Carlo Calenda si è sfilato dall’accordo – molto vantaggioso per lui – stipulato con il Pd di Enrico Letta. Presidenzialista, pro nucleare, contro il reddito di cittadinanza, il leader di Azione auspica una legislazione ambientale “leggera” pro aziende, lancia la campagna elettorale dai distretti industriali.
Arturo Scotto, da coordinatore di ArticoloUno, come legge questo strappo? Forse è più coerente se Calenda va a destra?
Quello che conta è il presupposto. Se il tema è evitare che la destra estrema raggiunga il 65 per cento dei seggi, anche Calenda risulta utile. Il campo progressista è talmente frastagliato e diviso che fare gli schizzinosi e disperdere voti negli uninominali è un lusso che possono permettersi in pochi. Dopodiché le differenze con Calenda sono grandi su temi decisivi come la pace e la guerra, il fisco, il lavoro, l’ambiente e anche su un certo modo di intendere la politica. Consentitemi di dirlo: la nuova “questione morale” in Italia sta anche in classi dirigenti incapaci di fare storia, che si guardano solo l’ombelico, che rimuovono l’interesse generale e vengono meno alla parola data perché perde qualche follower su twitter. Uno spettacolo francamente deprimente. Calenda ha trafugato un’agenda Draghi (che non esiste) e l’ha sostituta con il manuale del perfetto narcisista. Ma così si regala a Giorgia Meloni un’autostrada.
Diranno: non si può fare solo appello contro la destra, si deve dire per cosa ci si mette insieme.
Vero, ma se non riconosci chi è l’avversario principale, poi non sei in grado nemmeno di costruire una visione comune.
Dunque che fare di fronte al pericolo che vincano le destre e che cambino la Costituzione in senso presidenzialista?
Diciamo un no netto al presidenzialismo: è la scorciatoia che percorrono tutti coloro che intendono rispondere alla crisi della democrazia riducendola al soprammobile sulla scrivania del capo assoluto investito dal popolo. I sistemi liberal-democratici nati in Europa dopo il fascismo non riescono più a ridurre la diseguaglianza tra chi ha e chi non ha, a sbloccare l’ascensore sociale, a garantire un futuro alle nuove generazioni che conoscono prevalentemente lavori umilianti. Il nazionalismo – e quindi il richiamo all’uomo forte – è la conseguenza di un modello che non riesce più a dispiegare una prospettiva di giustizia sociale. Non è una novità nel panorama occidentale e ha sempre innescato scenari catastrofici. A Giorgia Meloni oggi viene concesso un salvacondotto che a Gianfranco Fini, nonostante il ripudio del fascismo come male assoluto dopo Fiuggi, non è stato mai concesso. La leader di Fratelli d’Italia non ha mai pronunciato frasi così definitive: ha sempre pattinato sull’ambiguità, rifugiandosi dietro il comodo alibi dell’anagrafe. Su questo in tanti, in troppi stanno zitti, forse perché come sempre in Italia la tentazione di andare in soccorso del presunto vincitore è irresistibile. Non si può oggi accantonare la pregiudiziale antifascista e accontentarsi di una semplice professione di fede atlantista da parte della leader di Fratelli d’Italia: un certo establishment si tolga dalla testa che basta questo per legittimarla sulla scena internazionale. Non basta. Dunque, preoccuparsi per il suo arrivo a Palazzo Chigi è un dovere patriottico.
La destra si finge paladina del popolo, ma dice no a nuove, proporzionate, tasse, propone incentivi solo per le imprese e la flat tax. Come stanno realmente le cose?
Il programma della destra a trazione Meloni sembra il carnevale di Rio. Con Berlusconi che ha sostituito un milione di posti di lavoro con un milione di alberi e Salvini che – nostalgia canaglia – prova a reindossare la felpa della polizia provando a tornare al Viminale. Restano sullo sfondo i fatti, al netto della “ammuina” di queste ore: autonomia differenziata e Flat Tax. La più grande operazione di redistribuzione verso i ricchi della storia repubblicana. Da un lato puntano a smontare quel che resta dello stato sociale, delegando alle Regioni più forti la qualità dei servizi essenziali e scaricando sul resto un po’ di elemosina. Dall’altro la tassa piatta che favorirà i milionari, scassando le casse dello Stato e allargando le diseguaglianze tra i redditi. Puntano a prendere i voti dei molti per aiutare i pochi: il solito vecchio trucco della destra. Bisogna smascherarlo con coraggio.
Il problema è anche questa legge elettorale frutto del Pd renziano? Purtroppo non è stata fatta una legge proporzionale, come era stato promesso quando il Pd si è allineato al taglio del numero dei parlamentari voluto dai M5s.
Il Rosatellum è il lascito più mefitico della stagione renziana: un’impalcatura cervellotica che costringe a coalizioni forzose senza nemmeno l’obbligo di un programma comune, di un contrassegno comune, di una leadership comune. Un maggioritario sporco incastonato in un proporzionale spurio. Dove l’elettore finisce per perdersi nel labirinto di Minosse degli algoritmi e fino in fondo non sa nemmeno dove e a chi finisce il suo voto. Andava cambiata, ma la destra e Renzi non hanno voluto. Ora dobbiamo farci i conti e siamo obbligati a costruire alleanze tecnico elettorali più ampie per evitare che la destra faccia cappotto negli uninominali, dove si vince con un voto in più. La saggezza vorrebbe che tutti quelli che non sono di destra si mettessero insieme evitando di regalare seggi. Vediamo fino a dove si arriva. Ciascuno poi correrà nel proporzionale con la propria piattaforma. La destra ha più dimestichezza con gli accordi di potere: non si frequentano tutto l’anno, ma al cenone di Natale si ritrovano attovagliati insieme felici e contenti aspettando la mezzanotte per il liberi tutti. A sinistra, diciamo, si fa un po’ più fatica.
Nonostante tutto Pierluigi Bersani sostiene che sia stato un errore escludere il M5s dal patto a sinistra per le elezioni.
Bersani ha ragione. Io rivendico l’esperienza giallorossa e continuo a non avere preclusioni sugli apparentamenti tecnici. Tuttavia, mi spiace che i Cinquestelle non abbiano compreso che la crisi avrebbe aperto la strada alle elezioni anticipate, come da tempo voleva la destra, e che la domanda di protezione dei ceti più deboli – davanti a guerra, pandemia e inflazione quasi a due cifre – in quel momento incrociava anche una richiesta di stabilità politica, interrompendo un faticoso riavvicinamento tra esecutivo e sindacati attorno all’emergenza salariale. Come dire, è peggio di un crimine, è un errore. E gli errori in politica producono conseguenze drammatiche come la rottura di quel campo progressista a cui lavoravamo faticosamente da tre anni: siccome reputo Giuseppe Conte un uomo intelligente, non posso immaginare che non l’abbia messo nel conto. Andare separati oggi non deve però chiudere un dialogo per il giorno dopo. Dopo il 25, c’è il 26 settembre e bisognerà tornare a dialogare e confrontarsi sul merito. Da parte nostra non ci sarà nessun attacco al M5S perché l’avversario si chiama destra. Mi auguro ci sia reciprocità. In ogni caso, non delego a nessuno la rappresentanza degli interessi e dei bisogni dei lavoratori, dei precari dei poveri. La sinistra siamo noi.
La campagna elettorale è, anche per di tempi rapidissimi in cui si gioca, tutta schiacciata sul presente. Provando a guardare più lontano, Articolo Uno come immagina l’Italia da qui a venti, trent’anni? Quali sono le idee che mettete in campo?
Al nostro Congresso di aprile abbiamo scelto una linea chiara: costruire una proposta nuova della sinistra democratica italiana, del lavoro, dell’ambiente, dei diritti civili, pienamente nel solco della famiglia socialista europea. L’obiettivo era un processo costituente di tutti i democratici e progressisti entro l’anno: oggi dobbiamo montare tutto in pochi giorni a causa della precipitazione elettorale. Ma la sfida resta: siamo cofondatori di una lista che mi auguro inneschi la nascita un nuovo soggetto politico il cui obiettivo storico deve essere restituire centralità e rappresentanza al mondo del lavoro. Significa potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati, fine della stagione della precarietà che è la cifra principale delle giovani generazioni e non solo, nuova legge sulla rappresentanza per smontare il ricatto dei contratti pirata. Non è più immaginabile che il corpo a corpo nelle fabbriche e nei luoghi del disagio lo subappaltiamo a qualcun altro, come è stato fatto negli ultimi anni. La frattura si ricompone se hai proposte nette e chiare: bisogna chiudere la stagione della subalternità al pensiero unico.
Non solo sui diritti sociali, ma anche su quelli civili il patto che era stato stipulato con Calenda dal Pd appariva quanto meno generico. Perché ora non osare di più?
La vera sconfitta della legislatura è stata il naufragio dello ius scholae. Che già nasceva da una mediazione con il M5s che storicamente era contrario perché ancora intrappolato nei decreti sicurezza di Salvini. La nostra proposta resta sempre la stessa ovvero lo Ius Soli: chi nasce in Italia è cittadino italiano. Punto. Anche per questo va respinta questa destra che difende gli evasori fiscali e criminalizza chi scappa dalla fame e dalla guerra.