La vera emergenza non è chi sbarca ma chi non arriva. Dal terribile naufragio del 3 ottobre 2013, in cui morirono 368 persone, non è cambiato niente, al netto dei “mai più” istituzionali ripetuti a ogni ricorrenza. Nel canale di Sicilia si continua a morire. Siamo andati lì e abbiamo parlato con le madri dei migranti dispersi

A Lampedusa, il mare calmo e il vento di scirocco hanno favorito l’arrivo delle barche cariche di migranti in questo inizio d’autunno. Un flusso quasi continuo di uomini, donne e bambini si riversa sul molo Favaloro, mentre a pochi metri gli ultimi bagnanti della stagione prendono il sole o affollano i caffè affacciati sul porto nuovo. I barchini partono da Sfax, in Tunisia, o dalla Libia, e sono carichi di magrebini e subsahariani: molte le famiglie, che scappano da un destino di miseria portando con sé i pochi averi, a volte anche gli animali domestici; persino una pecora è sbarcata sull’isola insieme a un gruppo di tunisini.
I turisti ancora abbronzati e i profughi stremati, in ogni caso, non si incrociano mai. La polizia provvede a sbarrare il passo a chiunque si avvicini e a trasportare subito i nuovi arrivati nell’hotspot blindato e guardato a vista: allestito per 250 posti, è arrivato a contare fino a 1.500 presenze. Oltre al maxi sbarco del peschereccio con 686 migranti a bordo la notte del 27 settembre, in sole 48 ore fra il 2 e il 3 ottobre si sono contati ben 43 arrivi, per un totale di 880 persone. Il giorno successivo, in 110, fra cui alcune donne con bambini piccoli, hanno atteso con pazienza sotto il sole la nave quarantena Atlas: una nuova infornata di migranti, pronti a salire sul vecchio traghetto, dove staranno stipati per un tempo indefinito al largo delle coste lampedusane – da dieci a trenta giorni, a seconda delle necessità – in attesa di essere ridistribuiti in altri centri di accoglienza in Sicilia, se non direttamente rimpatriati.

«Dovrebbero fare domanda di asilo entro cinque giorni per evitare l’espulsione ma molti non lo sanno», spiega Yasmine Accardo, referente per i territori di LasciateCIEntrare, la campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, che monitora la situazione nelle strutture di accoglienza. La già non facile situazione dei richiedenti asilo è ulteriormente peggiorata con l’istituzione delle navi quarantena, vere e proprie prigioni galleggianti, dove le persone, con la scusa della pandemia e di un possibile contagio, vengono tenute confinate nelle cabine senza poter uscire all’aria aperta. «Dalla Atlas sono arrivate testimonianze di migranti alloggiati nella pancia della nave, senza la luce diretta», testimonia Accardo (autrice con Stefano Galieni del libro Mai più sulla vergogna dei Cpr, edito da Left). Gli operatori sono pochi, da cinque a quindici per ottocento persone, ma la cosa peggiore è il giro di vite sulle deportazioni: «Abbiamo saputo che a tunisini ed egiziani non è stato permesso di accedere alla procedura di richiesta di asilo a bordo delle navi», denuncia l’attivista.

Dal terribile naufragio del 3 ottobre 2013, in cui morirono 368 persone davanti alle coste di Lampedusa – il processo di primo grado si è concluso il 9 dicembre 2020 con sette condanne – non è cambiato niente, al netto dei “mai più” istituzionali ripetuti a ogni ricorrenza. Dal 2014 a oggi l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha infatti stimato più di 23mila morti nel Mediterraneo e molti di quelli che cercavano di raggiungere Lampedusa sono oggi soltanto un numero su una lapide nei cimiteri dell’agrigentino. «La situazione è disastrosa: abbiamo radar, mezzi navali, elicotteri ed eppure queste imbarcazioni intorno a noi non le vede nessuno», denuncia Vito Fiorino, che quella notte…


Il reportage prosegue su Left del 22-28 ottobre 2021

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