Parigi, 1893. La storia d’amore tra Pierre Bonnard (Vincent Macaigne) e Marthe de Méligny (Cécile De France) è, fin dal primo incontro, travolgente. Lui è uno degli esponenti del movimento dei giovani artisti francesi Les Nabis, lei una donna enigmatica, moderna e indipendente, che si finge un’aristocratica italiana in rovina. Una compagna d’arte e di vita che rivoluzionerà totalmente la vita privata e artistica del pittore. «Non so neppure il tuo nome». Pierre ne verrà a conoscenza solo molti anni dopo, in occasione del loro matrimonio: Maria Boursin.
In Ritratto di un amore (Bonnard, Pierre et Marthe), film d’apertura al Rendez-Vous 2024, Martin Provost affida al racconto cinematografico una storia appassionata, prendendo le distanze dalla ricostruzione storica e aneddotica del biopic, per porre i suoi personaggi all’interno di uno spazio e di un tempo quasi sospesi, impalpabili.
Marthe entra prepotentemente con il suo corpo nelle opere di Pierre, di cui rimarrà protagonista indiscussa per decenni. La loro lunga e tormentata relazione, nata in pieno fermento artistico parigino, porterà gradualmente i due amanti a rifugiarsi in una dimensione di isolamento, e la stessa vivacità dei colori delle tele di Pierre tradisce un senso di profonda malinconia. Permane un senso di vibrante mistero dietro le immagini del film, quello stesso mistero che aleggia intorno alla storia d’amore, quello indagato dal pittore attraverso la ricerca e la rappresentazione delle linee del corpo femminile e infine, il mistero che il regista francese tenta di restituire in parte, disseminando nella messinscena le tracce di profonde quanto impenetrabili dinamiche di rapporto tra l’uomo e la donna.
Presentato nella sezione Cannes Première 2023, e al cinema con I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection, Ritratto di un amore nasce dall’incontro del regista con Pierrette Vernon, pronipote di Marthe, che un giorno contattò Provost affinché realizzasse un film sulla sua prozia, il cui ruolo fondamentale nell’opera di Bonnard non è stato mai abbastanza riconosciuto. Ma è necessario fare ritorno a tempi più lontani, all’infanzia stessa del regista per comprendere la fascinazione che questa storia ha suscitato in lui: «Quando ero piccolo, mia madre mi portò da una mostra a Parigi una riproduzione che rappresentava Marthe dipinta da Bonnard seduta al tavolo della Roulotte davanti a un paesaggio lussureggiante, vibrante di luce e colori. Scoprii in seguito che la Roulotte era la piccola casa sulle rive della Senna in Normandia dove la coppia visse in simbiosi ma anche in reclusione per molti anni. Quel luogo in cui Bonnard raggiunse la realizzazione personale come artista. Appesi la riproduzione alla parete della mia camera da letto per poterla guardare mentre mi addormentavo la sera. Ero troppo giovane per capirlo, ma qualcosa in quell’immagine mi affascinava, la sua sensualità e la stranezza che emanava. Come se fosse una finestra aperta su un altro mondo».
Nel 1912 Pierre e Marthe si stabiliscono alla ‘Roulotte’, nei pressi dell’abitazione del pittore francese Claude Monet, interpretato nel film da André Marcon. Un luogo che ha ispirato molto Bonnard, che qui dipinge i suoi quadri più famosi, nei quali Marthe viene rappresentata mentre è intenta a lavarsi, o sdraiata nella vasca da bagno.
Quando, più tardi, nel 1925 Pierre e Marthe si trasferiscono in una villa a Le Cannet, sulla riviera francese, la natura mantiene il suo ruolo preminente quale location ideale e spazio fecondo per la creatività. Eppure, quel volontario isolamento nasconde profonde insidie, che non permettono una reale e autentica scoperta di se stessi e dell’altro, divenendo un ostacolo alla conoscenza e alla libera realizzazione della propria identità.
«Perché Pierre decide di dipingere solo il mio corpo? Il mio volto è sempre sfocato»: la donna intuisce l’incapacità dell’uomo di ‘vedere’ e di rispondere intimamente alle più profonde risonanze del rapporto. Marthe si ammala, perde gradualmente se stessa e il rapporto con la realtà, nonostante il tentativo di esprimere il proprio talento creativo, iniziando a dipingere, con lo pseudonimo di Marthe Solange. Dopo la prima esposizione dei suoi quadri, la donna abbandonerà i pennelli, soccombendo all’aggravarsi della malattia mentale.
Il costante rapporto tra interno ed esterno – spazio fisico ma anche e soprattutto interiore – è rappresentato, nelle opere di Bonnard, da una visione parziale del reale, mediata spesso dai vetri di una finestra che impediscono la nitidezza dello sguardo. Pierre sembra voler fermare il tempo e catturarne la memoria, delegando all’uso audace del colore e alla compresenza di diversi punti di vista in un’unica opera, le risposte all’impossibilità di mettersi davvero in gioco, in particolare nel rapporto con Marthe. La donna rimane un mistero incomprensibile, e l’uomo sembra arrendersi all’incapacità di afferrarne fino in fondo le domande, i guizzi improvvisi, i trasalimenti, come suggeriscono le stesse parole trovate per caso tra le pagine di un libro dimenticato in quella che sarebbe diventata di lì a poco la loro abitazione a Le Cannet: «faccio sovente un sogno, bizzarro e penetrante su una donna sconosciuta che amo, e che mi ama. E che ogni volta non è proprio la stessa, e neppur del tutto un’altra che m’ama e mi comprende…».
Il regista Martin Provost racconta la travolgente storia d’amore tra il pittore Pierre Bonnard e Marthe de Méligny e l'arte che nacque dal loro rapporto