Parlare di perdita di posti di lavoro, disoccupazione e precariato a fine luglio, invece che di mare e vacanze, è uno degli effetti collaterali della pandemia e della crisi che si è innestata su quella mai risolta del 2008. Uno degli effetti più dolorosi. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte ai numeri che fotografano la situazione attuale e le previsioni relative alla seconda metà del 2020. Stando ai dati dell’Employment outlook dell’Ocse, come ci ricorda nella storia di copertina Roberto Musacchio, il tasso di disoccupazione in Europa è passato dal 5,2% di febbraio all’8,4% di maggio e il totale delle ore lavorate è crollato dieci volte di più rispetto ai primi tre mesi della crisi del 2008. Tra i 27 Paesi Ue, l’Italia è uno dei più colpiti, in termini sia di calo dell’occupazione che delle ore lavorate (-28%). L’Istat parla di circa 500 mila disoccupati in più e di 400 mila persone che hanno rinunciato a cercare lavoro. Lo Svimez prevede che nell’arco del 2020 solo al Sud rischiano di scomparire 380mila posti di lavoro, l’equivalente di quanto si perse in quattro anni tra il 2009 e il 2013. E i più colpiti sono coloro che hanno un contratto a tempo determinato, le donne, i giovani. Sempre secondo l’Ocse, la disoccupazione in Italia dovrebbe toccare il 12,4% a dicembre per poi rallentare e scendere entro la fine del 2021 all’11%. Questo se non dovesse arrivare la tanto temuta seconda ondata pandemica in autunno. E se dovesse arrivare?
«Per mandare mia figlia all’asilo nido rischio di perdere il lavoro». Sono alcune parole della lettera che abbiamo ricevuto da Alessandra, una nostra lettrice, che ha deciso di raccontarci uno dei tanti paradossi provocati dalla crisi. Sia lei che il marito hanno un buon reddito e Alessandra definisce la sua famiglia benestante. Per problemi di orario avrebbero potuto iscrivere la bimba a un asilo pubblico solo ricorrendo a una baby sitter che coprisse le ore mancanti. Hanno allora deciso di cercarne uno privato ma dopo il lockdown sono centinaia quelli che non sono riusciti a ripartire (il 10% secondo le stime rivelate in audizione alla commissione Affari sociali della Camera dal comitato EduChiAmo), e a settembre potrebbero diventare oltre 2.400 (sui 6mila esistenti in Italia) a dover chiudere i battenti non avendo i soldi necessari per adeguarsi alle norme anti-Covid. La scelta di Alessandra è caduta allora - seppur contro voglia «perché non in linea con le nostre scelte educative» - su un asilo di proprietà della Chiesa «che costa uno sproposito». E qui l’amara sorpresa: «In caso di chiusura per un nuovo lockdown siamo comunque obbligati a pagare la retta per tutto l’anno scolastico». Questo significa che la bimba tornerebbe a casa e oltre alla retta Alessandra e suo marito dovrebbero pagare una babysitter per almeno una decina di ore al giorno. Non resterebbe loro che un’alternativa altrettanto costosa: rinuncia di uno dei due al posto di lavoro. Di qui le sue parole iniziali. Alessandra guadagna meno del marito, e quindi sarebbe lei a dover rinunciare a un contratto a tempo indeterminato. Pertanto si chiede, e ci chiede: «Dove sono le linee guida del governo per gli asili nido? Dove sono i fondi per sostenere gli asili pubblici e fornire un servizio a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno? Dove sono le politiche di sostegno alla maternità?». Già, professor Conte, dove sono?
Andiamo oltre. L’inchiesta di Carmine Gazzanni e Stefano Iannaccone ci ricorda che la rinuncia a qualsiasi politica industriale negli anni ha portato l’Italia a perdere il 25 per cento della propria capacità produttiva. Su queste macerie, su questa crisi strutturale si è “innestata” quella provocata dalla pandemia. Così oggi sono 150 le vertenze aperte sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico e almeno 135mila persone rischiano di perdere il lavoro in pochi mesi. «L’Italia - spiega Francesca Re David, segretario generale della Fiom - è stato il Paese che più di tutti ha deciso di affidarsi al mercato», delegando in pratica alle multinazionali private le politiche del lavoro. E queste sono le conseguenze. Andiamo incontro a un destino ineluttabile? Noi diciamo di no, purché si affronti la situazione evitando di ricorrere alle stesse ricette liberiste che hanno provocato e aggravato la crisi come abbiamo documentato su Left in questi mesi. Conte è tornato dal Consiglio europeo sul Recovery fund con 36 miliardi in più a disposizione dell’Italia per organizzare il rilancio. E questa è una buona notizia. Come osserva l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, in totale ora tra fondi nazionali ed europei (Recovery fund, Bei, Sure, Mes) sono circa 380 i miliardi che potrebbero essere utilizzati per favorire la ripresa e affrontare l’autunno quando diminuiranno i sostegni ai lavoratori e alle famiglie. E anche questa è una buona notizia. Tuttavia affinché questo fiume di denaro si trasformi in una reale svolta occorre il coraggio di pensare un nuovo modello di società dove - in sintonia con i fondamenti della Costituzione - il benessere delle persone, la tutela dei diritti di tutti e le opportunità di realizzazione delle esigenze di ciascuno, a prescindere dal colore della pelle o dal sesso (o dall’età etc), non siano più subordinati alla logica disumana del profitto.
