La proposta di premierato, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, voluta da Meloni, va avanti. Un progetto che, letto in un combinato disposto con la legge elettorale maggioritaria e con il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata, costituisce un rischio per la democrazia. Ne parlano qui Giovanni Russo Spena e Gaetano Azzariti.
Giorgia Meloni illustra, con orgoglio autoreferenziale, il proprio progetto di riforma costituzionale come “l’arrivo della Terza Repubblica”. Non ha tutti i torti. Sembra a me, infatti, un percorso eversivo della nostra Costituzione. Eversivo anche nel procedimento. Calamandrei ammoniva che, quando si dibatte di riforme costituzionali, bisogna farlo in Parlamento e i banchi del governo devono essere vuoti. Ora, invece, Meloni convoca, propone, detta tempi e modi. Le opposizioni parlamentari appaiono inerti.
È passata un’era geologica da quando Piero Calamandrei teorizzava che il governo dovesse rimanere estraneo ad ogni discussione sulla Costituzione. Ora siamo giunti a definire una procedura per la modifica della Costituzione diretta espressione del governo. Un ribaltamento. I passaggi che ci hanno portato sin qui sono diversi. Vale la pena ricordarli. Prima, negli anni 90, i tentativi di deroga della procedura ordinariamente prevista in Costituzione (art. 138), utilizzando le bicamerali cui assegnare compiti di modifica della intera seconda parte della Costituzione; poi l’approvazione a stretta maggioranza di riforme di grande rilievo (a partire dal Titolo V); infine l’assunzione diretta dei leaders di governo di progetti di stravolgimento della Costituzione (prima Berlusconi, poi Renzi). È segno di un cambiamento di cultura costituzionale: dalle costituzioni intese come pactum unionis a garanzia del pluralismo e dei conflitti che attraversano le società, alle costituzioni intese come decisione politica fondamentale che esprime la volontà di una contingente maggioranza parlamentare. In questo secondo scenario è chiaro che le opposizioni poco contano, anzi tendenzialmente nulla. Per fortuna la nostra Costituzione – ispirata al primo e non al secondo modello – ancora prevede alcune garanzie per evitare che tutto sia in mano alle maggioranze di turno. Forse non si può più confidare molto sulla garanzia espressa dal quorum necessario della maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere per l’approvazione della riforma in Parlamento (che, vigente un sistema proporzionale, almeno assicurava la corrispondenza della volontà parlamentare con la volontà della maggioranza degli elettori), quanto si può guardare al referendum che può essere richiesto se non si raggiunge la più elevata maggioranza dei due terzi dei suoi componenti in Parlamento. Non è bello dirlo, ma penso che le opposizioni dovranno puntare a convincere dei pericoli della riforma più il corpo elettorale che non l’attuale maggioranza. Mentre il primo, che pure è certamente frastornato dalla confusa propaganda sull’elezione del capo, può ascoltare le ragioni del dissenso, la seconda mi sembra decisa ad ottenere il risultato e poco propensa al confronto. Ciò ovviamente non vuol dire che non sia necessaria una chiara opposizione in tutte le sedi istituzionali.
Le Costituzioni vanno valutate a partire dal proprio impianto complessivo e dalla architettura di valori e diritti. La proposta di “premierato”, allora, va letta in un combinato disposto sia con la legge elettorale maggioritaria, con il 55 per cento dei seggi assegnati alle liste collegate al vincitore del plebiscito (forse portata in Costituzione), sia con il progetto di “autonomia differenziata”. Un Paese diviso, ha bisogno, secondo il governo, di un comando centrale “forte”. La democrazia parlamentare, di rappresentanza, vira verso la democrazia di investitura. Che appare uno strumento disciplinare di massa; non più partecipazione democratica, ma una delega assoluta quinquennale di un popolo inerte.
