La questione del rapporto tra orario di lavoro e tempo libero è di difficile trattazione. La tendenza storica, indubbiamente, vede la riduzione del tempo della vita dedicato al lavoro. Dagli anni in cui Marx ed Engels denunciavano il lavoro notturno delle donne e dei bambini, leggi e lotte operaie hanno aumentato la protezione dei lavoratori e posto limiti alla giornata lavorativa. Nei principali Paesi industrializzati si lavorava circa 65-70 ore settimanali attorno al 1870, 45-50 negli anni cinquanta del secolo scorso, per arrivare a 38-42 trent’anni dopo; inoltre, con l’aumento dell’età scolare e del periodo pensionistico, la vita lavorativa delle persone si è anch’essa contratta. Sebbene questa sembri una tendenza di lungo periodo, negli ultimi decenni essa sembra essersi arrestata, se non invertita. Al contempo sono cresciute quelle forme di sfruttamento esterne alla fabbrica, dove i lavoratori sono spinti a rendersi autonomi, quasi fossero ditte individuali, e nei fatti sono sottoposti a pressioni che li spingono a dilatare il tempo prestato al lavoro.
Ne fornisce una drammatica rappresentazione l’ultimo film di Ken Loach, Sorry we missed you: schiavi di anonimi algoritmi e dell’ordine neoliberale, autisti, tassisti, addetti alle consegne a domicilio, vivono in condizioni di sfruttamento insostenibili. Per non parlare poi della nuova categoria del “lavoro gratuito” – se non talvolta prestato sotto pagamento dello stesso lavoratore – dove si lavora in cambio della promessa di un’occupazione retribuita, oppure per costruirsi un curriculum spendibile in un futuro indefinito.
La discussione sul tempo di lavoro va pertanto inserita in un contesto in continua evoluzione, dove un ruolo decisivo hanno i valori dominanti, la forza contrattuale dei lavoratori e il progresso tecnologico. Sotto quest’ultimo aspetto, una delle ragioni che giustifica la riduzione del tempo di lavoro è l’espulsione della forza lavoro dai processi produttivi causata dalle nuove tecnologie. Queste tendono anche a rendere incerta la divisione tra tempo libero e tempo di lavoro: in molte occupazioni è possibile svolgere mansioni fuori dal luogo e dai tempi di lavoro, con effetti non necessariamente negativi, ma che rendono difficile calcolare quante ore effettivamente l’individuo lavori e quante ne dedichi alla vita privata. L’introduzione nei processi produttivi delle tecnologie dell’informazione, peraltro, non ha ancora dispiegato tutti i suoi effetti. È prevedibile che queste tendenze possano accentuarsi; in particolare, è prevedibile che crescano le persone che rischiano di restare fuori dal mondo del lavoro, oppure che, non protette perché isolate, finiscano per subirne solo gli effetti negativi. La risposta a queste preoccupazioni sembra semplice: lavoriamo tutti un po’ meno, dedichiamo più tempo agli affetti, alle amicizie, allo svago e alla cultura, creando così anche maggiori opportunità per gli altri.
Eppure le cose non sono così semplici, né sul piano tecnico né su quello culturale. Anzitutto l’idea che esista una quantità fissa di lavoro da svolgere, e che questa possa essere divisa a piacimento, è troppo semplicistica. Nelle fabbriche la riduzione dell’orario di lavoro richiede la riorganizzazione della produzione, una diversa divisione delle mansioni e un maggior scambio di comunicazioni tra gli occupati. Se poi l’obiettivo è quello di migliorare la vita delle persone, questa riduzione andrebbe ottenuta senza penalizzare il salario. Si pone in sostanza il problema di come dividere i costi di questa scelta tra i lavoratori, le imprese e la collettività. Sappiamo benissimo quale massiccia opera di redistribuzione del reddito a favore delle classi più ricche abbiano generato le politiche neoliberiste. La polarizzazione della ricchezza è anche legata a questi sviluppi tecnologici, che lasciano il potere di produrre ricchezza e di controllare i processi sociali nelle mani di gruppi ristrettissimi di persone. L’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro, in sostanza, non può essere slegato da interventi radicali a vasto spettro volti a contrastare l’arricchimento ingiustificato dei più ricchi, che invece sembra essere ormai una caratteristica strutturale delle nostre economie.
