Dal 7 aprile al 16 luglio 1994 furono uccise quasi un milione di persone di etnia Tutsi e Hutu moderati, dopo un lungo processo di istigazione all'odio e di deumanizzazione del "nemico" fomentato da potenze coloniali e dalla Chiesa

Trent’anni fa, il 7 aprile del 1994, in Rwanda iniziò l’agghiacciante genocidio della minoranza Tutzi (e degli Huti moderati) da parte degli Huti. Il genocidio causò la morte di quasi un milione di persone. E molta parte del mondo occidentale voltò la testa da un’altra parte derubricando quella immane tragedia a conflitto inter-etnico, quando era il risultato del dominio di Paesi occidentali colonialisti, in primis il Belgio e della Chiesa responsabili di aver differenziato le etnie per metterle le une contro le altre, in nome del dividi e impera e per evangelizzare.

Così nel piccolo Paese africano, stretto fra Tanzania, Congo e Uganda, nel giro di cento giorni fu una carneficina in una guerra fratricida istigata da colonizzatori occidentali. Fra questi anche la Francia che apparentemente si adoperò per fermare il conflitto e di fatto finì per favorire il regime genocidario. Lo stesso presidente Macron che nel 2021, all’indomani della pubblicazione del rapporto Duclert, aveva ammesso la responsabilità politica, istituzionale e morale di Parigi, ieri ha detto che “la Francia avrebbe potuto fermare il genocidio in Rwanda ma non ne ha avuto la volontà”. Da quell’inenarrabile dramma colpevolmente non abbiamo voluto imparare nulla. Non abbiamo fatto nulla perché non si ripetesse lì o altrove. E oggi torna lo spettro del genocidio a Gaza.

In Rwanda quel fantasma si aggira ancora perché è mancata una vera elaborazione collettiva, nonostante tentativi di pacificazione sul modello Sudafricano. Nel Paese due terzi della popolazione ha meno di trent’anni e per fortuna non ha vissuto direttamente quel dramma. La realtà economica rwandese è fra le più rampanti d’Africa, specie sul versante high tech, ma le ferite sotterranee sono enormi, mentre da un punto di vista politico pesa il giogo della stretta autoritaria. Il presidente Paul Kagame è al potere dal 2000, fra repressione, campi di solidarietà e tribunali comunitari, dove le vittime superstiti sono state chiamate a incontrare i carnefici. Ma è avvenuto in un corto circuito fra tentativo di riconciliazione e negazione di dinamiche democratiche. Intanto molti responsabili del genocidio sono tranquillamente all’estero. Sul genocidio del Rwanda venne istituito dalle Nazioni Unite un tribunale internazionale in Tanzania con un dibattimento durato ben 21 anni, il risultato nei fatti è stato fallimentare. Molti dei responsabili del genocidio sono riusciti a fuggire perlopiù in Francia e in Belgio. Altri hanno trovato riparo in Congo.

Continuando a interrogarci su quegli inimmaginabili cento giorni – dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994  quando centinaia di migliaia di persone furono uccise a colpi di machete, armi da fuoco e bastoni chiodati – con mille domande sulle radici di tanta furia omicida, torniamo a leggere il libro di Vania Lucia Gaito Il genocidio del Rwanda pubblicato da L’Asino d’oro che indaga a fondo le responsabilità coloniali e il ruolo della Chiesa.

Una chiave di lettura letteraria viene invece dal graphic novel Rwanda i giorni dell’oblio realizzato qualche anno fa da Martina Di Pirro (già autrice di reportage per Left, come La rinascita al femminile del Paese delle mille colline) realizzato con la disegnatrice Francesca Ferrara e pubblicato da Round Robin. Il libro nasce dall’esperienza viva e dolorosa di alcuni testimoni, soldati arruolati inconsapevoli e vittime e smaschera la fandonia che si sia trattato solo di un conflitto tribale, interetnico, legato ai clan locali, una lettura imperniata sull’idea che alla base ci sarebbe stata una (inesistente) questione razziale, dunque biologica, immodificabile. Il libro prende le mosse dalla storie vere di un ex soldato francese Jean, che giovanissimo lasciò gli amici e la cameretta con il poster di Thomas Sankara, l’eroe civile del Burkina Faso, pensando di partecipare a una missione di pace, e Marie, scampata da bambina al massacro proprio grazie a Jean. Lei riesce a ritrovarlo, a scovarlo nel buio di una crisi personale profonda, a tirarlo fuori dall’assedio dei sensi di colpa e dalla disperazione per ciò che ha visto, riaccendendo in lui la forza di vivere e di denunciare. Nella memorie di infanzia di Marie, immaginata dalle autrici, ci sono immagini vivide di compagni di scuola Hutu e Tutsi, ugualmente amici, indistinguibili. D’un tratto poi, costretti a diventare nemici, a combattersi a colpi di machete.

«Sistematicamente lo sterminio si estese alle scuole, alle chiese, agli ospedali, in una serie di episodi atroci che videro torbe di contadini armati di machete, di mazze chiodate, degli strumenti più disparati, dare la caccia, inseguire, ferire, uccidere i loro vicini, i loro ex amici tutsi, per cancellarne la presenza e la memoria», scrive Vania Lucia Gaito nel libro Il genocidio del Rwanda dell’Asino d’oro che richiamavamo poc’anzi. In Rwanda gli estremisti Hutu chiamavano inyenzi, scarafaggi, i Tutsi e attuarono il massacro dicendo di voler sradicare le erbe cattive. «Furono massacrati a colpi di machete anche migliaia di bambini» scrive Gaito «uccidendoli si obbediva all’ordine di estirpare le radici». Marie non è solo sopravvissuta fisicamente alle atrocità perpetrate da una parte della popolazione Hutu, ma è riuscita anche a non farsi avvelenare la vita dall’odio. Non odia e non perdona, ma vuole sapere, cerca la verità e coraggiosamente s’interroga su come sia possibile che un essere umano possa arrivare a vedere un altro essere umano come un animale, come una cosa, da eliminare.

È la domanda cruciale che ci portiamo dietro dal Novecento, è la voragine aperta dalla Shoah. Come e perché alcuni esseri umani arrivano a negare l’umanità di propri simili perdendo così irrimediabilmente anche la propria? Perché è accaduto? Come evitare che possa accadere di nuovo? Primo Levi in Se questo è un uomo descrive il lucido e sistematico processo con cui i nazisti non solo sterminavano fisicamente ebrei, rom e comunisti, fino a farne sparire anche i corpi come se non fossero mai esistiti, ma prima perversamente cercavano di annichilire e annientarne l’umanità, cancellando i loro nomi, sostituendoli con un numero inciso sul braccio, annullando la loro realtà affettiva, il loro mondo interiore, cercando di bloccare in loro ogni traccia di pensiero e di immaginazione, attraverso la tirannia di una quotidianità vessata dalla fame e dalle torture, ridotta a soli bisogni primari, come quella degli animali.

I processi di deumanizzazione, in forme diverse, hanno segnato le guerre sporche dell’America latina dove i nemici erano descritti come sovversivi, pidocchi, parassiti, larve, scarafaggi infestanti. Un processo simile di negazione dell’umanità dell’altro, da colpire e sterminare, è stato messo in atto dall’esercito statunitense ai danni della guerriglia e della popolazione civile in Vietnam. È accaduto in Darfur. È accaduto in Bosnia. Accade oggi a Gaza dove la popolazione civile, ostaggio di Hamas al pari degli israeliani sequestrati nel pogrom del 7 ottobre, viene braccata e sterminata dall’esercito israeliano, istruito dai capi dell’ultra destra di governo che chiamano i palestinesi animali.

La Shoah è un fatto unico nella storia, il più disumano. Ma non possiamo non vedere che continuano ad essere perpetrati anche altri atti genocidari. È necessario capire i processi, distinguere, e ogni volta vedere le cause della violenza visibile e invisibile, che si può e si deve rifiutare e fermare, perché non è innata negli esseri umani, non è un destino ineluttabile.