Il governo ha fatto scelte politiche basate non su opinioni personali ma su dati scientifici metodologicamente corretti anche se inevitabilmente probabilistici

Il decreto del 26 aprile 2020 per la riapertura nella Fase 2 è stato stilato anche tenendo conto le indicazioni contenute nel Documento del comitato tecnico scientifico del ministero della Salute “sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione“. In queste settimane il governo Conte è stato più volte  accusato di essere succube degli scienziati e contro le esigenze di cittadini e industria. In realtà è accaduto esattamente contrario. Vediamo perché.

Oggetto di critiche legittime e di sciacallaggio politico è stato la ricerca di un nuovo equilibrio di lockdown che conciliasse l’inconciliabile. È normale prassi ricorrere al parere di tecnici e scienziati quasi sempre pochissimo ascoltati. Questa volta invece sono stati scelti anche bene e hanno fornito una solida base scientifica alle decisioni. Ascoltati sì ma non completamente (a loro avviso sarebbe stato opportuno aspettare almeno un altro paio di settimane), il governo ha giustamente tenuto conto anche di altri legittimi fattori non tecnici. Compromessi difficili ma necessari; il più arduo è stato su quale fosse il livello di rischio da considerare “accettabile” ovvero quanto, quando, come e dove ridurre le restrizioni. Aprire tutto come pretendono le opposizioni avrebbe significato (come Bergamo insegna) esporsi ad un rischio prossimo alla certezza di una seconda e più devastante ondata epidemica. La scelta più sicura era lasciare il Paese già stremato in lockdown per altre due settimane ma soffocando ancora di più l’economia e tutti. È proprio in queste scelte che si inserisce il contributo della scienza basato su dati oggettivi e non su opinioni, sentito dire, opportunismi ed emozioni variamente pericolose. Le scelte più facili e la ricerca del consenso agiscono a favore del virus.

C’è poi la questione molto criticata di non tener conto delle molto diverse situazioni delle regioni; un nord ancora in lentissimo miglioramento e con valori numerici ancora preoccupanti in Piemonte e Liguria e le restanti regioni che vanno, al momento, variamente meglio ma non al sicuro. Ovvia sarebbe stata una apertura differenziata per regioni; ci devono quindi essere stati validi motivi per ritardare una cosa ovvia ma che comunque si farà. Verosimilmente i motivi sono due; il primo di ordine politico di non cadere nella trappola delle provocazioni delle regioni leghiste (più Emilia-Romagna e Marche) di innescare uno scontro istituzionale devastante in questo delicatissimo momento. Il secondo motivo è sanitario; le regioni con meno casi, come dice chiaramente Ranieri Guerra dell’Oms, sono quelle nella cui popolazione il virus ha circolato pochissimo rendendole in tal modo più vulnerabili (un po’ come all’inizio Codogno e la bergamasca). La nota e diffusa debolezza strutturale di non pochi sistemi sanitari regionali avrebbe portato il profilo di rischio a livelli molto preoccupanti. I test sierologici a breve ci diranno quanto e se il ragionamento è corretto. Ogni regione dice che sta potenziando il territorio; ma rigorosamente a modo suo perché lo Stato non può intromettersi.

Nessuno oggi può far finta di non sapere che il virus, ugualmente aggressivo, è ancora tra noi e che andare un po’ meglio non significa minimamente averlo sconfitto. Ipocrita e pericoloso dire che tutto si può fare mantenendo le norme di sicurezza quando è palese che, anche volendolo, sarà impossibile rispettarle diffusamente. Superficialità con il virus significa sempre nuovi focolai che devono essere sigillati immediatamente in zone rosse e gestiti con una rete sanitaria territoriale veramente rapida ed efficace (situazione che sappiamo non è essere così frequente in Italia) basata sulla regola ferrea di: testare, tracciare e trattare. Eventi quindi previsti perché quasi inevitabili mettendo in mobilità più di 4 milioni di persone nella fase 2. La Lombardia ci ha drammaticamente insegnato che fare affidamento solo sull’ospedale è perdente. La sanità territoriale è organizzativamente molto complessa e non lo si realizza in pochi giorni; quindi non c’è alternativa reale e fattibile alla prudenza. Realtà oggettive note ai tecnici e al governo (e a tutti volendo) ma che sembra non importino a chi vuole, anche pretestuosamente, il contrario. Probabilità ovviamente; ma molto alte e quasi certezze. Stupisce, si fa per dire, il rischio aggiuntivo e inutile cui sottopongono la popolazione le aperture anticipate, strumentali e provocatorie, come quelle della Calabria a fronte di una situazione strutturale sanitaria notoriamente critica già senza virus. I numeri non vanno letti superficialmente e di comodo ma contestualizzati e interpretati da chi ne è capace. Questo il rischio reale delle aperture “politiche” anticipate del lockdown. È come camminare in tanti in un campo minato dove si intravedono le mine e si procede stanchi ma cercando con estrema attenzione di non calpestarle sapendo che non scoppierebbe solo la nostra ma tante coinvolgendo gli altri; se poi per insani motivi uno si mette una benda sugli occhi, incrocia le dita e si mette a correre non è libertà; è un’altra cosa.

