L’agricoltura di tipo intensivo funziona solo nel 30% delle aree agricole del pianeta, in Italia solo nel 25% del territorio, soprattutto in pianura. Il risultato della incapacità di adattarsi a modelli intensivi e ad un mercato globale gestito da pochi players internazionali, è una delle cause dello spopolamento delle campagne che dalla Cina al sud America, dall’Europa all’Africa: interessa il mondo, incluso il nostro Paese, dove abbiamo abbandonato nove milioni di ettari di aree agricole, circa la metà dallo scorso secolo. E’ anche una concausa delle emigrazioni dalle campagne alla città e dal sud al nord del mondo di cui scontiamo le conseguenze.
Questo tipo di agricoltura non è riuscita a risolvere il problema della fame del mondo, con 800 milioni di persone che ne soffrono e una crescente incapacità di accedere a diete sane, che solo una decina di Paesi del mondo possono permettersi. Puntare su produzioni limitate, ma di qualità, legate all’ambiente, alla cultura e al paesaggio locale, creando un valore aggiunto non riproducibile, come insegna la Fao, è una strada da perseguire, anche perché non vi sono alternative per molte aree rurali se non l’abbandono.
Per questo motivo l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo con la Scuola di Agraria dell’Università di Firenze ha sviluppato un progetto internazionale collegato al programma Fao Giahs. In quattro anni di progetto sono stati formati 60 esperti provenienti da 25 Paesi, Asia, Africa, Centro e Sud America, in grado di gestire questo tipo di agricoltura. I risultati saranno presentati a Firenze l’8 novembre nella giornata dal titolo “Tradizione per la Transizione: l’Agricoltura della Resilienza” (Auditorium Sant’Apollonia, via San Gallo 25). Attorno al tavolo i rappresentanti di Fao, Unesco, Ministero dell’Agricoltura, delle foreste e della sovranità alimentare, Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Università di Firenze e territori da tutta Italia e dal mondo.
Qualche esempio di ciò che stiamo cercando di salvare? I contadini della zona del lago Inle in Birmania, caratterizzata da scarsità di terre coltivabili ma molte superfici coperte dall’acqua, hanno ideato delle isole galleggianti fatte di fango e paglia per coltivare ortaggi ed altri prodotti, che trasportano e scambiano sul lago con altri contadini. All’altro capo del mondo, nel deserto del Sahara, sistemi di irrigazione per sommersione che usano limitatissime quantità di acqua hanno consentito la creazione di oasi dove si coltiva di tutto, dagli olivi alla frutta, dai datteri all’uva. Allo stesso modo nel nostro Paese, per il 75% montuoso e collinare, migliaia di km di terrazzamenti hanno permesso e in parte consentono ancora, di coltivare terreni in forte pendenza, senza irrigazione, mantenendo la fertilità e limitare il dissesto idrogeologico, con una crescente attività di ripristino di questi sistemi, oggi patrimonio Unesco. Questi sono i sistemi agricoli di cui si occupa il programma mondiale Fao Giahs, iniziativa sintomatica di una riflessione in corso a livello mondiale sull’agricoltura che si discute nelle varie Cop sul clima e che interessa anche l’Europa.
Il commissario europeo all’agricoltura Janusz Wojciechowski durante il meeting sullo Stato dell’Unione, tenuto a Firenze il 5 maggio scorso ha affermato che oggi innovazione in agricoltura significa spesso il ritorno a pratiche tradizionali, forse meno produttive, ma più resilienti e meno dipendenti da variazioni climatiche e da crisi politiche. L’agricoltura di tipo intensivo, generalmente basata su un più limitato impiego di manodopera, bassi costi di produzione e alti rendimenti per ettaro, ha senz’altro contribuito a ridurre la fame nel mondo, con incrementi produttivi più che doppi rispetto al passato. E’ però una agricoltura che ha necessità di notevoli input energetici esterni (irrigazione, macchine, chimica), è estremamente dipendente dal commercio internazionale e molto fragile agli estremi climatici. Crisi politiche come quella fra Ucraina e Russia, senza scordare gli effetti della pandemia legata al Covid 19, hanno mandato in tilt il commercio dei cereali per l’aumento vertiginoso dei prezzi e la riduzione della disponibilità sul mercato a cui Paesi come il nostro possono in parte adeguarsi, pagando un caro prezzo, ma a cui molti Paesi del sud del mondo non riescono ad adeguarsi se non indebitandosi ulteriormente.
La vocazione alla “qualità” è l’unico ambito di competitività per l’Italia agricola: l’esperienza del Registro nazionale dei paesaggi storici e delle pratiche agricole tradizionali istituito presso il Masaf – di cui si cominciano a vedere i risultati – ci pone in una posizione di vantaggio. E’ un caso unico in Europa, adottato anche da Cina e Giappone. Un approccio che ci pone in prima linea e che ci permette di indicare una direzione al resto del mondo.
L’autore: Mauro Agnoletti, è titolare della Cattedra Unesco Paesaggi del patrimonio agricolo presso l’Università di Firenze
In apertura: coltivazioni nella zona del lago Inle in Birmania
Il convegno a Firenze, 8 novembre
mercoledì 8 novembre a Firenze, nell’ambito del convegno “Tradizione per la Transizione: l’agricoltura della resilienza” (Auditorium di Sant’Apollonia, via San Gallo, 25) saranno presentati i risultati di quattro anni del progetto GIAHS Building Capacity sui sistemi agricoli di importanza globale, co-finanziato da AICS, che ha portato all’individuazione di oltre 40 siti da salvaguardare e alla formazione di più di 60 manager del territorio rurale provenienti da Asia, America del Sud, Africa, Europa. Con interventi Fao, Unesco, Università di Firenze, rappresentanti di territori d’Italia e del mondo. Info e iscrizioni: www.agriculturalheritage.com/it/