Il compromesso tra Lega e Fratelli d’Italia, la prima fautrice della più radicale forma di autonomia differenziata, la seconda della elezione diretta del presidente della Repubblica (oggi del premier), trova la sua sintesi in una comune visione di accentramento dei poteri, ora nelle mani del c.d. “governatore”, a scapito degli altri enti locali, delle città e degli stessi sindaci, ora nelle mani del capo del governo a scapito degli altri organi costituzionali, dal Parlamento al presidente della Repubblica garante. In entrambi i casi la partecipazione popolare viene considerata un ostacolo. La prospettiva è quella di conferire il potere e poi lasciare governare chi è stato investito. Non si avverte neppure l’esigenza che chi governa deve farlo in nome almeno della maggioranza della popolazione, lasciando aperti i canali delle opposizioni e della dialettica politica. Basta trovare un meccanismo di traduzione dei voti in seggi che assicurino una maggioranza assoluta a chi governa, possibilmente indisturbato, per il più lungo tempo possibile. Così si spiega la previsione di una unica elezione che assicuri non solo la scelta del capo, ma anche una sicura maggioranza parlamentare al suo seguito. Anche se dovesse essere espressione di una (relativamente) piccola minoranza di elettori. Oggi abbiamo già un Parlamento al servizio del governo, subissato da decreti legge e obbligato a votare continue fiducie, domani la dipendenza sarà ancora più forte dovendo sottostare ad un presidente eletto direttamente dal popolo. Senza neppure più la possibilità di cambiare governo e maggioranze. La norma c.d. “antiribaltone” sottrae al Parlamento ogni autonomia di indirizzo politico. Forse ogni autonomia, tout court.
Quale sarà la funzione del presidente della Repubblica? Non sarà sempre più evanescente? E il Parlamento non diventerà ornamentale? Comuni, Regioni, e ora premierato: tutta la complessa architettura costituzionale vedrebbe la prevalenza assoluta di governabilità fondata quasi esclusivamente sugli esecutivi… Il premier eletto dal popolo e il Parlamento insieme vivono e insieme cadono.
Non v’è dubbio che la figura del nostro presidente della Repubblica verrebbe ad essere travolta, sostituita da un’altra. Le affermazioni che si sentono ripetere secondo cui non si toccano i poteri attuali del capo dello Stato è pura retorica. Basta pensare che i due poteri che valgono a caratterizzare il presidente della Repubblica sono quelli di incarico e poi nomina del presidente del Consiglio e quello di scioglimento del Parlamento. Ora, l’uno si annulla, il presidente dovrà conferire l’incarico di formare il governo al premier eletto; così come dovrà sciogliere le Camere nei due casi già definiti in Costituzione (doppia sfiducia al premier eletto o di chi lo sostituisce della stessa maggioranza). Insomma, un notaio e non più un potere di garanzia e intermediazione, “reggitore degli stati di crisi”. In sintesi, potremmo dire che se oggi il Parlamento ha difficoltà ad affermare il proprio ruolo e la sua autonomia, domani avremmo compiuto l’intero percorso ed esso non avrà più nessun ruolo autonomo.
Giorgia Meloni afferma che andrà avanti anche da sola, con la sua maggioranza (che, sul tema, comprende anche Renzi, ovviamente). Settori dell’opposizione parlamentare ipotizzano una mediazione aggiungendo al progetto Meloni l’istituto della “sfiducia costruttiva”. Io ritengo che il progetto sia non emendabile, anche perché è frutto di una logica di revisionismo storico contro la Liberazione antifascista, vero cemento della Repubblica. Dovremo sin da ora prepararci: opposizione in Parlamento, campagna civica, comitati per il referendum…
La battaglia parlamentare va combattuta. Non fosse altro per fare emergere le ragioni dell’opposizione all’attuale disegno di riforma costituzionale. Più che cercare di emendare l’attuale testo (sono d’accordo con te, difficilmente migliorabile), bisognerebbe far emergere un’altra idea di riforma della nostra forma di governo. Denunciare la debolezza del Parlamento, individuare le misure istituzionali che potrebbero favorire un recupero della sua centralità, proporre un riequilibrio tra governo, Parlamento e capo dello Stato, introdurre misure per assicurare in altro modo tanto la stabilità di governi, quanto la rappresentatività effettiva dei parlamenti e dei nostri rappresentanti, modificare le regole della rappresentanza politica (il sistema elettorale) e riflettere sulle forme della rappresentanza sociale (partiti e partecipazione alla vita politica). Insomma, c’è molto lavoro da fare. Se poi si arriverà al referendum avremmo almeno contribuito a preparare il terreno, per evitare il peggio.
Questo articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre 2023 di Left dal titolo “Re Giorgia”
Illustrazione di Marilena Nardi