdotto il Mes è stato firmato nel 2012 dai governi dell’area euro (il governo Monti per l’Italia). La sua abrogazione non è in discussione, essendo in corso di revisione solo 4 articoli su 48. È stato introdotto per colmare una delle tante incompiutezze della governance europea, che prima di quell’innovazione istituzionale non prevedeva di dover affrontare crisi. Il Mes o Fondo salva Stati è stato quindi tardivamente concepito per tutelare l’Unione monetaria. Ha già fornito assistenza finanziaria a Cipro, alla Spagna, al Portogallo, all’Irlanda e soprattutto alla Grecia, umiliata da una sorta di colonialismo da indebitamento. Il Mes è concepito come un baluardo dell’austerità e agisce come una banca privata. Esso segue un approccio che si è dimostrato fallace in più occasioni: emblematico è il caso della Grecia che nel 2015 (quando è stato votato il terzo prestito del Mes, contro il volere del referendum popolare) aveva un rapporto debito-Pil del 175,6%. A fine “cura”, ossia nell’estate 2018, aveva un rapporto debito-Pil del 181,2%, nonostante le misure “lacrime e sangue”
Il Fondo salva Stati ha come limite principale il fatto che, a differenza della Bce, non ha la prerogativa di battere moneta; se dovesse scatenarsi uno tsunami finanziario, il suo patrimonio di 704,8 mld non sarebbe sufficiente. A questo va aggiunto: il metodo non democratico e non trasparente sia per la gestazione degli allegati tecnici, sia per la gestione del Mes in generale (data l’immunità penale, civile e amministrativa di cui godono i vertici). È inoltre uno strumento sistemico di controllo dei governi nazionali, fatto apposta per renderli impotenti, come lo stesso Varoufakis nel suo ultimo libro sintetizza: «Un ministro delle Finanze che voglia fare proposte per la ristrutturazione del debito non riesce ad avere il nome di una persona con la quale parlare o un numero di telefono al quale rivolgersi per cui, lui o lei, non sa cosa fare». Infine, con i vincoli della sostenibilità del debito e della capacità di rimborso del beneficiario, precondizioni per accedere all’assistenza finanziaria, il dispositivo somiglia ad un “ombrello per quando non piove”.
2) Per avere pieno potere negoziale è fondamentale valutare la riforma del Mes all’interno del combinato disposto dell’intero pacchetto di riforme. Prima parte, le riforme del Mes ovvero la revisione delle “note esplicative” sulle clausole di azione collettiva (Cacs), la suddivisione tra la linea di credito condizionale precauzionale (Pccl) e quella a condizioni rafforzate (Eccl) e i prestiti del Mes al Fondo di risoluzione unica per la gestione delle crisi bancarie. Seconda parte, l’approvazione dello schema comune di assicurazione dei depositi (Edis). Terza parte, le nuove modalità di cooperazione tra il Mes e la Commissione europea e il relativo Memorandum. Solo all’esito della versione finale del pacchetto sarà possibile un giudizio generale. Bisogna scongiurare, una volta per tutte, il rischio di misure punitive nei confronti dei Paesi più indebitati e gli automatismi alla ristrutturazione del debito, espliciti o surrettizi, ribaltando l’idea di fondo che la disciplina di bilancio si ottiene accrescendo la probabilità di una crisi finanziaria.
3) È necessario approfittare del negoziato sul “pacchetto” per mettere in discussione l’intera logica neoliberista che sottende l’architettura dell’area Euro e la politica economica Ue, con proposte concrete e radicali:
• per la complementarietà della funzione che il Mes svolge rispetto alla Bce, andrebbe valutata la possibilità di fare rientrare le competenze del Mes tra le funzioni della Banca centrale, avvicinando così le sue prerogative a quelle della Federal reserve che ha un dual mandate: non solo la stabilità dei prezzi, ma anche quello di contenere il tasso di disoccupazione;
• l’esigenza di ritornare su un sentiero di rientro del debito pubblico – precondizione per la stabilità finanziaria – non può continuare a puntare sugli avanzi primari, ma su altre leve. Come una massiccia crescita degli investimenti pubblici per la transizione ecologica (500 mld all’anno nella Ue per i prossimi 5 anni) escludendoli dai parametri del patto di stabilità. La transizione ecologica deve diventare una «realizzazione in comune», come quella di cui si parla nell’articolo 125 del Tfue, quello del no bail-out: «Gli Stati membri non sono responsabili né subentrano agli impegni dell’amministrazione statale, degli enti regionali, locali… di un altro Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico». Serve inoltre un safe asset, un comune strumento obbligazionario free risk dell’area Euro. Uno strumento di alta qualità con conseguente maggiore stabilità finanziaria. Si abbasserebbe così il costo del servizio del debito per i Paesi più indebitati e si supererebbe l’anomalia dei tassi negativi per gli Stati in avanzo di bilancio. Uno strumento emesso dalla Bce sulla base della conversione di titoli sovrani già in circolazione, per un controvalore equivalente alla quota del parametro di Maastricht (60% debito Pil). Meno lo Stato membro supera tale limite, maggiore sarà la percentuale del suo debito pubblico coperto con i rendimenti ultrabassi delle obbligazioni della Bce;
• una politica di seria penalizzazione degli strumenti finanziari più speculativi da inserire negli allegati tecnici del package (le attività di tipo 2 e 3 nei bilanci delle banche, di cui le banche francesi e tedesche sono piene), da contrapporre alla provocatoria proposta del ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz sulla ponderazione per il rischio dei titoli di Stato.
* Antonella Trocino fa parte del Coordinamento Diem25 del Lazio