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L'editoriale è tratto da Left in edicola dal 24 luglio
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Parlare di perdita di posti di lavoro, disoccupazione e precariato a fine luglio, invece che di mare e vacanze, è uno degli effetti collaterali della pandemia e della crisi che si è innestata su quella mai risolta del 2008. Uno degli effetti più dolorosi. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte ai numeri che fotografano la situazione attuale e le previsioni relative alla seconda metà del 2020. Stando ai dati dell’Employment outlook dell’Ocse, come ci ricorda nella storia di copertina Roberto Musacchio, il tasso di disoccupazione in Europa è passato dal 5,2% di febbraio all’8,4% di maggio e il totale delle ore lavorate è crollato dieci volte di più rispetto ai primi tre mesi della crisi del 2008. Tra i 27 Paesi Ue, l’Italia è uno dei più colpiti, in termini sia di calo dell’occupazione che delle ore lavorate (-28%). L’Istat parla di circa 500 mila disoccupati in più e di 400 mila persone che hanno rinunciato a cercare lavoro. Lo Svimez prevede che nell’arco del 2020 solo al Sud rischiano di scomparire 380mila posti di lavoro, l’equivalente di quanto si perse in quattro anni tra il 2009 e il 2013. E i più colpiti sono coloro che hanno un contratto a tempo determinato, le donne, i giovani. Sempre secondo l’Ocse, la disoccupazione in Italia dovrebbe toccare il 12,4% a dicembre per poi rallentare e scendere entro la fine del 2021 all’11%. Questo se non dovesse arrivare la tanto temuta seconda ondata pandemica in autunno. E se dovesse arrivare?
«Per mandare mia figlia all’asilo nido rischio di perdere il lavoro». Sono alcune parole della lettera che abbiamo ricevuto da Alessandra, una nostra lettrice, che ha deciso di raccontarci uno dei tanti paradossi provocati dalla crisi. Sia lei che il marito hanno un buon reddito e Alessandra definisce la sua famiglia benestante. Per problemi di orario avrebbero potuto iscrivere la bimba a un asilo pubblico solo ricorrendo a una baby sitter che coprisse le ore mancanti. Hanno allora deciso di cercarne uno privato ma dopo il lockdown sono centinaia quelli che non sono riusciti a ripartire (il 10% secondo le stime rivelate in audizione alla commissione Affari sociali della Camera dal comitato EduChiAmo), e a settembre potrebbero diventare oltre 2.400 (sui 6mila esistenti in Italia) a dover chiudere i battenti non avendo i soldi necessari per adeguarsi alle norme anti-Covid. La scelta di Alessandra è caduta allora – seppur contro voglia «perché non in linea con le nostre scelte educative» – su un asilo di proprietà della Chiesa «che costa uno sproposito». E qui l’amara sorpresa: «In caso di chiusura per un nuovo lockdown siamo comunque obbligati a pagare la retta per tutto l’anno scolastico». Questo significa che la bimba tornerebbe a casa e oltre alla retta Alessandra e suo marito dovrebbero pagare una babysitter per almeno una decina di ore al giorno. Non resterebbe loro che un’alternativa altrettanto costosa: rinuncia di uno dei due al posto di lavoro. Di qui le sue parole iniziali. Alessandra guadagna meno del marito, e quindi sarebbe lei a dover rinunciare a un contratto a tempo indeterminato. Pertanto si chiede, e ci chiede: «Dove sono le linee guida del governo per gli asili nido? Dove sono i fondi per sostenere gli asili pubblici e fornire un servizio a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno? Dove sono le politiche di sostegno alla maternità?». Già, professor Conte, dove sono?
Andiamo oltre. L’inchiesta di Carmine Gazzanni e Stefano Iannaccone ci ricorda che la rinuncia a qualsiasi politica industriale negli anni ha portato l’Italia a perdere il 25 per cento della propria capacità produttiva. Su queste macerie, su questa crisi strutturale si è “innestata” quella provocata dalla pandemia. Così oggi sono 150 le vertenze aperte sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico e almeno 135mila persone rischiano di perdere il lavoro in pochi mesi. «L’Italia – spiega Francesca Re David, segretario generale della Fiom – è stato il Paese che più di tutti ha deciso di affidarsi al mercato», delegando in pratica alle multinazionali private le politiche del lavoro. E queste sono le conseguenze. Andiamo incontro a un destino ineluttabile? Noi diciamo di no, purché si affronti la situazione evitando di ricorrere alle stesse ricette liberiste che hanno provocato e aggravato la crisi come abbiamo documentato su Left in questi mesi. Conte è tornato dal Consiglio europeo sul Recovery fund con 36 miliardi in più a disposizione dell’Italia per organizzare il rilancio. E questa è una buona notizia. Come osserva l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, in totale ora tra fondi nazionali ed europei (Recovery fund, Bei, Sure, Mes) sono circa 380 i miliardi che potrebbero essere utilizzati per favorire la ripresa e affrontare l’autunno quando diminuiranno i sostegni ai lavoratori e alle famiglie. E anche questa è una buona notizia. Tuttavia affinché questo fiume di denaro si trasformi in una reale svolta occorre il coraggio di pensare un nuovo modello di società dove – in sintonia con i fondamenti della Costituzione – il benessere delle persone, la tutela dei diritti di tutti e le opportunità di realizzazione delle esigenze di ciascuno, a prescindere dal colore della pelle o dal sesso (o dall’età etc), non siano più subordinati alla logica disumana del profitto.