La politica "Dio patria e famiglia" ha peggiorato le condizioni di vita delle donne italiane. C'è stato un arretramento per quanto riguarda il welfare, il lavoro, i servizi pubblici. Tocca a noi rilanciare la battaglia politica e culturale per il cambiamento, contro la violenza e per pieno riconoscimento dell'identità delle donne

Marzo 2024, a che punto siamo? Quale è la condizione delle donne oggi in Italia, in un Paese che per la prima volta nella storia ha una presidente del Consiglio donna? E che per la prima volta ha una donna alla guida del maggior partito di opposizione? Il 9 giugno le due leader si sfideranno, forse anche direttamente, come candidate capofila dei rispettivi schieramenti alle Europee. E noi pensiamo che fanno bene a metterci la faccia, scrollandosi dalla spalla la mano di colleghi di partito e capi corrente, provvidi di paternalistici consigli (soprattutto a sinistra).
Detto ciò, la loro personale rottura del tetto di cristallo è sufficiente per cambiare le cose? La risposta è decisamente no. La prima a sottolinearlo con onestà è la stessa Elly Schlein, che, criticando le politiche conservatrici di Meloni all’insegna di Dio, patria e famiglia, sottolinea: «Non ce ne facciamo niente di una premier donna se non lavora per le donne».
Meloni però ha fatto di più di quel che dice la segretaria del Pd: si è mossa contro le donne. Lo ha fatto concretamente quando, in barba alla (insostenibile) retorica familistica dei suoi discorsi, il suo governo ha aumentato le tasse sui beni di prima necessità per l’infanzia e per l’igiene intima. Lo ha fatto quando ha tolto anche le facilitazioni minimali per la pensione che venivano offerte con “Opzione donna”e “Ape sociale”.
Lo ha fatto quando ha tagliato i fondi del Pnrr che servivano per costruire asili nido e centri antiviolenza al sud utilizzando beni confiscati alle mafie. E molto altro, come argomenta autorevolmente Susanna Camusso ad apertura di questa storia di copertina. Qui ci limitiamo a ricordare un dato che già di per sé la dice lunga, ovvero che in Italia il tasso di occupazione delle donne tra i 15 e i 64 anni è al 52,6% nettamente inferiore a quello di tutti gli altri Paesi dell’Unione europea. E se guardiamo al Sud la media precipita ulteriormente. Nel mezzogiorno, dove la quota di donne di 15-64 anni che lavorano è il 35,8% del totale. E il governo intende peggiorare ulteriormente la condizione femminile varando l’autonomia differenziata che, bene che vada, cristallizzerà il gap di servizi e welfare tra Nord e Sud, tra grandi centri e aree interne.
La destra con tutta evidenza non lavora per l’emancipazione delle donne. Rema addirittura contro questa destra-destra che, ossessionata dalla denatalità, considera le donne solo in quanto madri, elucubrando proposte di legge antiscientifiche che prevedono il riconoscimento giuridico dell’embrione e provando a intralciare ogni libera scelta di fare figli o meno, obbligando le donne che vogliano interrompere una gravidanza ad ascoltare il battito del cuore del feto (ci hanno già provato in Regioni guidate dal centrodestra) e ostacolando l’aborto farmaceutico, in un Paese dove è altissimo il numero di ginecologi obiettori. Intanto il numero dei femminicidi non accenna a diminuire ( sono già 20 nel 2024 e sono state 120 nel 2023), così come la violenza sessuale ( più 35 per cento negli ultimi 4 anni) e gli episodi di vittimizzazione secondaria nelle Aule di tribunale, mentre la violenza domestica, che si nasconde tra le mura familiari, è un oceano sommerso.
Non aiuta da questo punto di vista nemmeno l’Europa dove fa discutere una direttiva che derubrica le molestie sul lavoro e fa un passo indietro rispetto alla necessità di considerare stupro qualsiasi atto sessuale non consensuale.
Di fronte a tutti questi segnali di arretramento culturale, abbiamo sentito l’esigenza di tornare a ripassare la storia. Non solo indagando le radici culturali di questa destra di governo che affondano nel Msi e, per quella via, nel Ventennio. Ma anche e soprattutto tornando a riscoprire i punti alti della storia e delle conquiste delle donne in Italia. Lo facciamo con tante voci di giuriste, sindacaliste, politiche, storiche e attiviste che si alternano nella storia di copertina e nel libro del mese “Resistenti” realizzato insieme al coordinamento donne dell’Anpi.
Da quel lontano 1874 quando le donne furono ammesse nei licei e nelle università, al 1919 quando venne abolita l’autorizzazione maritale e consentito alle donne l’accesso ai pubblici uffici (esclusi la magistratura, la politica e l’esercito). E poi, dopo gli anni bui del fascismo che imponeva la procreazione come principale dovere della donna e inaspriva le leggi che la sottomettevano alle scelte di padri e mariti, grazie all’impegno delle donne nella Resistenza, la conquista del voto attivo e passivo (al Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 fu determinante il voto delle donne per la scelta della Repubblica) e la stesura della Carta del 1948 a cui dettero un contributo fondamentale le costituenti. Già all’articolo 3 la Costituzione, su cui vorrebbe mettere le mani questo governo, garantisce pari diritti e pari dignità sociale alle donne in ogni campo. Poi sarebbe arrivata la grande stagione di conquiste degli anni Sessanta e Settanta, grazie ai movimenti femminili, per il divorzio, la sessualità, la contraccezione, l’aborto, passando anche per la riforma del diritto di famiglia del 1975. Nel 1981 la cancellazione del diritto d’onore e nel 1996 il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona e non contro la morale.
Di strada ne abbiamo fatta tanta, ma oggi faremmo un grave errore se dessimo queste conquiste per scontate. Prepariamoci a una nuova stagione di lotte, alzando lo sguardo, puntando al pieno riconoscimento dell’identità delle donne, uguali e diverse dagli uomini.

 

Qui l‘intervento di Simona Maggiorelli l’8 marzo, nel timone del direttore Daniele Biacchessi sul Giornale Radio