Colpisce in questa vicenda, innanzitutto la solitudine del sedicenne che ha aggredito con un coltello la professoressa, evidentemente tormentato da affetti e pensieri malati che nessuno è riuscito a cogliere. Una solitudine che giustifica l’accusa di omissione di soccorso

È stato arrestato ieri con l’accusa di tentato omicidio aggravato lo studente sedicenne che ha accoltellato in classe la sua professoressa di italiano, ad Abbiategrasso, nell’hinteland milanese. Dopo l’aggressione che ha causato ad Elisabetta Condò lesioni multiple alla testa e alle braccia, tanto gravi da rendere necessario un delicato intervento chirurgico, il ragazzo si è procurato a sua volta delle ferite , ed è stato ricoverato nel reparto di Neuropsichiatria dell’adolescenza dell’ospedale San Paolo di Milano, un rarissimo luogo di cura dedicato a quest’età sempre più evidentemente colpita oggi da un profondo malessere che trova nulle o deboli risposte nella nostra società. Stando a quanto riporta la stampa, la diagnosi è di disturbo paranoide, un disturbo di personalità dunque, non una condizione psichiatrica tale da giustificare la momentanea perdita del rapporto con la realtà che rende incapaci di intendere e volere. Del resto l’aggressione è stata premeditata, il ragazzo è andato a scuola armato di un grosso coltello, forse un’arma da caccia del padre, e di una finta Colt, con la quale ha minacciato i suoi compagni costringendoli a uscire dall’aula dopo aver ferito la docente. Pare che un suo compagno di classe abbia detto che “sembrava privo di emozioni” mentre accoltellava la sua professoressa. I carabinieri che sono intervenuti sul posto, lo hanno trovato seduto in un banco in fondo all’aula, immobile, con la testa fra le mani vicine alle armi. Non avrebbe opposto alcuna resistenza quando è stato invitato ad inginocchiarsi per essere ammanettato.
Mauro (nome di fantasia che ci serve a ridurre le distanze per cercare di comprenderlo) era stato bocciato in prima liceo, ma non aveva avuto difficoltà ad inserirsi nella nuova classe socializzando velocemente con gli altri ragazzi, ma più vote aveva disturbato le lezioni tentando di interromperle con comportamenti tanto provocatori da apparire bizzarri, come staccare la spina della lavagna luminosa o spruzzare spray maleodorante, che gli erano costati sei note disciplinari, quattro delle quali firmate dalla docente vittima dell’aggressione.
Come accade troppo spesso, nessuno sospettava che Mauro non stesse bene. Neanche il padre, che in un’intervista dice che oggi realizza che la vita di suo figlio è spezzata, ma avrebbe anche potuto suicidarsi ed è vivo, e da questo si deve ripartire. Mauro ha compiuto questo terribile passaggio all’atto il giorno prima di un colloquio con la sua famiglia convocato dai docenti, durante il quale si sarebbe forse comunicato il rischio di bocciatura per insufficienza in condotta. Pare che fino ad allora i genitori non fossero informati delle note (ma com’è possibile nell’era dei registri elettronici?).
Colpisce, di questa tragica vicenda, innanzitutto la solitudine di Mauro, evidentemente tormentato da affetti e pensieri malati che nessuno è riuscito a cogliere. Una solitudine che giustifica l’accusa di omissione di soccorso da parte della società nei confronti degli adolescenti che riecheggia in qualche titolo di giornale in questi giorni. E non basta lo psicologo a scuola, che spesso c’è, ma non riceve le richieste d’aiuto di chi sta peggio, perché in psichiatria più grave è la malattia, minore è la consapevolezza di star male, e spesso la malattia mentale più grave, proprio quella che porta ad agiti così violenti e assurdi, passa inosservata. La diagnosi psichiatrica è complessa, ed è lecito tenere sospesa anche quella formulata nel reparto dell’ospedale San Paolo di Milano. Ma è innegabile che Mauro abbia dato segni evidenti di malessere, la bocciatura, il comportamento incongruo in classe, tutti ricondotti a questioni disciplinari o di merito, come si direbbe oggi in linguaggio ministeriale, e di conseguenza trattati con mezzi correttivi, la cui dannosità è nota ai pedagogisti ormai da decenni, e che tuttavia imperversano perfino nelle scuole elementari. Per non dire delle bocciature nelle scuole medie, in un Paese come il nostro dove la dispersione scolastica è un serio problema.
Allora, si dice, è necessario fare formazione, dare ai docenti gli strumenti per riconoscere i segnali del malessere. Paradossalmente, viviamo in realtà in un’epoca nella quale le numerosissime diagnosi di presunti disturbi dell’apprendimento e perfino quelle di disturbi del cosiddetto spettro autistico, come lo ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder), largamente trattati con psicofarmaci dalla più tenera età, partono proprio da segnalazioni in ambito scolastico. E malgrado sia nota la correlazione tra questi disturbi, che andrebbero meglio definiti sintomi dei quali cercare la eziopatogenesi, con l’esposizione a varie tipologie di maltrattamento, ovvero a varie forme di violenza, i bambini vengono sottoposti a diagnosi e trattamenti basati sull’assunto che si tratti di malattie che hanno una base organica, ipotesi questa non sostenuta da coerenti evidenze scientifiche.
I sintomi e i segni di malessere sono richieste d’aiuto, e tanto più quando provengono da bambini e adolescenti, dovrebbero essere letti come segnali di una crisi dei rapporti umani nei quali i nostri figli, figli della nostra società arida di interesse e affettività, sono immersi. Anche Mauro, che ha attentato alla vita della sua professoressa, è vittima dell’assenza del mondo degli adulti.

Barbara Pelletti è psichiatra e psicoterapeuta.È presidente dell’associazione Cassandra