Non c’è quindi un regime tecnocratico ma un governo politico che ha fatto scelte politiche basate non su opinioni personali ma su dati scientifici metodologicamente corretti anche se inevitabilmente probabilistici. Criticare è ovviamente legittimo ma deve essere sempre nell’ambito della dialettica politica anche molto dura ma sempre costruttiva. È inaccettabile invece quando quelle che in realtà non sono neppure critiche mirino a cambiare i comportamenti collettivi mettendo a rischio la salute non solo degli sprovveduti che le mettono in atto ma di tutti. Sicuramente si poteva fare meglio, quantomeno a livello di comunicazione, di tempistica e di dettagli ma c’è da considerare anche l’eccezionalità, la novità, l’urgenza, le pressioni, l’enormità dei dettagli dei decreti, i retroscena che non conosciamo.

Il documento è classicamente strutturato in scenari ipotizzati in base al modificarsi di alcune variabili. Per tarare il lockdown sono stati scelti come principali elementi di riferimento il numero di posti letto di terapia intensiva (Ti) quale ormai quasi immodificabile collo di bottiglia del sistema sanitario e le possibilità/probabilità di contatto interpersonale di ogni attività e persona. Questi elementi sono stati messi in relazione con altre variabili che influiscono sulla contagiosità e quindi sulla necessità di letti di Ti. Le principali sono: Età (suddivisa in 20 fasce da 0 a 95 anni ognuna con la probabilità calcolata di contagio). Tipo di lavoro (7 settori e varie sottocategorie ognuna con il rischio di ogni lavoratore). Numero medio di possibili contatti delle persone per fascia di età che possono avvenire a casa, lavoro, scuola, mezzi di trasporto pubblici, tempo libero e frequentazione di negozi e affini. Ruolo importante ha il famoso R0 ovvero il numero di persone che un malato può contagiare (che dopo due mesi è sceso da circa 3 a meno di 1; valore questo preso come livello di allerta per creare zone rosse). Ma non basta; queste variabili sono a loro volta state messe in relazione con altre ancora: la popolazione stimata immune e il numero di infezioni al momento della riapertura. Combinando matematicamente in vario modo e misura queste ed ancora altre variabili (una quantità enorme di dati) sono state individuati un centinaio di scenari possibili tra cui scegliere.

Lo scenario più drammatico si ha con la riapertura completa (come in epoca pre-Covid-19) di tutte le attività che porterebbe all’inizio di giugno ad una necessità di ben 151mila posti di TI quando ne abbiamo circa 9mila! È questo il limite tra il reggere ed il crollare! Il limite delle riaperture! Ovvero aprire quel tanto che se andasse proprio male non si supererebbe il tetto di 9000. Altre combinazioni ci dicono che è molto rischioso tornare a scuola e non fare il telelavoro (più contatti uguale più infezioni). Meno rischioso, sempre per gli stessi motivi, è il settore manifatturiero ed edilizio. Il settore commerciale e della ristorazione lo sono di più perché implicano il movimento di molte persone. Il tutto sempre che tutti, ma proprio tutti, rispetteranno le norme di sicurezza (distanza, mascherine, guanti, igiene, ecc.); altrimenti inevitabile la crescita dei contagi e delle zone rosse. Elemento di alta vulnerabilità è il trasporto pubblico; ovvero di coloro che per necessità non possono farne a meno. Altre variabili riguardano la forza e la risposta dei sistemi sanitari regionali.

