Uno scricciolo dall’aspetto fragile e dalla forza interiore grandissima. Così ci appare Lidia Menapace all’inizio del film che le ha dedicato il regista e attore Massimo Tarducci. Uno scricciolo di donna ma pronta a fare la rivoluzione. Una rivoluzione senza armi, ma con la cultura e con le idee.
Le armi, quelle materiali, si rifiutò di imbracciarle anche quando, giovanissima, partecipò alla lotta partigiana. Poi, nel percorso della sua lunga vita, la scelta del pacifismo si fece in lei sempre più radicale: pacifismo inteso come non violenza e insieme come proposta culturale, di cambiamento della mentalità (anche di linguaggio: «non usiamo il verbo combattere, meglio “lottare”. La lotta è nobile») e al contempo come azione concreta, senza scendere a compromessi.
«Via la guerra dal mondo», diceva da ultimo, rileggendo in chiave internazionalista «L’Italia ripudia la guerra» che è il cardine dell’articolo 11 della Costituzione antifascista. «Bisogna abolire l’esercito e investire in sanità», affermava con grande lungimiranza. Manca fortemente il suo impegno pacifista oggi che venti di guerra spirano in Europa.
Mentre scrivevo questo articolo (agli inizi di febbraio del 2022) l’Italia, obbediente alla Nato, aveva già speso 78 milioni per schierare mezzi nelle aree calde dell’Europa dell’Est e il ministro della Difesa Guerini aveva già raggiunto quota 15 miliardi per missioni di guerra in un anno. Oggi la situazione è ulteriormente peggiorata, con due guerre in corso, in Ucraina e a Gaza e il governo Meloni impegnato ad inviare armi a Kiev e ad Israele ( nonostante le rassicurazioni di Tajani) e nella sedicente missione difensiva Aspides in Mar Rosso. Mentre l’Europa di Von Der Leyen si impegna a investire in armi come un po’ fece invece saggiamente per i vaccini.
Ritroviamo dunque, più attuali che mai le parole della partigiana pacifista nel film Per Lidia Menapace, appunti di viaggio a Bolzano che ci restituisce una Lidia spiritosa, resistente, come lo è stata fino al 2020 quando il Covid purtroppo se l’è portata via a 96 anni.
Il film di Tarducci ci fa ritrovare la sua gioia di vivere, di incontrare, di spostarsi, di conoscere, di ospitare, in un flusso di immagini di partenze e arrivi, di stazioni e treni su cui amava viaggiare sempre rigorosamente in seconda classe.
Scorrono in questo film scorci della sua amata Bolzano, città di confine mitteleuropea, laboratorio di dialogo e di confronto fra culture diverse. Balenano gli spazi dove più amava stare: le piazze, la cucina, lo studio stracolmo di libri.
Lidia Menapace era un’insegnante, una ricercatrice (fu cacciata dall’Università del Sacro Cuore nel 1968 per aver preso posizione con uno scritto dal titolo Per una scelta marxista). È stata donna impegnata in politica e senatrice eletta nelle liste di Rifondazione comunista, partito a cui era iscritta fin dalla sua nascita nel 1991. Ma prima di tutto Lidia Menapace era una partigiana. «Sono una ex insegnante, una ex parlamentare, ma non una ex partigiana», dice perentoria nel film. «Perché essere partigiani è una scelta di vita».
E questo suo antifascismo calato nel presente era ciò che affascinava i più i giovani che andavano a trovarla, che le chiedevano di parlare a scuola. Ogni volta che gli studenti la interpellavano lei rispondeva sempre generosamente, raccontando la Resistenza e la ricostruzione in modo appassionato e in chiave anti eroica: «Venivamo da vent’anni di fascismo, eravamo ignoranti come le capre, non avevamo alcuna formazione politica, se ce l’abbiamo fatta noi, ce la può fare chiunque», dice Lidia ad incipit del film, passando idealmente il testimone a una studentessa, Emma Tarducci, che nel film interpreta la parte di una liceale. Il professore le ha dato da fare una ricerca su Lidia Menapace. E la giovane studentessa fiorentina si appassiona alla sua storia, la fa sua, fino a immaginarsi davanti allo specchio di essere la staffetta Bruna (nome di battaglia di Menapace), pronta a inforcare la bicicletta per portare messaggi ai compagni e disposta a nascondere nel reggiseno il plastico da piazzare su rotaie e snodi di comunicazione per impedire il passaggio di convogli nazifascisti. Sono le sequenze più suggestive del film, girate in bianco e nero diversamente dal resto dell’opera, e interpretate con grande spontaneità e freschezza da questa giovane attrice non professionista che ci ha riportato alla mente la protagonista di un rivoluzionario e originale film d’autore: Il cielo della luna di Massimo Fagioli. Ci è parsa quasi una citazione. I riferimenti al cinema d’autore (fra questi anche a opere di Reitz e Tarkovskij) a ben vedere sono molteplici e tutto sommato ben fuse con le parti di ricostruzione storica di questo lavoro che non potremmo definire solo un documentario.
Il modo con cui la telecamera accarezza il paesaggio e scova angoli imprevisti di poesia dando risonanza alle parole di Lidia e di Emma, il modo con cui il regista a partire dalla verità biografica delle due protagoniste crea due splendide immagini di donna fanno sì che Per Lidia Menapace appunti di viaggio a Bolzano esuli dagli stretti canoni di genere. Come del resto unica e fuori dagli schemi è stata l’avventura umana e politica di Lidia. Antifascista «perché il regime era autoritario, violento, corrotto, razzista, ignorante e guerrafondaio»; donna «indipendente, autonoma, vagabonda», come si definisce nel film. Ma anche femminista. Di un femminismo nuovo, che vuole essere anche femminile, come ha raccontato nei suoi libri.
Nata a Novara nel 1924 come Lidia Brisca veniva da una famiglia mazziniana, laica, antifascista. Suo padre ferroviere fu deportato prima in Polonia poi in Germania. Lidia si rese conto per la prima volta della violenza fascista quando due compagne di scuola di origine ebraica furono allontanate dalla scuola e lei invece ricevette il timbro sulla pagella: «Di razza ariana». La madre le disse di strapparla perché «noi non siamo animali. Gli esseri umani non si dividono in razze». Fu lei a incoraggiarla ad essere indipendente. E Lidia Menapace lo è stata davvero, battendosi per il divorzio e per l’aborto e negli ultimi anni anche per abolire il Concordato. Senza sudditanze psicologiche stigmatizzava il bigottismo morale non solo della Dc (di cui aveva fatto parte come assessore della provincia di Bolzano) ma anche del Pci: «Togliatti disse che le donne non dovevano sfilare il 25 aprile del 1943, perché il popolo non avrebbe capito», ricordava sempre. Anche con libri autobiografici come Canta il merlo sul frumento (Manni, 2015) e Io, partigiana (Manni 2014) Menapace ha voluto raccontare l’altra metà della Resistenza, a lungo negata. «Senza le donne la Resistenza non ci sarebbe mai stata – dice nel film di Tarducci -. Rischiando la vita davano rifugio, un piatto di minestra. E non era solo un’attività domestica, fu decisivo»: Si ribellava alla narrazione “ancillare” della partecipazione delle donne alla Resistenza. Che per le donne in certo modo, è un cimento che dura da millenni. «Il movimento delle donne è come l’acqua che scorre ovunque», dice Lidia Menapace in un altro bel docufilm Non si può vivere senza una giacchetta lilla di Novella Benedetti, Chiara Orempuller e Valentina Lovato. E aggiunge: «Ogni tanto però si perde. Sembra che si imbuchi, ma poi riemerge. Ha un andamento,un modo sotterraneo che rappresenta una vitalità nascosta – racconta -. A me piace dire che il femminismo assomiglia a questo. È un fenomeno tra ombre e luce, tra superficie e sottoterra, è sempre vissuto insieme all’umanità. Ogni tanto sprofonda e sono tempi di terribile dominio maschile e basta. Qualche volta emerge un pochino. Non è ancora mai emerso definitivamente. Non è ancora quel grande fiume placido che occupa tante pianure quando va in piena. Però pensando che è una storia lunga millenni non possiamo neanche lamentarci – scherza Lidia – abbiamo fatto abbastanza baccano».
Questo articolo è un estratto dal libro di Left Partigiane dei diritti.
La foto di apertura è di Zintosch7 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=97724457