La Fondazione Massimo Fagioli non può tacere di fronte ad un fatto così terribile: l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani. È una tragedia per tante ragioni, ma è anche, bisogna dirlo forte, la tragedia della psichiatria italiana. È innanzitutto la morte di una donna sul lavoro, un medico, una psichiatra, un dirigente del Servizio sanitario nazionale che da anni affrontava la malattia mentale grave. È morta alla fine del suo turno di lavoro, all’ospedale di Pisa, mentre slegava la sua bicicletta per tornare a casa. È stata uccisa da un uomo a bastonate. Barbara era per l’uomo che l’ha uccisa colpevole di essere a capo di un «complotto di psichiatri» che da anni lo perseguitava, questo ci hanno raccontato i mezzi d’informazione in questi giorni.
Nella realtà quest’uomo era stato ricoverato nel reparto di diagnosi e cura di cui era responsabile la psichiatra. L’ultima volta nel 2019. Quattro anni fa, da allora non l’aveva mai più vista. Questi i fatti in una sintesi estrema, ma ora proviamo a capire il perché di quanto è successo, con calma, a distanza di più di una settimana, dopo tanti articoli di giornale dopo i servizi della televisione, dopo le testimonianze sui social e mentre l’Italia ha organizzato per il 3 maggio tante fiaccolate per le strade di Pisa e di tante altre città, per ricordare il suo nome. Ora dobbiamo provare a dare anche delle risposte. L’ambiente della sanità pubblica fa da sfondo alla tragedia, migliaia di aggressioni ai danni degli operatori sanitari, medici e infermieri, ogni anno, in continuo aumento, nel pronto soccorso, nei reparti, negli ambulatori, dal medico di famiglia, per ragioni spesso assurde e con l’unica pallida giustificazione che il servizio sanitario, un tempo definito il più bello del mondo, sta crollando. La gente non lo sopporta, si sente ingannata dopo 40 anni di prestazioni gratuite per tutti.
Questo è solo lo sfondo del dramma. Di fronte all’incapacità dei tanti governi che si sono succeduti nel trovare soluzioni, solo il personale sanitario combatte tutti i giorni per continuare a essere almeno dignitoso nelle risposte da dare ai cittadini. Questo faceva Barbara, questo fanno tanti colleghi nei centri di salute mentale anche della nostra Fondazione, tutti i giorni, in condizioni che peggiorano di giorno in giorno. Al centro della scena c’è, poi, il dramma nel dramma, quello della psichiatria italiana: non si può fare solo una psichiatria territoriale. Non sono bastati 40 anni per capirlo, ci è voluta la morte di Barbara per farcelo vedere. Servono strutture di ricovero, non certo i vecchi manicomi, ma strutture diverse per le singole patologie, per chi non ce la fa più a stare in famiglia servono le comunità, per chi è pericoloso come quest’uomo serve ben altro. Forse neppure le Rems, residenze per le misure di sicurezza, sono sufficienti in alcuni casi.
La legislazione attuale in materia va, lo sanno tutti, modificata ma nessuno lo ha voluto dire. Ancora prima serve che la psichiatria spieghi alla magistratura e alla gente come stanno le cose. È questo per noi il punto più dolente e terribile: la confusione della psichiatria nel capire e nel dare delle risposte chiare a quello che succede ogni giorno e questo purtroppo in tutto il mondo e non solo in Italia. In questi giorni abbiamo sentito tanti discorsi giusti, ma anche tanti discorsi confusi di giornalisti ma anche di colleghi illustri: Quest’uomo era o non era un malato di mente?
Aveva sicuramente un disturbo di personalità multiplo, narcisista e antisociale che lo aveva portato ad aggredire già in precedenza un altro psichiatra sfregiandolo in volto, aveva collezionato reati importanti tra cui un’aggressione sessuale; tutto questo avrebbe già dovuto spingere la giustizia a fermarlo, ma no, il fatto che fosse un paziente psichiatrico ha reso la giustizia indecisa e tentennante e questo gli ha sicuramente permesso di compiere l’omicidio di Barbara. Tutto questo non può che confermare che è un malato di mente e forse potrebbe essere anche da considerare imputabile perché perfettamente consapevole delle sue azioni.
E qui il nostro Codice penale andrebbe grandemente riformato e soprattutto non si può chiedere alla psichiatria territoriale di occuparsi senza strumenti di malati cosi pericolosi. Dire che non è un malato di mente chi come lui uccide con tanta efferatezza una donna, un medico, una psichiatra che nella realtà aveva solo cercato di aiutarlo e di curarlo tanto tempo prima e che invece nel suo delirio era a capo di un complotto che non era mai cessato, non ha senso. Tutto questo, la lucida follia di conservare un pensiero malato per così tanto tempo per poi compiere un delitto cosi assurdo e inutile, parlano a noi psichiatri, inequivocabilmente, di quanto può essere in alcuni, per fortuna rari casi, distruttiva la malattia mentale.
La follia può uccidere sé stessi e gli altri. Questa verità inconfutabile è continuamente negata, discussa, confusa, invece deve essere chiaro, può essere pericolosa in alcuni casi, per sé e per gli altri, ma qualcuno continua a farlo, in modo sempre più grave, a nostro avviso, come chi aveva condiviso le posizioni dell’uomo che ha ucciso Barbara. Lo fanno per un’ideologia che a tanti sembrò molti anni fa una ipotesi di liberazione del malato di mente ma che oggi rivela tutti i suoi errori. La malattia mentale può avere in sé una profonda distruttività che si esplica soprattutto nella stragrande maggioranza di casi nel rapporto interumano, nelle relazioni familiari, nelle relazioni private e affettive provocando dolore e sofferenza a se stessi e a gli altri senza causare la morte di nessuno. Solo in alcuni e rari casi la può determinare.
Chi è entrato anche una sola volta in un reparto psichiatrico di diagnosi e cura come quello dove lavorava Barbara tutti i giorni, l’ha sentita questa tensione, questa sensazione di paura che la malattia mentale grave provoca e che gli psichiatri imparano ad affrontare con la sola forza del loro pensiero e della loro umanità più che con le fragili certezze della scienza. Sentire oggi finalmente la critica di questa ideologia ci lascia sperare che la morte di Barbara non sia avvenuta invano.
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L’autore: Andrea Masini, direttore della rivista Il Sogno della farfalla, è dirigente psichiatra del Ssn, membro del Consiglio scientifico di indirizzo della Fondazione Massimo Fagioli ETS