I costi economici della crisi indotta dal coronavirus (Covid-19) non sono ancora quantificabili (dipendono da molti fattori, non ultimo la durata dell’emergenza sanitaria) ma sono certamente molto rilevanti. E saranno ancora più gravi per i Paesi che già si trovavano in difficoltà come l’Italia.
Ma più che l’esatta quantificazione è fondamentale individuare la strategia per uscire dall’emergenza. Ritornare al modello economico e sociale antecedente o approfittare dell’occasione per impostare un diverso e nuovo modello? Modello che accolga anche le istanze legate alla crisi climatica, crisi “mediaticamente silenziata” dal coronavirus ma che rimane attuale con tutti i costi che dovremo sopportare in termini di vite umane e di emergenze economiche (come esempio la ricostruzione di Giacarta causa l’innalzamento dei mari) e sociali (grandi “migrazioni ambientali”).
Cerchiamo di capire, a grandi linee, le diverse opzioni sul tavolo.
La prima, come detto, è quella di continuare il modello che ci ha portato a questa crisi. In questo ambito si stanno sviluppando diverse opinioni. Che hanno tutte in comune il concetto di “fare debito”. Le principali opzioni sul tavolo sono: i “coronabond” cioè nuovi titoli di Stato garantiti dall’Unione europea e non dal singolo Stato. In modo da essere più affidabili e poter pagare tassi di interesse più bassi sterilizzando gli “spread” nazionali. Legarli al Mes (il nuovo “fondo salva Stati”) è non solo utopico in quanto lo statuto del Mes andrebbe cambiato, ma anche pericoloso in quanto si rischiano successive “attenzioni” simili a quanto fece la Troika in Grecia con chiari effetti negativi sui servizi sociali e sul livello di vita dei più poveri. Nel caso sarebbe allora meglio far intervenire la Banca europea di investimenti (Bei) con emissioni di titoli destinati allo scopo.
Ma i debiti vanno comunque pagati. E l’impatto di un forte aumento dell’indebitamento, da rifinanziare periodicamente, sarebbe un fardello gravoso per le finanze dell’Unione e dei singoli Stati.
Proprio per questo nella seconda ipotesi si caldeggia l’intervento della Bce al fine di “disinnescare” il peso del pagamento degli interessi sul debito. Come? Eliminando la necessità di rinnovare il debito a scadenza. Tramite l’acquisto da parte della Bce di titoli emessi dai singoli Stati per l’emergenza sanitaria e ricostruzione economico- sociale da “sterilizzare”. In sintesi la Bce farebbe diventare questi titoli “perpetui”, senza scadenza, in modo da non doverli rifinanziare periodicamente (rimane aperto il tema se lo Stato sia tenuto al pagamento periodico degli interessi e in che misura). Per l’Italia sarebbe utilissimo se fossero trasformati in tale forma anche i propri titoli acquistati durante Quantitative Easing, quasi 400 miliardi ancora in pancia alla Bce.
Tutte le misure fin qui accennate, come ovviamente la semplice emissione di nuovo debito da parte dell’Italia, servono solo a perpetuare il modello socio-economico attuale.
Se volessimo, come auspicabile, approfittare della situazione per impostare una transizione verso un nuovo modello, socialmente più equo, ambientalmente più sostenibile, e in grado di ridurre le diseguaglianze dovremmo mettere in campo misure molto diverse.
Sarebbe necessario individuare forme di finanziamento diverse e definire un ruolo pubblico e collettivo di guida dell’economia e di individuazione dei settori strategici di investimento.
Per individuare fonti diverse di finanziamento rispetto alla pura creazione di nuovo debito, potremmo agire in diverse direzioni.
In primo luogo, come bootstrap per creare una massa di liquidità immediata, si potrebbe agire con un “prelievo forzoso”. Non su tutti i conti correnti come fece Amato nel 1992 ma sulle gestioni patrimoniali, che sono tipicamente investimenti per chi ha grande liquidità, e che a fine 2019 valorizzavano 620 miliardi. A questo si potrebbe aggiungere un prelievo per chi ha quote di fondi di investimento superiori a un certo limite, diciamo 1 milione di euro di strumenti finanziari e quindi non patrimonio immobiliare.