Dalle elaborazioni matematiche del modello emerge inoltre che i presupposti ineliminabili alla riapertura in questa fase 2 è che vengano mantenute almeno la metà delle attività di smart working, le scuole chiuse, le attività di aggregazione interdette e tutte le consuete misure di sicurezza. La chiave di tutto è sempre quella purtroppo: ridurre i contatti! Ovvero la cosa ora ancor più difficile e dolorosa.


La diffusione del virus nella popolazione si controlla dal 4 maggio con il monitorare a campione con la sierologia (che tecnicamente non può dare impossibili patenti di libertà) e supportati per il tracciamento dall’app Immuni ancora criminalmente impantanata nelle inutili sabbie mobili di una finta e, letteralmente, mortale privacy. Per chi non lo avesse ancora capito l’app è uno strumento a tempo che serve a proteggere la gente, cioè noi, e che la privacy è molto più stracciata per lucro dai social e da internet. L’app serve ora; anche se tracciare senza un territorio che funziona e agisce lascia “perplessi”.

La fase 2 si gioca tutta o quasi su un territorio diffusamente fragile ed a volte insufficiente. Altro elemento cruciale è quindi il monitoraggio e il controllo strettissimo, ferreo e veloce di tutto ciò che accade nel territorio per dare allarmi immediati; ciò avviene tramite una raccolta dati ad hoc da parte delle regioni. Altrimenti ogni decisione, senza informazioni precise, sarà presa male e tardi. Da ricordare che la gestione operativa della sanità e della raccolta dati è di esclusiva pertinenza delle regioni; come la responsabilità.

Il ministero della Salute ha appena emanato un set di 21 indicatori specificamente dedicati i cui dati per calcolarli dovrebbero essere forniti settimanalmente da tutte le regioni. Sono di vitale importanza per gli alert precoci e per questo sono un “debito informativo” ovvero sono obbligatori per le regioni. Senza dati attendibili e immediati si è letteralmente ciechi. Se però le regioni, per un qualsiasi motivo e con un palese autolesionismo, non li mandano o li mandano di qualità inutilizzabile (come accaduto in passato per altri dati) il ministero non ha di fatto alcuno strumento per imporsi e a rimetterci sarà la popolazione di quella regione. Anche questo è l’autonomia regionale! È questa una delle molte, sconosciute, profonde e micidiali contraddizioni del sistema attuale.

Stante questa situazione è evidente che la fretta anche legittima è uno dei rischi maggiori. Nella fase 1 c’era la novità e la paura; ora la stanchezza, l’assuefazione alla paura e la voglia legittima di tornare a vivere più normalmente. Ci aspetta un’altra insidiosa e dura prova e serve uno sforzo ulteriore e diverso, una diversa caparbietà, altre motivazioni, altre energie. Da soli è più difficile ma collettivamente si può sconfiggere questo e ben altri virus.

Emerge, da approfondire, un sottile pensiero su certe resistenze a Conte. Il governo sta rafforzando lo stato centrale, addirittura il senso stesso dello stato, sta dando finanziamenti pubblici, sta rafforzando la sanità pubblica, ha messo in evidenza cosa realmente fa un certo privato, sta potenziando il territorio e addirittura il welfare sostenendo come può i deboli ed i fragili, larga parte della popolazione capisce e collabora. Stanno cambiando equilibri consolidati e sta timidamente tornando al centro della scena sociale e politica una concezione ed una prassi solidaristica della collettività a scapito dell’individualismo esasperato e cinico. Tutto quello che il neoliberismo avversa e che sicuramente cercherà di stroncare (tramite i finanziamenti di una certa Europa e governi diversamente tecnici?). Stimolante ipotesi di ricerca. Che il virus abbia anche liberato una tenue brezza di sinistra?
Ogni crisi è, volendo, un’occasione di riflessione poi di cambiamento; usiamo quindi le informazioni corrette e le nostre idee, per trasformare le occasioni teoriche in realtà concrete.

Quinto Tozzi è cardiologo; già responsabile di terapia intensivista cardiologica e direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas)