Da 25 anni un presidente della Camera dei rappresentanti statunitense non metteva piede sul suolo di Taiwan, lo hanno ricordato in tanti. Ma quali saranno le reali conseguenze a livello di rapporti di forza in Asia orientale?
Andiamo per ordine. Dopo una serie di dubbi e di temporeggiamenti, la democratica Nancy Pelosi è atterrata a Taipei il 2 agosto, capitale dell’isola taiwanese attorno alla quale si era già mobilitato l’esercito cinese ufficialmente per delle esercitazioni.
Visitare Taiwan non è come fare tappa in una qualsiasi delle mete dell’area indopacifica selezionate per il viaggio istituzionale di Pelosi. Che la terza carica degli Stati Uniti scelga di fare visita a uno Stato che la Cina non riconosce come indipendente, ha tutto un altro peso. Le relazioni tra Washington e Pechino, così come quelle tra Stati Uniti e Taiwan, sono regolate da dei trattati internazionali specifici, rispettivamente il Comunicato di Shangai del 1972 e il Taiwan relations act del 1979. Nel primo, come ha ricordato anche Asia times, si pone come vulnus principale tra Usa e Cina lo status di Taiwan: Pechino non ne riconosce l’indipendenza, ma la considera una provincia cinese. Gli Stati Uniti accettavano questa posizione e si auspicavano una risoluzione pacifica della situazione. Se il presidente statunitense o il vicepresidente visitassero Taipei, sarebbe un implicito riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan, e il trattato andrebbe a monte.
Questo non vale, però, per la speaker Pelosi, almeno non ufficialmente. Dal punto di vista tecnico, infatti, la terza carica dello Stato non è annoverata tra quelle figure diplomatiche la cui presenza sul suolo di qualsiasi Paese farebbe scattare automaticamente “l’allarme riconoscimento”. Tuttavia, è più o meno come sfidare a sparare qualcuno che ti sta puntando una pistola, sapendo che sei appena fuori la linea di fuoco e che quindi non può colpirti. Pericoloso lo stesso, però. Pechino ha più volte ribadito che la presenza di Pelosi a Taipei non era gradita, e che se avesse scelto di visitare comunque Taiwan ci sarebbero potute essere conseguenze (non a caso, ci sono in corso “esercitazioni militari” cinesi a un tiro di schioppo dall’isola).
Ma quindi, sapendo qual era la posta in gioco, perché il presidente Joe Biden non ha impedito alla speaker Pelosi di recarsi a Taiwan? Dal punto di vista meramente procedurale, il presidente non può impedire alla speaker di recarsi in un Paese straniero, vigendo la separazione dei poteri tra Parlamento e presidenza. Di certo, non mancano gli espedienti che un inquilino della Casa Bianca può utilizzare per persuadere un membro del suo governo a seguire una determinata linea di comportamento. Ad esempio, come suggerisce Asia times, avrebbe potuto negarle l’utilizzo di un mezzo militare statunitense, se non convincerla a desistere del tutto. Eppure, Pelosi è andata avanti con il suo proposito, prima omettendo la tappa a Taiwan dall’itinerario e accendendo qualche timida speranza, per poi invece apparire sul suolo di Taipei.
Molto ci si sta interrogando sulle ostinate motivazioni di Nancy Pelosi nel volersi recare sull’isola. Il professor Mario Del Pero sul Giornale di Brescia ha suggerito di leggerci un tentativo, da parte del Congresso, di voler riaffermare la propria autorità nel definire la politica estera statunitense. Solo in gravi casi di emergenza, infatti, spetta al presidente decidere la linea da tenere. Negli ultimi cinquant’anni, però, sempre più spesso i ruoli si sono ribaltati, e con le elezioni di midterm alle porte riaffermare la propria importanza non è un aspetto secondario. L’affrancamento dalla Cina, soprattutto dal punto di vista economico, è un tema che unisce democratici e repubblicani, seppur con declinazioni diverse. In più, continua Del Pero, secondo i sondaggi dell’agenzia Gallup, ben l’80% degli statunitensi non vede di buon occhio Pechino, una percentuale che è aumentata del doppio negli ultimi dieci anni. Se per i repubblicani sono i rapporti commerciali con la Cina il punto più importante, per i democratici è il confine tra autoritarismo e democrazia a diventare centrale, soprattutto la questione dei diritti umani. Non a caso, Nancy Pelosi ha affermato più volte che il vero motivo della sua visita, durata 19 ore, riguardava proprio questo aspetto.
L’ultimo speaker ad aver messo piede a Taiwan prima di Pelosi era stato il repubblicano Newt Gingrich nel 1997. Il clamore suscitato era stato, però, molto inferiore. Questo perché Gingrich era in realtà il rappresentante dell’opposizione, visto che il presidente era a quel tempo il democratico Bill Clinton. Pelosi, invece, è dello stesso partito di Biden, il che fa pensare che le sue azioni siano in qualche modo avallate dalla Casa Bianca, o quanto meno tollerate. La continuità di partito che si è presentata in questo caso non ha nulla a che vedere con il caso della visita di Gingrich.
La visita di Pelosi e della delegazione congressuale che si è recata a Taiwan è stata percepita da Pechino come una «importante provocazione politica» e una sfida alla sovranità cinese, fa sapere la Cnn. Il plauso fatto dalla speaker alla resistenza taiwanese nella difesa per la democrazia non ha certo aiutato a calmare le acque, per quanto Pelosi abbia ribadito più volte che da parte degli Stati Uniti non c’è nessuna volontà di alterare lo status quo. Eppure, le esercitazioni militari organizzate dalla Cina sono praticamente senza precedenti, visto che arrivano a sconfinare nelle acque territoriali di Taiwan. Sono peggiori persino di quelle della grande crisi dei rapporti tra Pechino e Taipei risalente a metà anni 90. Non sembra esserci, almeno per il momento, la volontà da parte cinese di innescare un’escalation militare, ma la dimostrazione di forza messa in atto fa pensare che a fare le maggiori spese della visita di Nancy Pelosi non saranno gli Stati Uniti, ma Taiwan stessa.
A innervosire particolarmente il presidente cinese Xi Jinping è il fatto che che non essere riuscito a impedire a Pelosi di recarsi a Taipei in qualche modo indebolisce la sua posizione, proprio quando mancano pochi mesi a una mossa che potrebbe cambiare il suo futuro politico. Questo autunno, infatti, in occasione del XX Congresso del Partito comunista cinese, Xi ha intenzione di rompere le convenzioni e presentarsi per un terzo mandato come leader della Cina. Il fallimento nei confronti di Pelosi non mette in pericolo questa mossa, ma certamente ha un peso d’immagine soprattutto a livello interno: dopo aver avvertito Joe Biden che il viaggio della speaker equivaleva a «scherzare con il fuoco», la rabbia di Xi plausibilmente non si riverserà su Washington, ma su Taipei. Non potendo punire militarmente gli Stati Uniti, sarà l’isola a subire inasprimenti militari ed economici, riporta ancora la Cnn.
Eppure non tutti, a Taiwan, vedono la Cina come il nemico da cui affrancarsi. In un interessante articolo, il New York times racconta la storia del San Jiao Fort cafè, costruito sul tetto di un bunker militare a sole sei miglia dalla città cinese di Xiamen. I suoi proprietari sono Chiang Chung-chieh, di 32 anni, e Ting I-hsiu, di 52. Se la Cina dovesse decidere di prendere Taiwan con la forza, le reazioni dei due sarebbero ben diverse: combattere per il primo, arrendersi nel caso del secondo. Sono maggiormente i giovani, infatti, a identificarsi come indipendenti da Pechino. Questo nonostante sia stata la generazione di Ting a vivere direttamente gli attacchi della Cina. Ma la liberalizzazione economica e l’aver ricevuto un’istruzione che mirava a stringere i legami con Pechino hanno fatto sì che questi aspetti prevalessero sugli altri. Cosa ben diversa per la generazione di Chiang, che ha conosciuto solo il pugno di ferro di Xi Jinping e che non ha nessuna voglia di vedersi “riunita” alla Cina.
Attualmente, l’idea prevalente degli abitanti di Taiwan è di mantenere le cose come stanno: ben l’86% è a favore della conservazione dello status quo. In questa percentuale esistono posizioni un po’ sfumate tra loro: il 25,8% vuole lo status quo con l’obiettivo in futuro di arrivare all’indipendenza, il 25,5% vuole lo status quo all’infinito e il 5,6% vuole mantenere solo per adesso lo status quo, ma punta a un’unificazione guidata da Taiwan e non dalla Cina. Solo il 6,6% dei taiwanesi chiede l’indipendenza il prima possibile, percentuale in calo rispetto al 2008, quando erano l’8,7%.
La visita di Nancy Pelosi finirà nei libri di storia delle relazioni internazionali, scalzando quella di Gingrich del ’97. Ma per sapere quali saranno davvero gli effetti a lungo termine bisognerà aspettare e vedere, e non è detto che la scelta di andare a sostenere la democrazia taiwanese si rivelerà davvero la mossa più giusta.