Metà della ricchezza mondiale, circa duecentosei trilioni di dollari, è concentrata nelle mani di 22,1 milioni di “Paperoni”. In Italia l’1% più ricco detiene il 22% della ricchezza nazionale (cioè detiene circa 2.100 miliardi di euro, in media 3,5 milioni di euro a testa). Parliamo di patrimonio, non di reddito. Si potrebbe pensare tranquillamente di fare un “prelievo forzoso” per 50 miliardi sui grandi patrimoni senza intaccare la ricchezza personale.
In secondo luogo si deve garantire un flusso di cassa costante. A tale scopo si può agire sulla leva fiscale: la progressività dell’imposizione va aumentata a scapito dei redditi più alti per ricavare circa 10 miliardi annui. Inoltre una patrimoniale annuale limitata, 1-1,5%, sulle grandi ricchezze, e un aumento delle tasse di successione sui grandi patrimoni potrebbero garantire allo Stato quel flusso finanziario annuale aggiuntivo, diciamo circa altri 30 mld, necessario a garantire gli investimenti. Senza scordare che si possono recuperare anche i circa 19 mld annui di sussidi alle fonti energetiche fossili ormai anacronistici. Inoltre un contributo importante può anche venire da una finalmente efficace e diffusa lotta alla criminalità e per il recupero dell’evasione fiscale, diciamo 40 mld, per un totale di 100.
In ultimo si può, comunque, “fare debito”. Ma debito finalizzato, emissioni specifiche per investimenti e politiche economiche mirate con obiettivi certi, risultati misurabili e trasparenza verso gli investitori sullo stato di avanzamento delle attività oggetto del prestito.
Tutto ciò avrebbe senso solo se si decide di adottare una politica di investimenti pubblici simile a quella che nel dopoguerra portò alla creazione delle grandi infrastrutture: autostrade, ferrovie, porti…
Oggi però occorre creare infrastrutture diverse in grado di creare nuovi tipi di lavoro, contribuire alla riqualificazione ambientale e alla riduzione delle diseguaglianze. Penso a infrastrutture per la distribuzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, a investimenti sull’infrastruttura degli acquedotti di distribuzione dell’acqua per ridurre gli sprechi, alle infrastrutture di produzione di energia rinnovabile, alle infrastrutture per la mobilità sostenibile e il trasporto pubblico, a infrastrutture pubbliche di telecomunicazione, all’efficientamento del patrimonio edilizio in termini energetici e sismici, al recupero del dissesto idrogeologico, al potenziamento delle aree verdi, al recupero dei corsi d’acqua, al potenziamento del sistema sanitario pubblico, al potenziamento della scuola e dell’università, della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico… in sintesi a tutte le politiche nazionali tese a potenziare i servizi pubblici, a migliorare la qualità della vita e a ridurre l’impatto ambientale della nazione. Ricordando che c’è correlazione tra crisi sanitarie e ambiente come dimostra, in ultimo, il fatto che la pianura padana, la zona più inquinata d’Europa, ha una percentuale di morti per il Covid-19 superiore alla media probabilmente perché c’è una forte presenza di soggetti affetti da problemi respiratori per l’inquinamento ambientale.
Politiche per il bene della collettività, per la creazione di condizioni di vita migliori, per la creazione di lavori più gratificanti e meno usuranti in grado di invertire il trend di trasferimento della ricchezza nelle mani di pochi e iniziare il processo di redistribuzione delle risorse che, ricordiamolo, sono risorse comuni.
Chi più ha avuto in passato più deve contribuire ora a un nuovo “Deal”, un Green New Deal che sia ambientale e sociale. Non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale e viceversa.
L’Europa può e deve avere un ruolo importante. Le politiche sopra accennate avrebbero un impatto ben diverso se attuate a livello europeo. Ma per fare questo l’Europa deve cambiare volto: non più un’unione monetaria e finanziaria utile solo al consumismo compulsivo, alla delocalizzazione selvaggia, al ricatto verso i lavoratori e all’accumulazione di sempre più grandi ricchezze, ma un’Europa con ruolo politico e di sviluppo sociale e che promuova un’economia diversa, basata sul benessere sociale, sui beni comuni, sull’uguaglianza, sui diritti e non sul profitto.
Guido Marinelli, co-autore di 5 brevetti internazionali, è stato anche professore di “Elementi di Economia nel progetto di sistemi” presso l’Università di Tor Vergata-Roma. Cofondatore associazioni: Carteinregola, Ponti per il futuro, PerImolti e Ledd