Da Nduduzo Makhathini a Kamasi Washington viaggio nel nuovo jazz che ha radici sudafricane, caraibiche, sub-sahariane. Londra, capitale multietnica, è al centro di questa ricerca senza confini
"Il jazz è morto!”. Questa stanca ed inutile affermazione si ripresenta ciclicamente nel dibattito tra appassionati ed “addetti ai lavori” alludendo all’eterno scontro sotterraneo tra nostalgici e propugnatori del nuovo verbo. Il jazz è per propria intrinseca natura, musica di ricerca e contaminazione e trae nutrimento dalle culture, dalla storia e dalle condizioni sociali dell’intera popolazione, ivi compresi gli artisti ed i musicisti che si muovono in quel contesto. Pertanto, come un’araba fenice, il jazz ciclicamente risorge dalle proprie ceneri assorbendo e rielaborando le influenze esterne che, in una società ormai globalizzata, possono arrivare da tutte le parti del mondo in tempo reale. In questo scenario non desta stupore il fatto che alcune delle suggestioni più interessanti del jazz contemporaneo arrivino da luoghi un po’ “eccentrici” rispetto alla più consueta provenienza statunitense o europea. Le linee di confine tra i generi musicali, un tempo ben definite ed anche geograficamente circoscritte, si fanno sempre più sfumate e spesso scompaiono nell’attitudine all’ascolto delle nuove generazioni, abituate ormai ad assorbire suggestioni e stili che la rete mette facilmente a portata di mano. Ecco allora che musicisti caraibici, sudafricani, orientali o sub-sahariani arrivano ad influenzare i nuovi ascoltatori ormai abituati all’incontro con musiche “altre”. Tra gli artisti affermatisi negli ultimi anni Nduduzo Makhathini, pianista compositore e band leader, viene dal Sud Africa, e dopo una serie di lavori registrati nel Paese di origine, ha inciso due album per la prestigiosa Blue Note che, con il suo ultimo lavoro In the spirit of Ntu, ha voluto inaugurare una nuova specifica collana denominata Blue Note Africa. Makhatini, influenzato dall’approccio contemplativo di Coltrane e McCoy Tyner, si riaggancia comunque ad una tradizione jazzistica sudafricana di grande spessore, portata avanti non senza difficoltà - a dispetto dei lunghi anni di terribile apartheid - da un gruppo di illustri musicisti costretti all’espatrio come il pianista Abdullah Hibrahim (Dollar Brand), in arrivo a maggio in Italia (v. box), il trombettista Hugh Masekela e l’indimenticabile Miriam Makeba. Anche in America ci sono molte novità interessanti che si muovono all’interno o al contorno del cosiddetto Bam (acronimo per Black american music), un movimento radicale lanciato dal trombettista Nicholas Payton, che rivendica con forza le radici afroamericane della propria musica, rifiutando a priori l’appellativo ormai consunto di “jazz”.

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