L’ufficio stampa del governo di Gaza ha reso noto che dall’inizio dell’escalation di violenza con Israele, partita il 7 ottobre 2023, ben 182 giornalisti palestinesi sono stati uccisi in attacchi israeliani, un bilancio drammatico che ha portato l’ente a parlare apertamente di “guerra di genocidio” in corso contro la popolazione civile e contro la libertà di stampa. Non più voci libere, ma macchie di sangue su una mappa che si tinge sempre più di rosso. In una dichiarazione rilasciata recentemente, l’ufficio ha espresso una condanna netta per quello che considera un attacco deliberato e coordinato contro i professionisti dell’informazione nella Striscia di Gaza, ribadendo la piena responsabilità di Israele per queste morti e per i gravi rischi a cui i giornalisti palestinesi sono esposti. Il governo di Gaza ha anche invitato la comunità internazionale e le organizzazioni giornalistiche globali a intervenire, sollecitando le istituzioni preposte a far pressione per fermare il “genocidio” e, soprattutto, a perseguire Israele nei tribunali internazionali per quello che viene considerato un crimine di guerra.
L’appello per una protezione più efficace dei giornalisti si basa anche sui dati diffusi dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti, secondo cui Gaza è diventata il luogo più pericoloso al mondo per chi opera nel settore dell’informazione. La Striscia è diventata un cimitero per le parole. Una necropoli dove la verità viene seppellita viva, sotto il peso di proiettili e silenzi. L’organizzazione ha calcolato che, nel 2023, il 75% dei giornalisti deceduti a livello globale ha perso la vita proprio nel contesto del conflitto in corso a Gaza. Con un tasso di mortalità superiore al 10% per i giornalisti attivi nella Striscia, il conflitto israelo-palestinese rappresenta il punto di crisi più critico per la stampa negli ultimi 30 anni, evidenziando una situazione che rischia di precludere del tutto la possibilità di raccontare gli eventi in modo indipendente. La situazione diventa ancora più complessa considerando che Israele ha vietato l’ingresso ai giornalisti stranieri, ha alzato un muro di gomma intorno al suo regno di morte, sollevando sospetti sul fatto che questa decisione possa mirare a ridurre al minimo la visibilità di quanto accade nel territorio palestinese e delle condizioni in cui la popolazione civile e gli operatori dei media si trovano costretti a operare.
In parallelo all’escalation di violenza fisica, si è assistito anche a un’intensificazione delle accuse nei confronti dei giornalisti palestinesi, con le autorità israeliane che, il 23 ottobre, hanno dichiarato che sei giornalisti di Al Jazeera sarebbero affiliati a gruppi armati come Hamas o la Jihad Islamica palestinese. Le forze israeliane sostengono di possedere “documenti” che dimostrerebbero il coinvolgimento di questi giornalisti in attività militari, compreso l’addestramento e la retribuzione per le attività, ma finora non sono state rese disponibili prove tangibili a sostegno di queste affermazioni. I giornalisti in questione, tra cui Anas al-Sharif, Talal Aruki, Alaa Salama, Hossam Shabat, Ismail Farid e Ashraf Saraj, vengono così indicati come soggetti non solo scomodi, ma anche “nemici”, condannati a rischiare la vita in un ambiente sempre più pericoloso. Al Jazeera, unica testata internazionale con una presenza costante nel territorio, ha negato con fermezza le accuse, definendole “fabbricate” e mirate a ostacolare l’ultimo baluardo di informazione e trasparenza rimasto a documentare la crisi umanitaria in atto nella Striscia di Gaza, conseguente agli attacchi e all’assedio che la popolazione civile sta subendo.
Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha reagito con durezza alle accuse israeliane, sottolineando come la pratica di diffamare i giornalisti palestinesi etichettandoli come terroristi sia già stata osservata in passato e abbia contribuito a una percezione distorta della realtà sul campo. Il CPJ ha dichiarato che questo tipo di tattiche, in base al diritto internazionale umanitario, costituisce un crimine di guerra, poiché i giornalisti, a meno che non prendano parte attiva alle ostilità, mantengono lo status di civili e devono essere protetti come tali. Nel caso di Ismail al-Ghoul, un giornalista di Al Jazeera ucciso a luglio a Gaza City, il CPJ ha segnalato che Israele, dopo averne dichiarato l’affiliazione a Hamas, ha diffuso informazioni contrastanti sostenendo che al-Ghoul avrebbe ricevuto un grado militare nel 2007, all’età di dieci anni. Tutto ciò evidenzia una situazione in cui le informazioni sembrano essere manipolate e in cui la narrazione dei fatti rischia di venire compromessa da tendenze ideologiche, rendendo sempre più difficile ottenere un quadro veritiero di ciò che accade.
Le accuse israeliane contro i giornalisti palestinesi hanno inoltre sollevato serie preoccupazioni tra gli attivisti dei diritti umani e i difensori della libertà di stampa, che vedono in tali affermazioni una giustificazione per proseguire la violenza contro chi cerca di raccontare la crisi in atto. L’allarmante tendenza a criminalizzare il lavoro giornalistico a Gaza evidenzia quanto sia precario il contesto per i professionisti dei media, specialmente per coloro che, come i palestinesi, si trovano bloccati in una prigione a cielo aperto dove i margini per documentare gli eventi sono estremamente limitati.
La situazione dei media nella Striscia di Gaza riflette quindi non solo un rischio per la sicurezza fisica dei reporter, ma anche un grave attacco alla libertà di informazione. La chiusura dell’accesso ai giornalisti stranieri, le accuse di affiliazione terroristica e le minacce alla sicurezza di chi continua a lavorare nella zona rendono impossibile una narrazione trasparente e indipendente.La comunità internazionale, le organizzazioni per i diritti umani e le principali associazioni di stampa hanno espresso il loro supporto ai giornalisti palestinesi e l’urgenza di fermare queste dinamiche pericolose per la democrazia e la verità. Tuttavia, la combinazione di restrizioni e accuse infondate rende sempre più complicato l’accesso alle informazioni e il monitoraggio imparziale degli eventi, mettendo a rischio il diritto all’informazione e limitando la capacità della stampa di agire come un contrappeso indipendente nei conflitti.
A Gaza, la verità è un clandestino. Nascosta tra le macerie, inseguita dai proiettili, braccata dal silenzio. Eppure, c’è chi la cerca ancora, chi la protegge, chi la fa risplendere in un buio pesto. I giornalisti palestinesi sono i guardiani di questa fiammella, i portatori d’acqua in un deserto di menzogne. Continuano a lavorare, nonostante le minacce, le intimidazioni, la morte che li sfiora. Sono i nostri occhi in una terra di non-luogo, la nostra voce in un mondo che vorrebbe far finta di non sentire.
La resilienza dimostrata da questi giornalisti che continuano a lavorare in condizioni proibitive rappresenta una sfida aperta a chi cerca di ostacolare il diritto a raccontare i fatti. Il loro impegno nel portare alla luce le conseguenze umanitarie di questo conflitto appare essenziale, perché, nonostante le pressioni, rimane un mezzo per mantenere l’attenzione internazionale sulle violazioni dei diritti fondamentali nella regione.
L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce