La pandemia va affrontata per prima cosa sul territorio e non solo negli ospedali. Altrimenti non ne usciamo

La querelle dei tamponi, strettamente collegata ad altre complesse dinamiche, sta creando grande confusione e si moltiplicano interpretazioni e proposte a volte fantasiose. Per trovare il bandolo di questa intricata matassa servono alcune precisazioni.
I tamponi misurano la presenza/assenza del virus e quindi se è in corso un’infezione oppure no; a guarigione stabilizzata il virus scompare ed il test è negativo. I test rapidi di cui ora molto si parla non sono equivalenti e danno altre informazioni perché misurano la presenza eventuale di anticorpi ovvero se la persona è stata, anche inconsapevolmente, infettata ed è poi guarita. Ce ne sono circa 200 ma nessuno, come informa l’Iss, è validato ufficialmente per la diagnosi di infezione in corso; per la quale l’unico validato resta il tampone. Un problema interpretativo è che non sappiamo ancora quanto dura la presenza degli anticorpi nell’organismo, e quindi se l’immunità è permanente o temporanea.
Sull’uso dei tamponi l’Italia si è adeguata alle varie direttive dell’Oms, col senno di poi forse all’inizio un po’ troppo restrittive.

In realtà non sono i tamponi a mancare (i bastoncini per prelevare il muco su cui c’è il virus) ma gli indispensabili reagenti; il test ha un tempo tecnico di esecuzione, per ora non comprimibile, di 4-5 ore e questo è un serio limite al numero giornaliero di esami che è possibile eseguire. Si possono fare solo in pochi laboratori con altissimi livelli di sicurezza (per questo sono esclusi i comuni laboratori privati). Il risultato di tutti i tamponi effettuati serve anche ad avere un quadro più preciso dell’andamento e dell’estensione dell’epidemia. L’attendibilità di queste informazioni ed in particolare il numero dei positivi dipende però moltissimo dal numero di tamponi effettuati e dalla tipologia di persone cui vengono fatti (se mirati o, come a volte accade, un po’ a casaccio).

Dall’inizio della pandemia ne sono stati fatti circa 500mila per cui è impensabile chiedere di farli a tappeto a tutti i 60 milioni di italiani. La tanto nominata Corea del sud li ha fatti solo ad una popolazione molto selezionata di persone e finalizzati a rintracciare le persone infettate dai casi positivi. A peggiorare la situazione italiana c’è il fatto che, pur in presenza di precise indicazioni nazionali (ministero della Salute e Istituto superiore di sanità), ogni regione, di fatto e come al solito, fa come gli pare (vedi il diverso approccio e i diversi risultati di Veneto e Lombardia). Conseguenza di questa grave stortura è che la qualità di alcuni dati potrebbe non essere uniforme e portare alla sottostima di alcuni elementi e alla mappatura meno precisa del progredire dell’epidemia. Conseguenze concrete di un modo aberrante e opportunista di concepire le autonomie regionali.

Da un punto di vista generale la lotta al virus è strutturata su due livelli; uno ospedaliero con tre gradi di intensità di cure (intensivo, sub intensivo e normale) ed uno territoriale con pazienti di minore gravità suddivisi in asintomatici e sintomatici isolati a casa loro e monitorati 1-2 volte al giorno dal medico di base e dai servizi territoriali. Meglio e più opportuno sarebbe, per ridurre il rischio di contagio ai conviventi e perpetuare la diffusione, raggruppare i positivi in idonee strutture alberghiere facilitando in tal modo anche il controllo sanitario. Gli ospedalizzati hanno tutti il tampone positivo; la stessa cosa non si può dire per una parte forse considerevole di pazienti che stanno a casa e che, pur avendo sintomi, non sono riusciti a fare il tampone. Sembrerebbe accertato che questi pazienti, soprattutto nella bergamasca, non siano affatto pochi, difficilmente riescano a ricoverarsi ed abbiano una mortalità elevata; per di più, non avendo fatto il tampone, non compaiono nei numeri ufficiali. Volendo sono però in parte tracciabili attraverso il registro di morte delle anagrafi comunali; una questione necessariamente da risolvere. Perché non abbiano fatto i tamponi bisogna chiederlo alla regione. Molti pazienti sono potenzialmente instabili e potrebbero avere improvvisa necessità di un rapido ricovero in ospedale. Al fine di ridurre l’insorgenza delle complicanze e quindi il ricorso alle TI è fondamentale, ai primi segni di instabilità, un trattamento precoce e aggressivo a domicilio eventualmente anche con farmaci ospedalieri.

L’ospedale è il terminale ultimo di tutto quello che di positivo e negativo accade nel territorio; focalizzarsi e rincorrere solo posti letto e respiratori abbandonando a se stesso il territorio è una strategia non vincente. Indispensabile invece associare all’immenso lavoro degli ospedali una forte, coordinata e capillare attività di filtro e di contenimento del territorio. Un territorio, delicato e nevralgico punto di incontro tra bisogni di salute e sociali, che è da sempre la Cenerentola abbandonata di quasi tutte le sanità regionali e caratterizzato, anche organizzativamente, da una grandissima variabilità tra le regioni in termini di qualità, sicurezza ed efficacia delle sue attività.

I tamponi sono fondamentali anche per gestire una delle armi più efficaci per frenare la diffusione del virus: la Sorveglianza epidemica attiva. Trattasi della ricerca a ritroso, partendo da ogni paziente sintomatico, di tutte le persone con cui questo ha avuto contatti per sottoporle a tampone e, se positive, isolarle; è questo un uso corretto, estensivo e mirato dei tamponi. In Cina per la sorveglianza attiva sono state utilizzate da subito 1800 squadre appositamente formate e supportate dal tracciamento della popolazione con i cellulari; lo stesso in Corea. In Italia le regioni stanno muovendosi in ordine sparso e si spera con sufficiente determinazione e celerità.

Un discorso a parte sono i tamponi al personale sanitario ed a quello professionalmente esposto (forse dell’ordine e tutti coloro a contatto con la popolazione). I sanitari stanno pagando un prezzo esorbitante non solo in termini di infezioni (più di 6000) ma anche di morti (oltre 50 medici). Errore madornale, oltre che eticamente vergognoso, la scelta di lesinare e negare tamponi e materiali di protezione a chi deve curare i pazienti riducendo loro anche la possibilità di farlo. Più protezioni, di questi tempi, significa il miglior ringraziamento e meno ipocrisie.

Tampone a tutti? No. Tampone solo quando serve. Una cosa certa è che questa particolare guerra si vincerà solo con un corretto e estensivo utilizzo delle attività sanitarie sul territorio e con i comportamenti responsabili di tutti. I mille eroismi quotidiani degli ospedali da soli è ormai evidente che non possono farcela senza una forte riduzione dell’afflusso di pazienti gravi. Evitare in ogni modo situazioni di contagio e tracciare capillarmente tutti i contatti dei positivi per isolarli; è questa la strategia vincente in una epidemia; curare bene tutti è una necessaria attività parallela che non può sostituire le altre. La situazione è evoluta ed è giunto il momento di ricalibrare alcune attività perché la battaglia che sta già cambiando le nostre vite sarà dura e lunga.