Nonostante tutto questo, anche per l’incalzare della crisi, molti Paesi e molte realtà industriali si muovono in questa direzione. Belgio, Olanda, Francia, Germania, Svezia e altri Paesi hanno sperimentato a vari livelli la riduzione dell’orario di lavoro. I casi sono numerosi e andrebbero studiati uno ad uno, eppure sembra proprio che smentiscano i profeti di sventura: i problemi organizzativi non si sono mostrati insormontabili, gli effetti negativi sui salari sono stati assorbiti, la produttività dei lavoratori è aumentata spesso in maniera inaspettata, insomma i casi di successo non mancano.
Certo, in molte circostanze la scelta del tempo da dedicare al lavoro è individuale, eppure anche qui conta il contesto. In una fase segnata dall’incertezza e dalla riduzione delle protezioni sociali, il singolo è spinto a dedicare più sforzi al guadagno individuale. La rivendicazione del “lavorare meno lavorare tutti” va pertanto accompagnata alla difesa del settore pubblico, dei servizi sociali e dei diritti. Il lavoratore, come recita la nostra Costituzione, ha diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa», libera anzitutto dalla necessità di accettare tempi di lavoro che assorbono tutte le energie della vita.
Più a fondo – e questo è un punto decisivo -, le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro devono accompagnarsi a cambiamenti radicali che investano il senso della vita. L’impegno sul lavoro per secoli è stato un collante sociale fondamentale. Infatti, mentre nella società feudale le classi dominanti si distinguevano da quelle oppresse per non aver bisogno di lavorare, il capitalismo si è affermato con l’idea protestante che tutti debbano lavorare. Imprenditori e lavoratori, uguali in quanto figli di Dio, si sacrificano insieme nel lavoro di fabbrica: non però per il proprio benessere, ma per scontare il peccato originale e servire il Signore. L’ozio è un peccato, mentre il lavoro purifica l’anima. Questa concezione del lavoro oggi è ormai dimenticata, ma l’attività lavorativa troppo spesso serve a coprire un vuoto interiore, vuoto che forse è proprio l’avvelenato retaggio di questa concezione religiosa dell’esistenza.
Il lavoro non serve né per servire Dio, né per scontare il peccato, coprire un vuoto esistenziale o raggiungere la felicità. Piuttosto, esso deve consentire di vivere comodamente, favorendo la partecipazione alla vita sociale del lavoratore invece che ostacolarla. La realizzazione individuale non dipende dall’arricchimento economico, ma dalla qualità dei rapporti interumani. Vale qui la distinzione tra bisogni ed esigenze proposta da Massimo Fagioli. Queste intuizioni erano presenti in una parte della sinistra italiana degli anni sessanta e settanta del secolo scorso: le troviamo, ad esempio, sia nella proposta di Riccardo Lombardi, esponente socialista di primissimo piano, della società “diversamente ricca”, sia in alcune rivendicazioni operaie di quegli anni, come le 150 ore retribuite per il diritto allo studio. Lo stesso Berlinguer, segretario del Partito comunista, affermò che a suo avviso l’austerità era semplicemente la scelta dell’operaio di stare con la sua ragazza piuttosto che fare degli straordinari per comprarsi una cosa inutile. Oggi la parola austerità ha assunto il sinistro significato della compressione dei salari e dei diritti: dunque non una scelta di vita, ma la costrizione ad una vita di stenti e di incertezza materiale. Affinché possa riprendere quella tendenza storica alla riduzione del tempo del lavoro, sono necessarie una nuova cultura e una nuova fase di lotte: va ripensata l’organizzazione economica della società, va posta al centro la questione della qualità della vita in tutti i suoi aspetti.
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