Dai romanzi alla militanza culturale. Quello della scrittrice nata in Italia da genitori somali, è un lavoro costante sulla memoria di un Paese che negli anni Trenta «divenne un mostro coloniale che perpetrò violenze indicibili in Africa»

Igiaba Scego è una scrittrice e militante culturale nata in Italia da una famiglia di origini somale. Scrive di cultura e società su diverse testate, con interventi legati ai temi dell’immigrazione e della cittadinanza, ha pubblicato diversi romanzi, tra i quali l’ultimo La linea del colore (Bompiani), Roma negata (Ediesse) – con il fotografo Rino Bianchi – percorsi postcoloniali nella capitale, e un libro sul celebre cantautore brasiliano Caetano Veloso, Camminando controvento (Add editore).

Oggi l’intellettuale, lo scrittore, è sospeso tra esibizione mediatica e aristocrazia accademica. In mezzo, c’è spazio per produrre un pensiero di critica sociale che riesca a incidere? O tutto è cancellato dal consumo, dal mercato?
Ho sempre visto lo spazio della letteratura italiana come uno spazio da decolonizzare. Sia a livello di contenuti sia a livello di corpi che agiscono nella piazza letteraria, scrittori/scrittrici ma anche altre figure come traduttori, editor, ecc. Solo mescolandoci si materializza la possibilità di un vero sapere e di una vera narrazione transculturale. Io penso alla fatica che ho fatto io insieme ai miei/mie colleghi/e di altra origine per essere considerati scrittori italiani. I nostri corpi e soprattutto i saperi, anticoloniali e antirazzisti, che portavamo erano guardati con sospetto e marginalizzati. Ora il rischio è essere fagocitati da un mercato che da noi vorrebbe solo storie di vita, se strappalacrime meglio. Ma è lì che deve intervenire il nostro essere rifiutando il diktat facile della testimonianza. Ecco perché abbiamo complicato i testi, i linguaggi, i piani della storia e della memoria. Non a caso abbiamo creato narrazioni e riflessioni che scavano nel non detto di questa Europa sempre più sanguinaria verso i corpi dei nostri fratelli e sorelle che stanno morendo lungo le frontiere. La battaglia per me passa non solo dalla riflessione personale, ma anche nel lavoro di scouting, ovvero portare dentro il mondo elitario (un mondo che per molto tempo è stato anche troppo bianco) della letteratura italiana corpi un tempo rifiutati. Certo il mercato può fagocitare le lotte, renderle innocue, ma sta a noi invece tornare ogni volta ad una riflessione intersezionale, dove classe, gender, appartenenze siano elementi che camminano insieme. Solo l’intersezionalità di quello che scriviamo potrà salvarci da essere carne da macello per il solo consumo di un mercato che fagocita parole e toglie loro ogni senso.

Quando ti ho proposto l’intervista, mi hai scritto che finiti questi tempi di emergenza del Covid, speriamo che a prevalere non siano i fascismi. Che volevi dire?
La mia frase nasce da una reale preoccupazione. L’Italia non ha fatto i conti con il suo passato coloniale e fascista. Vediamo riemergere sentimenti sopiti di odio e voglie più o meno latenti di uomini forti al potere. Lo vediamo come sono aumentati i casi di razzismo e di odio verso le donne. E sento più spesso inneggiare al duce, anche da persone insospettabili. Tutto ciò è preoccupante, soprattutto…

L’intervista prosegue su Left in edicola da venerdì 22 maggio

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