Da un lato lo spettro di una lacerante crisi economica, dall’altro le preoccupanti notizie relative alla pericolosità della variante inglese. Abbiamo chiesto al presidente dell’Accademia dei Lincei, Giorgio Parisi, qual è il modo più efficace per affrontare e ridurre i rischi che in questo particolare momento il coronavirus porta con sé. «Se non si adottano misure più dure, la variante inglese può raddoppiare i contagi e triplicare i morti in poche settimane», avverte il fisico

Un unico lockdown duro per un paio di settimane, forse tre, su tutto il territorio nazionale, o proseguire secondo il metodo degli interventi selettivi con mini lockdown locali? Rafforzare le misure in tutta Italia o inasprirle di volta in volta solo nelle regioni o province più colpite?
Le misure di “difesa” da adottare contro la diffusione delle varianti del Covid-19 (inglese, sudafricana, brasiliana sono quelle più note) sono il primo vero banco di prova che dovrà affrontare il nuovo governo Draghi che, prima ancora di ottenere la fiducia in Parlamento, ha già dovuto fare i conti con le frizioni tra i diversi schieramenti politici che lo compongono, in merito all’opportunità di aprire gli impianti sciistici e salvare almeno in parte la stagione oppure di mantenerli chiusi e contribuire a evitare rischi di natura sanitaria che gli inevitabili assembramenti presso gli impianti avrebbero portato con sé.
L’allarme della comunità scientifica e degli esperti in generale è abbastanza chiaro e va nella direzione di una stretta: fino a quando non si rallenta la corsa del virus è pericoloso pensare a un allentamento delle restrizioni in vigore. Su questo l’Istituto superiore di sanità (Iss), il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie e il Comitato tecnico scientifico sono concordi. Semmai la divisione c’è sulla linea da seguire: lockdown nazionale (sperando che sia l’ultimo) o interventi mirati?
Insomma, prima l’economia o prima la salute? La questione è tutta qui ormai da un anno. Ma la decisione a livello politico è da prendere in fretta. Il 15 febbraio l’Iss, a proposito della cosiddetta variante inglese, che è presente ormai nell’88% delle regioni italiane ha emesso una nota in cui «si raccomanda di intervenire al fine di contenere e rallentare la diffusione della variante Voc 202012/0, rafforzando/innalzando le misure in tutto il Paese e modulandole ulteriormente laddove più elevata è la circolazione, inibendo in ogni caso ulteriori rilasci delle attuali misure in atto».

Da un report dell’Iss che aggiorna la situazione al 4-5 febbraio emerge che la variante inglese è diventata prevalente in diverse regioni con picchi del 59%. A Pescara, per es. il 65% dei contagi è imputabile ad essa stando alle stime del laboratorio di Genetica molecolare dell’Università di Chieti. Del resto il gruppo britannico Nevertag (New and emerging respiratory virus threats advisory group) che assiste il governo Johnson nella gestione della pandemia, basandosi su 12 indagini indipendenti condotte in Gran Bretagna dove la variante è stata scoperta il 20 settembre 2020, ha stimato che Voc 202012/0 è più contagiosa dal 30 al 50%. E se a questo si aggiunge che potrebbe comportare una mortalità superiore dal 30 al 70% rispetto alle altre varianti «non preoccupanti» in circolazione, il contesto in cui si devono fare delle scelte è piuttosto chiaro.
Scelte che si inseriscono in un quadro sanitario che in Italia da inizio febbraio appare stazionario – mediamente circa 11mila nuovi casi giornalieri e poco più di 300 decessi al giorno – ma che potrebbe mutare velocemente. In peggio. Peraltro circa 330 decessi giornalieri corrispondono a 5mila morti a causa del Covid-19 in 15 giorni, ma tutto ciò, considerando le polemiche infuocate a cui abbiamo assistito per l’impossibilità di andare a sciare, non sembra fare notizia. Come se ci fosse ormai una assuefazione diffusa a questo pesantissimo bilancio di vite umane perse, che durante la seconda ondata è stato ancora peggiore di marzo-aprile dello scorso anno.

A partire da questi dati e considerazioni abbiamo rivolto alcune domande al professor Giorgio Parisi, fisico teorico tra i massimi esperti nel campo della meccanica statistica e presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei, per aiutarci capire quale potrebbe essere sia nell’immediato che a lungo termine la strategia migliore per difendersi dal virus.
«Per prima cosa, come antidoto all’assuefazione ai bollettini, farei un confronto: sia nel 2019 che nel 2020 i morti sul lavoro sono stati circa 1.200, numero che corrisponde al totale dei decessi da Covid-19 negli ultimi 4 giorni. E se vogliamo farne un altro, nel 2019 sono morte 3.130 persone in seguito a incidenti d’auto, poco più della metà dei decessi da Sars-cov-2 registrati nelle prime due settimane di febbraio. Dopo di che entrando in medias res direi che l’obiettivo principale fino a oggi è stato quello di cercare di evitare la saturazione del Servizio sanitario nazionale e in particolare che andassero in crisi le terapie intensive e gli ospedali. Perché tutto ciò avrebbe ricadute pesantissime non solo sulle cure di chi è stato contagiato dal virus ma su tutti i malati più gravi. Nonostante questa strategia c’è comunque un enorme problema rappresentato dalle migliaia di persone che hanno dovuto rimandare per mesi per esempio visite oncologiche o connesse a problemi cardiaci. Quindi la medicina di prevenzione è stata fortemente messa in crisi e questo nel lungo periodo comporterà dei guai».
Attualmente i posti “occupati” in terapia intensiva (Ti) sono poco meno di 2.100 e i nuovi ricoveri giornalieri da febbraio stazionano stabilmente sotto le 20mila unità. «La politica adottata consiste essenzialmente nel cercare di tenere le Ti non sopra i 2mila posti e l’occupazione dei posti letto intorno a 20mila. Quindi quando il livello scende si tende a riaprire. Si tratta di una strategia realizzata in maniera tale da salvare il Ssn come primo obiettivo, e compatibilmente come secondo obiettivo, l’economia. La mia impressione è che il contenimento del numero dei morti sia al terzo posto». Parisi a questo…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 febbraio 2021

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SOMMARIO

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).